giovedì 22 novembre 2018

Mai guardare indietro!

Eduardo

La marcia di Eduardo verso il sogno americano
di Carlo Bonini

TIJUANA.
Eduardo Trochez, all’anagrafe Marcio Eduardo Trochez Ortiz, 24 anni, da Olanchito, nord ovest dell’Honduras, tra due settimane taglierà per sempre l’ultimo ponte che si è lasciato alle spalle alle due del pomeriggio di sei settimane fa. Perché, il prossimo 3 dicembre, Eduardo non si ripresenterà al battaglione della fanteria di Marina del suo Paese, di cui è ancora ufficialmente un sergente di prima classe, e verrà dichiarato disertore. Quel giorno, il suo capitano scoprirà che la licenza straordinaria che gli aveva concesso all’inizio di ottobre non era per motivi familiari, come lui gli aveva raccontato mentendo. Ma un biglietto di sola andata verso un’altra vita e un altro mondo. Anche per questo, tra due settimane, sarà più facile per Eduardo scacciare anche solo la tentazione di tornare indietro per riabbracciare tutto ciò che ha di più caro al mondo e che non sa se potrà mai rimettere insieme: sua madre Dunia, 49 anni, contadina in un campo di banani, sua moglie Devi, 24 anni come lui, disoccupata, e i suoi figli Elbin, 6 anni, Dilan, 4 anni, e Eithan, 3 mesi. «Non li rivedrei comunque. Da disertore finirei in un carcere», dice invitando ad allontanarsi di qualche centinaio di metri dall’ingresso del campo profughi "Benito Juarez", dove è arrivato giovedì della scorsa settimana, 15 novembre, dopo un viaggio di 4.500 chilometri, e dove consuma giornate senza fine. Tra il giaciglio che gli è stato assegnato, i bagni, la mensa. Già, ha voglia di raccontare, Eduardo, ma senza avere occhi addosso, soprattutto in questa mattina complicata, nervosa, con la polizia messicana che si è portata via in manette 34 migranti arrivati, come lui, con la Carovana della Vita e arrestati per spaccio.

AMBASCIATORI DI CRISTO
Ha lo sguardo, la forza e la spinta vitale del giovane uomo che è, Eduardo. Ma ha le cicatrici di un vecchio. Cui il destino ha bruciato troppo in fretta il tempo delle cose. E nel posto sbagliato, per giunta. Fin dal giorno in cui è nato, 24 anni fa, quando suo padre, Raphael, sparì da casa. «Non l’ho mai conosciuto. Non so come sia fatto. Ma conosco la sua voce. Quando ero già grande mi telefonò. Mi disse che viveva negli Stati Uniti da clandestino da quando ero venuto al mondo e lui aveva lasciato l’Honduras. Ma non mi ha mai voluto dire dove. L’ho chiamato al telefono nelle scorse settimane mentre risalivo il Messico con la Carovana. Gli ho detto che volevo entrare negli Stati Uniti. Gli ho chiesto aiuto. Speravo mi dicesse di raggiungerlo. E invece ha messo giù augurandomi buona fortuna. Poi, non ha più risposto neppure ai miei messaggi».
Funziona così in Honduras, un paradiso naturale stretto tra il Pacifico e il mar dei Caraibi e abitato da demoni. Il Paese più violento al mondo per percentuale di omicidi (42,8 ogni 100mila abitanti). La terra che, da un decennio, gronda del sangue dei colpi di Stato, degli squadroni della morte, e delle armi delle pandillas, le sue bande criminali — i "Maras Salbatrucha", gli "Ms", i "18" — e dove, tra il 2012 e il 2013, ci sono stati più morti che in Iraq. «Non devi mai guardarti indietro nel mio Paese. Perché quasi sempre non trovi più niente. E, soprattutto, non c’è nulla che valga la pena rimpiangere. L’unica cosa che conta è rimanere vivi e aggrappati al sogno di poter essere un giorno altrove». Quello che Eduardo aveva cominciato a coltivare da adolescente, quando era un promettente centrocampista degli "Embajadores de Cristo", gli Ambasciatori di Cristo, una delle squadre di calcio di Olanchito. «Io e i miei amici Victor, Herlin, Carlos giocavamo insieme. E ce lo ripetevamo sempre. "Un giorno andremo negli Stati Uniti". Ma, alla fine, ce l’ha fatta solo Carlos. Mi chiamò il giorno che riuscì a entrare da clandestino qualche anno fa. Poi, come mio padre, più nulla. Non si è più voltato indietro».

FUCILIERE DI MARINA
Victor, Herlin e Carlos sono ancora vivi. «E questa è una fortuna. Non succede mai che i tuoi amici di infanzia siano ancora tutti vivi alla nostra età». «Alla nostra età». Eduardo lo dice come fosse un’ovvietà che i ventiquattro anni, quanti lui ne ha, siano un’aspettativa tutto sommato decente per chi nasce in Honduras. Ma ha ragione. È una fortuna. E la sua ha avuto un nome: Marina Militare. «Facevo l’elettricista, mia madre lavorava nei campi di banani e non riuscivamo a mettere insieme il pranzo con la cena. L’alternativa era tra le pandillas e la Marina. Ringraziando Dio e l’educazione che mi ha dato mia madre, ho scelto la Marina. Mi sono arruolato a 18 anni. Mi ha cresciuto come avrebbe fatto un padre, se solo lo avessi avuto. Mi ha fatto diventare un uomo. Mi ha dato da vivere». Seimila lempiras (la moneta honduregna) al mese. Duecento euro. Poco più di 6 euro al giorno. «Mille e cinquecento lempiras le davo a mia madre per aiutarla a campare, 800 le pagavo per la casa della mia famiglia e il resto servivano per comprare da mangiare ai miei figli e a mia moglie. Ma non bastavano mai». La casa di Eduardo, due stanze, una macchina per cucinare, una latrina all’esterno, e niente acqua — «La compravamo e la scaldavamo in casa con le bombole del gas» — non può essere un posto dove far crescere decentemente cinque esseri umani. «Anche per questo la Marina è stata una fortuna. Io vivevo in caserma con turni di 45 giorni consecutivi, intervallati da 10 di permesso. In questo modo io risparmiavo sul cibo. E la mia famiglia aveva anche più spazio». Si capisce dunque perché per un po’ questa che Eduardo chiama "fortuna" le sia sembrata davvero tale. Anche quando, vestendo l’uniforme da fuciliere, ha ucciso il primo di una serie di uomini di cui non ha mai voluto tenere il conto. «Il governo usava il mio battaglione per combattere le gang. In città e in mare, dove davamo la caccia ai Narcos. La prima volta che mi spararono addosso capii che o uccidevo o sarei stato ucciso. E da allora non ci ho pensato più. Facevo fuoco sul bersaglio a cui mi veniva ordinato di tirare». Poi, un giorno, tornando a casa durante uno dei suoi permessi, Eduardo trovò Devi, sua moglie, che piangeva a dirotto. «Mi confessò che i soldi del mio stipendio, che le avevo fatto avere qualche giorno prima, erano finiti. Che da settimane, ormai, comprava tutto a credito. Anche i pannolini e il latte per Eithan. E allora decisi. Avrei colto la prima occasione che fosse capitata. La prima. Avrei realizzato il mio sogno di bambino. Gli Stati Uniti. Per me, per Devin, per i miei tre figli. Per dargli un futuro, un giorno. Si, sarei partito. E lo avrei fatto con Exell, mio cognato. Che la pensava come me».

UNA BIBBIA, DUE PANTALONI E TRE CAMICIE
Il 2 ottobre, il battaglione di Eduardo viene comandato di pattuglia nelle strade di Olanchito. «Ci era stato ordinato di garantire la sicurezza durante il passaggio di una carovana di migranti honduregni diretta verso il Messico. Mentre li vedevo passare, mi chiamò al telefono Exell. Mi spiegò che aveva parlato con gli organizzatori. Che potevamo unirci. Ma dovevamo farlo subito. Telefonai allora immediatamente al mio capitano dicendogli che avevo un’emergenza con la mia famiglia e avevo bisogno di una licenza straordinaria. Me la negò. Tornai a chiedergliela il giorno dopo e quello dopo ancora, finché non si convinse. Ero un buon sergente. E lui pensò me la meritassi. Così, arrivai di corsa a casa la sera del 4 ottobre e dissi a Devin che sarei partito con Exell. Passammo la notte in bianco. A piangere e baciarci. Poi, lei mi aiutò a fare la borsa. Ci mise dentro la Bibbia, due paia di pantaloni, due paia di scarpe e tre camicie. Alle due del pomeriggio, diedi l’ultimo bacio a lei e ai miei figli e uscii di casa con mille lempiras in tasca. Tutto quello che mi era rimasto. Ero vestito esattamente come sono vestito oggi».

INSEGUENDO LA CAROVANA
Quel pomeriggio del 5 ottobre, il ritardo di Eduardo e Exell sulla Carovana è di cinque giorni.
«Sapevamo quale itinerario avrebbe seguito e che avremmo dovuti riunirci da qualche parte nello Stato messicano del Chiapas. Ma dovevamo sbrigarci». Con un autobus raggiungono prima san Pedro Sula e quindi, in autostop, Santa Rosa de Copán, alla frontiera con il Guatemala, dove Eduardo e il cognato ottengono un permesso temporaneo di soggiorno di dieci giorni con l’obbligo di rientrare in Honduras alla scadenza. Le mille lempiras erano già finite.
«Incontrammo una signora guatemalteca. Le raccontammo perché stavamo scappando dal nostro Paese. E lei ci accolse in casa. Ci diede da mangiare, ci fece lavare e ci offrì anche di lavorare per la ditta di cui era impiegata. Ma la mattina dopo ci facemmo accompagnare sul ciglio dell’autostrada per continuare il nostro viaggio». La notte del 9 ottobre, Eduardo ed Exell sono sulla riva del fiume Suchiate, al confine con il Chiapas, Messico. Entrambi stanno per diventare ufficialmente clandestini. Per traghettare, i trafficanti di uomini gli chiedono 100 pesos. Che non hanno. Ma almeno hanno capito dove è possibile attraversare senza essere portati via dalla corrente. Lo fanno con il buio, immersi in un’acqua gelida e nera come l’inchiostro. Il 10 sono ad Arriaga, dove si riuniscono alla Carovana. Sono riusciti a rimontare lo svantaggio.

ALLUCINOGENI
Cominciano venti giorni in cui Eduardo perde anche la cognizione del tempo. La Carovana non ha mezzi propri per procedere di conserva. Ognuno deve arrangiarsi come può. Per tutti, l’appuntamento è fissato alla fine del mese a Città del Messico. In autostop, la rotta si fa spezzata e tortuosa. Dalla costa pacifica del Messico, i due ragazzi risalgono verso quella atlantica, attraversando lo stato di Veracruz: Acayucan, Veracruz, Tierra Blanca, Cordoba. Li carica per un lungo tratto un camionista di Monterey che, alla guida di un gigantesco tir, è in giro da una settimana per consegnare elettrodomestici. Il tipo è schizzato. Ha tempi stretti che gli impediscono di dormire troppe ore. Guida tenendosi su con la roba che ha nel cruscotto.
«Ci chiese se volevamo provare a fumare i suoi cristalli. Disse che erano più forti delle anfetamine e ci consigliò di provarli insieme alla sua erba. "Aiuta a non andare troppo su e a non sprofondare troppo giù", diceva. E intanto il camion viaggiava sbandando paurosamente. Gli dissi che non mi drogavo e che non avrei cominciato li sopra. Ma fu come farlo. Fumava tenendo tutti i finestrini chiusi e noi che eravamo in cabina finivamo per respirare quella roba. Quando scesi capii che il mio destino era che rimanessi vivo».

"TI AMO"
Eduardo e Exell arrivano a Città del Messico in tempo per l’appuntamento. Rimangono sei giorni in una struttura sportiva messa a disposizione dal governo Messicano. E, la prima settimana di novembre, a Santiago de Querétaro, salgono su un convoglio di quaranta tra camion e bus che li porterà a Tijuana lungo la costa del Pacifico, attraversando il Sinaloa. «Ora forse capisci perché non tornerò mai più indietro», dice con un sorriso Eduardo. «Aspetterò qui tutto il tempo che sarà necessario. Ma entrerò. Se necessario, anche clandestinamente. Troverò il modo». Non sa ancora che un giudice federale sembra leggergli nel pensiero e, di lì a poche ore, ordinerà alla Casa Bianca di ripristinare il riconoscimento del diritto di asilo anche se a chiederlo sono clandestini. Eduardo ora ha un’altra urgenza. Riuscire a parlare con Devin. Non la sente da settimane, da quando ha perso o gli hanno rubato il suo cellulare durante il viaggio. Sorride e scuote la testa con pudore quando gli viene offerto il telefono dalla persona che ha di fronte e a cui ha appena finito di raccontare la sua storia. Compone il numero: +504-961…. «Amore, amore mio… Sono io. Sono vivo. Sto bene, sì. E i bambini, come stanno i bambini?». Si accovaccia sul marciapiede. Ora bisbiglia. Spinge la visiera del suo cappellino Adidas sulla fronte a coprirsi il volto. Ha le guance rigate di lacrime. Marcio Eduardo Trochez Ortiz non tornerà indietro.

- Carlo Bonini - Pubblicato su Repubblica del 21/11/2018 -

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