Marcel Proust, Philip Dick, Nagarjuna:
intrecci e similitudini con la concezione fisica del tempo di Carlo Rovelli.
- di Roberto Paura -
Non è un caso che Alla ricerca del tempo perduto sia stato scritto in prima persona. Fu una scelta precisa di Marcel Proust, che, nel lungo abbozzo del romanzo che precedette il suo magnum opus, vale a dire il Jean Santeuil, usò la più tradizionale terza persona. Perciò permettetemi di usare anche qui la prima persona e parlare del mio personale itinerario nella Recherche.
Scoprii l’esistenza di quest’opera in un libro per bambini che conteneva una storia per ogni giorno dell’anno, tratta dalla grande letteratura, dalla storia o dalla mitologia: in particolare, l’autrice raccontava l’episodio del bacio della buonanotte della madre del narratore, che apre l’intera opera, e poi quello, altrettanto noto, della madeleine inzuppata nel tè. Qualche anno dopo (ero ancora poco più di un bambino), sul retro di un libro della Newton Compton che elencava le opere edite nella collana, m’imbattei nei sette titoli della Recherche, che la mia immaginazione trovò profondamente evocativi. Titoli come All’ombra delle fanciulle in fiore, Sodoma e Gomorra – di cui naturalmente ignoravo l’allusione erotica – o La prigioniera e Albertine scomparsa, suggerivano storie straordinariamente emozionanti. Mi ripromisi di affrontarle quando avrei raggiunto l’età adatta, perché avevo intuito che si trattava di un’opera ben al di là della portata di un ragazzino.
Solo due anni fa mi sono deciso a inoltrarmi in questa lettura. Mi spingeva, tra le altre cose, l’intenzione di comprendere la filosofia del tempo di Proust, poiché avevo in mente di scrivere qualcosa sulla nuova fisica del tempo. Mi impantanai, come credo capiti a molti, nel bel mezzo del terzo volume, La parte di Guermantes. Più o meno in quello stesso periodo, ossia nell’estate del 2016, il Financial Times intervistò il fisico Carlo Rovelli, e scoprii con grande sorpresa che non solo Rovelli stava scrivendo un libro sulla fisica del tempo – cosa abbastanza prevedibile dato il ruolo che il tempo gioca nelle ricerche sulla gravità quantistica – ma che era anche impegnato nella lettura della Recherche, cosa che non aveva detto a nessuno e che l’intervistatore, non si sa come, era riuscito a scoprire. Ciò mi spinse a riprendere la lettura. Un amico proustiano mi disse poi che, se avessi proseguito la lettura, avrei presto abbandonato i miei propositi utilitaristici e sarei caduto vittima del “mal di Proust”, irretito dal suo periodare infinito, dalla sua innaturale capacità di penetrazione dell’animo umano, dalla rivelazione che rende la Recherche, in ultima analisi, un’esperienza iniziatica, come la quest del Santo Graal compiuta da Parsifal (paragone per nulla casuale, come si vedrà tra breve). Così fu.
Non sono convinto che Rovelli abbia finito la lettura della Recherche. Ebbi voglia di chiederglielo, quando lo scorso luglio mi sono ritrovato insieme a lui a un seminario di filosofia della fisica dedicato alla gravità quantistica, di cui era il keynote speaker ma anche uno dei discenti. Tuttavia, la complessità dei temi toccati in quei giorni mi spinsero a domande un po’ meno prosaiche. Fatto sta che nel libro che aveva promesso e che puntualmente è stato pubblicato da Adelphi lo scorso aprile col titolo L’ordine del tempo, il penultimo capitolo è intitolato “Il profumo della madeleine”. I proustiani sostengono che chi citi l’episodio della madeleine generalmente si sia fermato al primo volume. D’altro canto, l’unica citazione letterale in questo capitolo e in tutto il libro è tratta appunto da Dalla parte di Swann: «La realtà si forma soltanto nella memoria». Ma vorrei spezzare una lancia a favore di Rovelli: la sua teoria del tempo è pressoché identica a quella di Proust, sebbene tutto quello che l’autore della Recerche conoscesse sul problema del tempo si limitasse a qualche nozione di Bergson (che era peraltro suo cugino acquisito) e della teoria della relatività di Einstein, che tutti gli intellettuali all’epoca erano tenuti perlomeno a conoscere nella sua essenza “filosofica”.
“Vedi, figlio mio, qui il tempo diventa spazio”
Nel periodo in cui il mio itinerario nella Recherche si era, se non interrotto, perlomeno rallentato, ho intrapreso un altro complesso viaggio iniziatico, la lettura dell’Esegesi di Philp K. Dick, l’imponente volume che riassume una ancora più imponente mole di appunti inediti che l’allucinato scrittore di fantascienza californiano produsse tra il 1974 e la sua morte nel 1982. Una sua personale indagine sulla natura della realtà, densa di idee folli, parzialmente confluite in forma più o meno romanzata nella Trilogia di Valis. È difficile immaginare un autore più distante da Proust di Dick, eppure un legame c’è, e non di poco conto: entrambi riflettono sul tempo e giungono a una conclusione analoga, grazie a un passo del Parsifal di Richard Wagner. Proust era un grande amante di Wagner; è stato calcolato che nella Recherche il compositore e le sue opere sono menzionate più di cinquanta volte, rendendolo il personaggio non fittizio più citato in assoluto. Dick, che era un melomane, cita nell’Esegesi tanto il Parsifal quanto la “Tetralogia” dei Nibelunghi, ma il verso ricorrente che ritroviamo anche in Valis viene dal Parsifal: «Vedi, figlio mio, qui il tempo diventa spazio». A pronunciarlo è Gurnemanz, mentre introduce Parsifal nella sala del Graal, nel primo atto dell’opera. Che cosa vuol dire questa frase, che Dick cita a più riprese? Secondo il musicologo Andrea Bedetti, «dietro questa affermazione ermetica e sfuggente, il tempo che si trasforma in spazio, si cela una visione proibita ai profani e, in generale, a coloro che non sono in grado di intraprendere un cammino iniziatico. Il potere immenso del Graal può dominare tutto, perfino il concetto fisico del tempo, che viene assorbito, come da un “sacro” buco nero, dall’estensione infinita dello spazio. Da questo momento, le regole, le leggi, tutto ciò che era stato acquisito dalla materia, simbolo del regno della quantità, viene mutato, subliminato (secondo una visione cara agli alchimisti) in una dimensione più alta, verticale, il cui accesso è garantito solo ai pochi iniziati che ben comprendono il simbolismo e l’ermetismo presenti nell’ultima opera wagneriana».
La funzione che in Wagner è affidata al Graal, in Dick è assunta da “Valis”, l’intelligenza artificiale aliena che manipola la realtà. Valis è in grado di tramutare il tempo in spazio, un concetto ricorrente nell’opera dickiana – basti pensare a Ubik, dove gli oggetti sembrano estendersi lungo una dimensione non solo spaziale, ma temporale. In Valis, la citazione dal Parsifal è preceduta da una di Mircea Eliade: «Il tempo può essere dominato». Come hanno osservato Antonio Caronia e Domenico Gallo, per Dick «sospendere il tempo vuol dire poter arrivare all’essenza del reale, alle “nude ossa del mondo”». Ciò vuol dire che, scoprendo il modo in cui “Valis” tramuta il tempo in spazio, è possibile controllarlo, invertire l’entropia che trascina la nostra realtà verso l’inesorabile disgregazione nel tempo. A un certo punto, Dick si convince che «la frase di Wagner era la chiave necessaria di tutto», e spiega il perché così (il lettore non avvezzo allo stile dickiano potrà trovare il ragionamento piuttosto ostico): «L’aspetto informativo della realtà è percettibile solo quando l’asse del tempo viene visto correttamente (in modo spaziale), evidentemente perché l’informazione si trova lungo quell’asse, e deve essere vista in una forma sovrapposta di accrescimento, con le parti precedenti (il ‘passato’) ancora in vista come costituenti essenziali dei messaggi… il ‘presente’ cessa di essere semplicemente un punto in movimento fra il passato e il futuro, ma viene esteso a trattenere e includere il passato: una linea al posto di punto».
In Dalla parte di Swann, questa concezione del tempo che diventa spazio si palesa nella visione della chiesa di Saint-Hilaire a Combray da parte del narratore, «un edificio che occupava, per così dire, uno spazio a quattro dimensioni (la quarta era quella del Tempo) e che, dispiegando attraverso i secoli la sua navata, sembrava aver varcato e sconfitto, di campata in campata, di cappella in cappella, non solo qualche metro, ma epoche successive, dalle quali usciva in trionfo». È la prima volta che il narratore sperimenta questa percezione alterata dello spazio-tempo: si tratta di un’epifania che dovrà attendere altri sei volumi per essere ripetuta e compresa. Alla fine del Tempo ritrovato, infatti, tutti i personaggi che affollano il ricevimento della principessa di Guermantes assumono, agli occhi del Narratore, una dimensione temporale “spazializzata”, «come se gli uomini fossero appollaiati su viventi trampoli che aumentano senza sosta sino a diventare, a volte, più alti di campanili, sino a rendere difficili e perigliosi i loro passi, e da cui improvvisamente precipitano» (con la morte). Scrive Proust, più precisamente: «Non solo tutti sentono che occupiamo un posto nel Tempo, ma questo posto anche i più semplici sono in grado di misurarlo approssimativamente così come misurerebbero quello che occupiamo nello spazio». Nelle ultime righe della Recherche, il narratore si appresta a iniziare la stesura di quell’opera che è poi la stessa che abbiamo appena finito di leggere, e dichiara che nel farlo dovrà descrivere i personaggi «come esseri che occupano un posto così considerevole accanto a quello così angusto che è riservato loro nello spazio, un posto, al contrario, prolungato a dismisura poiché toccano simultaneamente, come giganti immersi negli anni, periodi vissuti da loro a tanta distanza e fra cui tanti giorni si sono depositati – nel Tempo».
L’idea di fondo, dunque, è guardare le persone e le cose non solo nelle tre dimensioni spaziali, ma anche nella quarta dimensione temporale, srotolata, “spazializzata”, per rendere il Tempo, da perduto, ritrovato. Non basta solo questo, naturalmente. Ma il parallelismo con la frase wagneriana è esplicito. Che Proust ci tenesse all’idea della “rivelazione” à la Parsifal, fu lui stesso a rivelarlo in una lettera a Jacques Rivière: «Come artista, ho trovato più onesto e delicato non rivelare, non proclamare che quel che mi prefiggevo era la ricerca della verità, e in che cosa essa consisteva per me… È solo alla fine del libro, e dopo aver comprese le lezioni della vita, che il mio pensiero si paleserà. Quella che esprimo alla fine del primo volume, in quella parentesi del Bois de Boulogne che ho messo lì come semplice paravento per terminare e chiudere un libro che per motivi pratici non poteva superare le cinquecento pagine, è il contrario della conclusione. È una tappa, che si presenta come soggettiva e dilettantesca, sulla via che porta ad una conclusione del tutto soggettiva e convinta. Inferirne che il mio atteggiamento mentale è uno scetticismo disincantato, sarebbe esattamente come se uno spettatore, vedendo alla fine del primo atto del Parsifal che il personaggio non capisce niente della cerimonia ed è cacciato da Gunremanz, supponesse che Wagner ha voluto dire che la semplicità di cuore non porta da nessuna parte». Il brano a cui Proust si riferisce, alla fine di Dalla parte di Swann, è quello in cui il Narratore ripercorre il Bois de Boulogne molti anni dopo quelli in cui è ambientato il racconto del primo volume, senza riuscire a rivedere la realtà del passato; alla fine di questo libro il Tempo sembra perduto, ma la “rivelazione” che il narratore avrà nell’ultimo volume lo renderà “ritrovato”. Così come alla fine del primo atto del Parsifal l’eroe eponimo non è all’altezza di poter accedere al Graal, alla fine del primo libro il narratore non è in grado di poter piegare il tempo alla sua volontà.
“Il mondo non è un insieme di cose, è un insieme di eventi”
Il tempo si trasforma in spazio… dove avevo già sentito questo concetto? Studiando le cosmologie di gravità quantistica, mi ero imbattuto nel concetto di “tempo immaginario”, una nozione introdotta da alcuni fisici teorici per risolvere il problema di un istante zero del tempo. E lì mi venne in mente: Stephen Hawking presentava così il tempo immaginario nel suo celebre A Brief History of Time: «Per evitare le difficoltà tecniche implicite nelle somme per storie di Feynman [un metodo di calcolo delle interazioni delle particelle fondamentali], si deve usare il tempo immaginario. In altri termini, ai fini del calcolo si deve misurare il tempo usando numeri immaginari, piuttosto che numeri reali. Questo fatto ha un effetto interessante sullo spazio-tempo: la distinzione fra tempo e spazio scompare completamente». Tempo immaginario non significa che non esista: il riferimento è ai numeri immaginari, quei numeri che moltiplicati per se stessi danno come risultato numeri negativi (i = -1) e che servono a creare i numeri complessi, formati da un numero reale e un numero immaginario (per es. 2i), di grande utilità in particolare nei calcoli della meccanica quantistica. È un espediente matematico per semplificare: all’inizio dell’universo, il tempo diventa immaginario e si trasforma pertanto in una quarta dimensione spaziale, evitando il problema della singolarità, del punto t = 0. L’universo non emerge più da un punto, un istante zero del tempo, poiché il tempo si trasforma in una quarta dimensione spaziale, producendo una sorta di fondo concavo dell’universo. Spazio e tempo formano dunque, nella teoria di Hartle-Hawking nota come “assenza di condizioni al contorno”, una superficie chiusa senza confini. Nel suo libro, Hawking si spingeva fino a chiedersi se l’idea del tempo che diventa spazio fosse più di un escamotage tecnico: «Può darsi… che quello che chiamiamo tempo immaginario sia in realtà più fondamentale, e che quello che chiamiamo reale sia solo un’idea inventata da noi come ausilio nella descrizione dell’universo quale pensiamo che sia».
Occorre forse spendere qualche parola in più per chi non abbia mai o quasi mai sentito parlare di “gravità quantistica”: si tratta di una delle frontiere più importanti della fisica teorica, il tentativo di coniugare i due paradigmi fondamentali della descrizione dell’universo che possediamo oggi, vale a dire la relatività generale, che spiega la forza di gravità come il risultato della geometria dello spazio-tempo, e la meccanica quantistica, che spiega le altre forze fondamentali, vale a dire quella elettromagnetica e le due interazioni che avvengono nei nuclei atomici. Sono due paradigmi apparentemente inconciliabili, perché usano formulazioni radicalmente diverse: la meccanica quantistica riconduce la realtà a energie “impacchettate” (quantizzate) su scale microscopiche e all’interazione tra di esse, mentre la relatività generale spiega che l’universo è un continuum spazio-temporale non discreto (cioè non ridotto a “pacchetti” su scala microscopica, non infinitamente divisibile). Lo scontro tra questi due paradigmi produce fenomeni che la fisica oggi è incapace di spiegare: i due più importanti sono la singolarità all’inizio dell’universo e quella che si trova al centro dei buchi neri; punti, cioè, in cui lo spazio-tempo viene distorto sotto l’effetto di pressione, energia e densità infiniti al punto che le leggi della fisica non valgono più. Trovare un modo di descrivere gli effetti della gravità alla scala microscopica in cui agiscono le forze quantistiche dovrebbe permetterci di risolvere questi problemi.
Una delle più promettenti teorie di gravità quantistica è la famigerata teoria delle stringhe, che in ultima analisi sostiene che le particelle e le forze che costituiscono la realtà (inclusa, quindi, la gravità) emergano dalle vibrazioni di una stringa unidimensionale di grandezza infinitesimale all’interno di uno spazio a 9 o 10 dimensioni. Ma ci sono altri approcci ugualmente interessanti. Quello che studia Carlo Rovelli è noto come loop quantum gravity: sviluppato inizialmente da Abhay Ashtekar, Lee Smolin e Ted Jacobson, si fonda su una vecchia idea di John Archibald Wheeler, l’uomo che, tra le tante cose, coniò il termine “buco nero”: la schiuma spazio-temporale. Secondo Wheeler, lo spazio-tempo non è affatto continuo, liscio, come voleva Einstein, ma granulare. Alle lunghezze più piccole, quelle alla scala di Planck, è quantizzato, esattamente come i campi quantistici che esprimono le altre forze fondamentali. Era un’intuizione: la loop quantum gravity gli ha dato sostanza individuando il modo in cui questa schiuma si “forma”. L’idea è che esistano aree e volumi minimi di spazio, di dimensioni finite, che emergono nel momento in cui si creano collegamenti tra diversi punti, vale a dire tra diversi “quanti” di spazio. Questi collegamenti (link) assumono l’aspetto di anelli (loop), che producono la superficie e il volume. Lo spazio dunque non è uno sfondo fisso in cui gli eventi accadono: è un fenomeno emergente, che nello specifico emerge attraverso la rete di collegamenti tra i quanti di spazio. Poiché lo spazio così immaginato possiede un’area e un volume minimo, è chiaro che la loop quantum gravity impedisce la formazione di singolarità, perché quando la densità e l’energia raggiungono il valore limite dello spazio quantizzato, la contrazione si arresta e si verifica un “rimbalzo”: questo vuol dire che, secondo la teoria, non c’è stato un Big Bang, ma un Big Bounce, un “grande rimbalzo” da parte di un eone precedente dell’universo; e al centro dei buchi neri avviene un analogo rimbalzo, che non vediamo perché dal punto di vista dell’osservatore esterno al buco nero il tempo lì in fondo è così dilatato che il rimbalzo impiega, per noi, l’intera durata di vita dell’universo.
La loop quantum gravity è in sostanza una teoria “relazionale”: lo spazio e il tempo non esistono di per sé, ma emergono dalle interazioni – dalle relazioni. Mentre lavoravamo all’editing di quest’articolo, mi è stato fatto notare che è un’idea molto simile alla dottrina buddista del Pratityasamutpada, o “originazione interdipendente”. Manco a farlo apposta, qualche giorno dopo su La Lettura lo stesso Rovelli ha pubblicato un articolo sui testi del monaco buddista Nagarjuna, principale continuatore di questa dottrina secondo cui – per usare l’espressione di Rovelli – le cose sono solo relazioni. Quest’idea in realtà precede l’approccio rovelliano alla loop quantum gravity e deriva dalla sua personale interpretazione della meccanica quantistica, nota come “meccanica quantistica relazionale”. Il grande paradosso della meccanica quantistica deriva infatti dal problema dell’indeterminazione in cui si trovano tutti i sistemi quantistici (i campi e le particelle) finché non viene effettuata un’osservazione. Un elettrone non ha una posizione specifica nell’orbitale atomico, ma è come “spalmato” per tutto l’orbitale: solo l’osservazione compiuta dallo sperimentatore lo farà uscire da questa indeterminazione, data dalla contemporanea “sovrapposizione” delle sue diverse posizioni. Ciò pone il problema della realtà alla scala quantistica: la realtà è indeterminata e assume parametri misurabili solo quando la osserviamo? Un albero che cade nella foresta fa rumore, se non c’è nessuno che lo sente? Questa domanda, una delle più importanti in filosofia della fisica, è elegantemente risolta da Rovelli introducendo il relazionismo: quando misuro un elettrone, esso assume uno stato preciso solo rispetto a me. Dal punto di vista delle particelle, degli sperimentatori e delle galassie che non interagiscono con quell’elettrone, esso resta in uno stato indeterminato. La relazione che si viene a creare tra me e l’elettrone, o tra me e qualsiasi altro sistema quantistico, lo fa emergere dall’indeterminazione connaturata al reame quantistico: ma solo per me. Perciò, spiega Rovelli, «una descrizione quantomeccanica di un certo sistema (stato e/o valori delle quantità fisiche) non può essere presa come una descrizione ‘assoluta’ (indipendente dall’osservatore) della realtà, bensì piuttosto come una formalizzazione, ovvero una codificazione, di proprietà di un sistema relativamente a un dato osservatore». E poiché, per Rovelli e per i teorici della loop quantum gravity, anche spazio e tempo sono soggetti alle stesse proprietà, questo vuol dire che il tempo non esiste in termini assoluti, ma solo relativi a ciascuno di noi. «Il mondo non è un insieme di cose, ma un insieme di eventi», è l’idea di Rovelli (che riprende qui, mi è stato fatto notare, una frase di Wittgenstein nel Tractatus: “Il mondo è tutto ciò che accade” (Die Welt ist alles, was der Fall ist).
“Capire il tempo significa riflettere su noi stessi”
Nell’apprestarsi a entrare nel palazzo dei Guermantes per il matinée della principessa, il narratore a metà dell’ultimo volume della Recherche inciampa nel selciato sconnesso. Un incidente che capita a tutti, ma che in lui scatena improvvisamente il ricordo del soggiorno a Venezia con la madre, che credeva ormai svanito nel tempo e nella memoria. È la seconda epifania: la precedente, nel primo volume, è la celebre madeleine inzuppata nel tè, che lo riporta improvvisamente a Combray, grazie al ricordo del sapore della stessa madeleine che zia Léonie gli offriva appena alzata. Nelle pagine successive del Tempo ritrovato, le dighe della memoria si aprono. Il rumore di un cucchiaino, la morbidezza di un asciugamano, la lettura di un libro producono altrettante epifanie, restituendo al narratore le esatte sensazioni da lui vissute in epoche passate, grazie agli effetti della memoria involontaria. «Un’ora non è soltanto un’ora, è un vaso ricolmo di profumi, di suoni, di progetti e di climi», intuisce finalmente il narratore della Recherche. «Ciò che chiamiamo la realtà è un certo rapporto fra le sensazioni e i ricordi che ci circondano simultaneamente – rapporto escluso da una semplice visione cinematografica, la quale, dunque, tanto più s’allontana dal vero quanto più pretende di limitarsi ad esso». La realtà è relazione. Così come Rovelli sostiene che l’errore dei fisici consista nell’immaginare un osservatore esterno all’universo, un “occhio di Dio” che osservi tutti i fenomeni come nella pellicola di un film, così Proust ci spiega che non esiste una realtà uguale per tutti, ma essa è prodotta soggettivamente dal rapporto che c’è tra noi e le cose. «La vista, per esempio, della copertina d’un libro già letto ha intessuto nei caratteri del suo titolo i raggi di luna d’una lontana sera d’estate. Il sapore del caffellatte mattutino ci porta quella vaga speranza di bel tempo che in passato, mentre lo bevevamo in una tazza di porcellana bianca, cremosa e grinzosa che sembrava latte indurito, quando la giornata era ancora intatta e piena, si è messa tante volte a sorriderci nella chiara incertezza dell’alba».
Queste relazioni, questi ricordi, sono inevitabilmente soggettivi. François le Champi, il romanzo di George Sand che il Narratore ritrova nella biblioteca dei Guermantes mentre attende di essere introdotto al matinée, può sembrare un banale romanzo per ragazzi agli occhi del proprietario della biblioteca; ma al narratore ricorda la sera – che Proust ci racconta nelle prime pagine della Recherche – in cui a causa del protrarsi della visita di Swann ai genitori nella casa di Combray, la madre non andò a dargli il bacio della buonanotte, provocandogli una crisi di nervi, tanto che infine la costrinse, a dormire accanto a lui – non prima di aver scartato in anticipo il regalo di compleanno della nonna, proprio quel François le Champi che decide infine di leggergli per tranquillizzarlo. Il narratore, ritrovandolo, ricostruisce nella memoria la scena che abbiamo letto sei volumi prima, e lì situa il momento in cui è iniziato quel cedimento delle proprie forze e volontà a cui attribuisce “il tempo perduto” della sua esistenza. Ora, però, l’epifania che la memoria involontaria (le “intermittenze del cuore”) gli ha donato lo convince che il Tempo può essere recuperato, ritrovato, grazie all’arte. «La verità comincerà solo nel momento in cui lo scrittore prenderà due oggetti diversi, ne porrà il rapporto, analogo nel mondo dell’arte a quello che è il rapporto esclusivo di causa ed effetto nel mondo della scienza, e li fisserà con gli indispensabili anelli d’un bello stile».
Anelli. È un peccato che a Rovelli sia sfuggita questa frase, che avrebbe fatto un’ottima figura nella suo L’ordine del tempo, in cui espone in forma divulgativa la sua idea di come la loop quantum gravity possa essere applicata alla comprensione del tempo. Una visione pressoché identica a quella di Proust. «Il mondo è come un insieme di punti di vista in relazione gli uni con gli altri; “il mondo visto dal di fuori” è un nonsenso, perché non c’è un “fuori” dal mondo», scrive Rovelli. «Molte cose del mondo che vediamo si capiscono se teniamo conto dell’esistenza del punto di vista. Diventano incomprensibili se non ne teniamo conto. In ogni esperienza, noi siamo localizzati nel mondo: dentro una mente, un cervello, un luogo dello spazio, un momento del tempo. Questa nostra localizzazione nel mondo è essenziale per comprendere la nostra esperienza del tempo».
Uno degli aspetti più affascinanti della teoria di Rovelli è che è in grado di spiegare uno dei grandi misteri della fisica, quello della bassa entropia all’inizio dell’universo. L’universo, al Big Bang (o quel che era), era straordinariamente “ordinato”: il disordine progressivo, ossia l’aumento dell’entropia, è quel che ci dà l’impressione di una freccia del tempo che va dal passato verso il futuro. Il fatto di non vedere mai un bicchiere ricomporsi dopo essere andato in frantumi, infatti, o un libro ridotto in cenere tornare al suo precedente stato (in linea teorica sarebbe possibile solo immettendo energia nel sistema, che aumenterebbe il disordine del sistema stesso) è la ragione del perché possiamo andare solo verso il futuro e non verso il passato. Non c’è nessun motivo per cui l’universo, all’inizio del tempo, dovesse possedere un livello così basso di entropia: poteva risultare molto più “disordinato”, rendendo impossibile la successiva produzione di strutture molto complesse e ordinate come le stelle, i pianeti e la vita. Il problema, che rientra nel più ampio dilemma posto dal “principio antropico”, dato dal fatto che diversi parametri dell’universo sembrano “tarati” apposta per consentire alla vita di esistere, ha portato a diverse congetture, come quella di Roger Penrose che ipotizza l’esistenza di cicli cosmici in cui ogni eone di universo eredita dal precedente certe caratteristiche. Per Rovelli, il mistero si risolve spiegandolo come un effetto del nostro peculiare punto di vista. Il nostro pianeta – ma potremmo dire la nostra “regione” di universo – interagisce solo con una parte delle variabili di cui è composto l’universo. Ludwig Boltzmann alla fine dell’Ottocento ci ha spiegato che l’entropia di un sistema può essere compresa come la configurazione che assumono le parti che lo compongono. Una latta di vernice bianca e una di vernice rossa si trovano in uno stato di minima entropia: quando mescoliamo le vernici e otteniamo una latta di vernice rosa, l’entropia aumenta perché le parti che riempiono il contenitore si trovano in una configurazione disordinata e non è più possibile dividere il rosso dal bianco tornando allo stato preesistente. L’universo ha un gran numero di “parti” che lo compongono: se la nostra realtà interagisce solo con un certo numero di essi, è plausibile che sia quel particolare sottosistema con cui interagiamo a trovarsi in uno stato di bassa entropia, e non l’intero universo. È tutta questione di punti di vista. Secondo Rovelli, la ragione del perché ricordiamo il passato e non il futuro dipende dal fatto che l’entropia era bassa nel passato: «Forse, quindi, il fluire del tempo non è una caratteristica dell’universo: come il roteare della volta stellata, è la prospettiva particolare dell’angolo di mondo a cui apparteniamo».
Il primo tentativo di sviluppare una teoria di gravità quantistica risale all’equazione di Wheeler-DeWitt, sviluppata da John Wheeler e Bryce DeWitt. L’obiettivo era di applicare l’equazione di Schrödinger, che in meccanica quantistica descrive l’evoluzione di un sistema quantistico nel tempo, all’intero universo. Presupponeva, ancora, l’idea di un punto di vista assoluto, quello dell’occhio di Dio: da questo punto di vista, l’universo risultava atemporale. Per Rovelli, Wheeler e DeWitt erano giunti, senza saperlo, a una scoperta fondamentale: il tempo non esiste a livello universale, ma è un fenomeno emergente, relazionale, prospettico. «Dalla nostra prospettiva, la prospettiva di creature che sono una piccola parte del mondo, vediamo il mondo scorrere nel tempo». E, riprendendo Proust, osserva: «È la memoria che salda i processi sparpagliati nel tempo di cui siamo costituiti. In questo senso noi esistiamo nel tempo. Per questo io sono lo stesso di quello di ieri. Capire noi stessi significa riflettere sul tempo. Ma capire il tempo significa riflettere su noi stessi».
“La conoscenza è situata, ma nondimeno è oggettiva”
Al seminario di filosofia della fisica dedicato alla gravità quantistica che ho frequentato quest’estate una frase mi ha colpito in modo particolare. Pronunciata da Francesca Vidotto, allieva di Rovelli e con lui autrice di un libro considerato fondamentale (Covariant Loop Quantum Gravity An elementary introduction to Quantum Gravity and Spinfoam Theory), affermava: «Knowledge is situated but not less objective», ossia la conoscenza è situata ma ciò nonostante oggettiva. Per Vidotto, è un modo di riassumere la visione relazionista della loop quantum gravity. L’idea della conoscenza situata proviene dal femminismo standpoint, un particolare approccio al femminismo secondo cui le donne possiedono una conoscenza diversa da quella degli uomini, derivante dal loro peculiare punto di vista nella struttura sociale. Ciò non vuol dire, tuttavia, abbracciare un relativismo radicale: la realtà è oggettiva, ma il modo in cui la esperiamo, la conosciamo, la interpretiamo, entriamo in relazione con essa, dipende dal nostro punto di vista.
Mi ci è voluto molto tempo e molta fatica per arrivare a capire cosa volesse dire Vidotto con quella frase: apparentemente semplice, infatti, presuppone la conoscenza di nozioni per me abbastanza avanzate di fisica. Di fatto, è uno splendido slogan per riassumere la teoria di Rovelli sul tempo letta dal punto di vista delle simmetrie di gauge, quel tipo di trasformazioni, cioè, tramite le quali è possibile rendere invariante un fenomeno fisico anche se cambiamo il sistema di riferimento. La grande scoperta della fisica teorica contemporanea è che tutte le quattro forze fondamentali, inclusa la gravità, sono descrivibili in termini di invarianza di gauge, ed è l’invarianza della teoria nei diversi sistemi di riferimento che rende il fenomeno fisico reale e non apparente. Prendiamo la teoria della relatività: se io sono seduto sulla poltrona di un Frecciarossa e guardo l’orologio della carrozza, scopro che sono le sette di sera. Se il capitano Kirk sull’Enteprise lanciata a un quarto della velocità della luce osserva l’orologio del suo computer e nota che sono le sette, ciò non vuol dire che ci troviamo nella stessa “fetta” di spazio-tempo, poiché la sua accelerazione rallenta lo scorrere del tempo. Avrò bisogno di una trasformazione di Lorentz per mettere in confronto i due sistemi di riferimento, come prevede la teoria della relatività. Le misurazioni dell’ora che entrambi abbiamo fatto sono gauge-dipendenti, variano cioè a seconda del sistema di riferimento, e abbiamo bisogno di una teoria di gauge come la relatività affinché io e Kirk possiamo metterci d’accordo sull’osservazione di un fenomeno fisico. Secondo Rovelli e Vidotto, le cose di per sé sono sempre dipendenti dal sistema di riferimento, e diventano invarianti – ossia “reali” da tutti i punti di vista – solo quando entrano in relazione tra loro: combinando due o più osservabili parziali otterrò un’osservabile gauge-indipendente che mi permette di effettuare previsioni sulla fisica. Se mio fratello è a Londra e da lui sono le sei, mentre da me a Napoli sono le sette, non vuol dire che lui si trovi indietro nel tempo rispetto alla mia posizione: c’è una “trasformazione”, in questo caso molto semplice, data dal sistema dei fusi orari, che ci consente di telefonarci nello stesso momento. Tuttavia, la conoscenza resta situata: da lui, alle sei, è l’orario del tè, mentre io starò iniziando a preparare la cena.
Ciò porta Rovelli a sviluppare il seguente ragionamento per spiegare il passare del tempo: diciamo che vogliamo misurare come varia la massa di un razzo nel corso del suo tragitto tra la Terra e Marte; la massa è una variabile gauge-dipendente, perché varia rispetto al tempo (per esempio perché il razzo consuma carburante durante il viaggio), ma posso metterla in relazione a un altro fattore, per esempio posso dire qual è la massa del razzo quando parte della Terra e la massa che ha quando arriva su Marte. Questo valore è gauge-invariante perché è valido in tutti i sistemi di riferimento. Mettendo insieme tutti questi valori, potrò spiegare l’apparente mutamento della massa del razzo nel tempo. «La conoscenza è situata ma nondimeno è oggettiva»: posso misurare la massa del razzo solo in relazione a un altro elemento, ma resta il fatto che il razzo perde massa col passare del viaggio, cioè del tempo. «Le interazioni di gauge descrivono il mondo perché la Natura è descritta da quantità relative che si riferiscono a più di un oggetto», spiega Rovelli. «In un certo senso, questo è un passo nella direzione concepita da Galileo, quando affermò che la velocità è una quantità che non si riferisce a un singolo oggetto, ma a due oggetti: la velocità di un oggetto è definita solo in relazione a un altro oggetto».
Torniamo a Proust. Anche per lui la conoscenza è situata. Per chiunque lo veda, François le Champi è lo stesso libro con la copertina rossa; ma per il Narratore ha naturalmente un significato particolare. È attraverso il modo in cui la sua soggettività, la sua memoria, si “accoppia” con l’oggetto-libro, che esso acquista un significato. Interagendo con esso, il narratore è in grado di ritornare con la memoria al passato, di ritrovare il Tempo perduto. La sonata di Vinteuil evoca il pianto di Swann non perché sia oggettivamente commovente: il resto della platea, evidentemente, la giudica tra il noioso e l’interessante; ma a Swann ricorda il suo amore per Odette, e non può ascoltarla senza sciogliersi in lacrime, perché gli ricorda il tempo del loro amore. È così che noi acquistiamo consapevolezza del tempo che passa. «Se la realtà fosse una sorta di residuo dell’esperienza, più o meno identica per ciascuno dato che quando diciamo: un tempo cattivo, una guerra, un posteggio di carrozza, un ristorante illuminato, un giardino in fiore, tutti sanno cosa vogliamo dire; se la realtà fosse questa, una specie di film di tali cose sarebbe certo sufficiente, e lo “stile”, la “letteratura” che si discostassero dai loro semplici dati sarebbero un artificio “fuor d’opera”. Ma era questo, la realtà?», si chiede Proust. Ovviamente no: il tempo cattivo, il giardino in fiore, evocano in ciascuno di noi passati diversi, e spetta all’arte, alla letteratura imprimerli nel tempo, affinché non vadano perduti.
Al matinée della principessa di Guermantes che chiude l’opera, i personaggi che il narratore ha conosciuto negli anni risultano inesorabilmente invecchiati. Ma per lui indossano come delle maschere, perché egli riesce a vederli attraverso il tempo, come sono ora e come erano prima. Lo può fare grazie alla padronanza che gli hanno donato le epifanie della memoria involontaria: questo Graal che egli ora possiede gli rende possibile, a differenza di tutti gli altri, recuperare il Tempo perduto, che si trasforma in spazio. «Per tutti questi aspetti, un ricevimento come quello a cui mi trovavo era qualcosa di molto più prezioso di un’immagine del passato; mi offriva, per così dire, tutte le immagini successive, e che non avevo mai visto, che separavano il passato dal presente, meglio ancora: il rapporto fra presente e passato; era come ciò che una volta si chiamava una veduta ottica, ma una veduta ottica degli anni, la veduta non d’un momento, ma d’una persona situata nella prospettiva deformante del Tempo». Unendo dunque queste due intuizioni – la conoscenza situata rispetto alla realtà con cui entra in relazione e la possibilità di osservare il tempo come una quarta dimensione spaziale – il narratore annulla le distanze degli anni, rientra in contatto col passato senza perdere di vista il presente, perché passato e presente si sovrappongono, come le facce sia giovani che vecchie degli invitati al matinée dei Guermantes. La distanza tra il primo e l’ultimo volume della Recherche si annulla: il Narratore riesce a sentire, «in quello stesso momento, nel palazzo del principe di Guermantes, il rumore dei passi dei miei genitori che accompagnavano il signor Swann, il tintinnio saltellante, ferruginoso, instancabile, stridulo e fresco della campanella, annuncio che il signor Swann se n’era finalmente andato e che la mamma stava per salire». E ciò in virtù di «questa nozione del tempo incorporato, degli anni passati come non separati da noi». Parsifal è tornato nella sala del Graal e ne conosce, ora, il segreto per possederlo e padroneggiare il tempo.
“Ogni giorno attribuisco minor valore all’intelligenza”
Non posso dire di aver reso un buon servizio alla storia delle idee. Certo, credo di aver fatto emergere chiaramente il debito che Proust e Dick ebbero nei confronti del Parsifal di Wagner, ma devo escludere una filiazione diretta tra Proust e Rovelli, perché anche ammettendo che quest’ultimo abbia letto fino in fondo la Recherche, l’ha fatto solo molto recentemente, quando la sua teoria del tempo era già stata abbondantemente sviluppata. E certo non posso affermare che Proust conoscesse la gravità quantistica, che sarebbe stata sviluppata solo molti decenni dopo la sua morte. Anche se l’avesse conosciuta, comunque, credo che non ci avrebbe fatto niente. Come scrisse nell’incipit di quelle bozze pubblicate postume col titolo di Contro Saint-Beuve, e che costituiscono la prima materia grezza della Recherche: «Ogni giorno attribuisco minor valore all’intelligenza». Di fatto, nel Tempo perduto il Narratore giunge alla sua rivelazione solo dopo essersi persuaso del fatto che non diventerà mai un vero scrittore, perché con tutto lo sforzo della sua intelligenza non è più in grado né di creare cose nuove attraverso la loro descrizione o l’immaginazione, né di ricordare il passato, poiché i ricordi di Albertine o di Venezia gli sembrano ormai scomparsi: «Se pensavo a ciò che m’aveva detto Bergotte: “Siete malato ma non vi si può compiangere, perché avete le gioie dell’intelletto” – come s’era sbagliato sul mio conto! Che poca gioia c’era in questa lucidità sterile… Potevo forse chiamare così le fredde constatazioni che il mio occhio penetrante o il mio ragionamento corretto raccoglievano senza alcun piacere, e che restavano infeconde?». Poi, poco dopo, la rivelazione che cambia completamente la sua visione delle cose. D’un tratto, il tempo non basta più, perché la missione che si è dato, una missione letteraria, certo, ma di redenzione, richiede tempo per essere portata a termine. Nel Contro Saint-Beuve, Proust è più esplicito al riguardo. Scrive che «l’intelligenza nulla può fare per queste resurrezioni» (usa proprio questa parola), e che spesso per una persona «un libro insipido per le persone di gusto, pieno di nomi che dopo la sua fanciullezza non ha più uditi, possono avere per lui ben altro pregio che dei bei libri di filosofia». Come per Parsifal, è la “semplicità di cuore”, non l’intelligenza, a permettere al Narratore la sua scoperta.
Proust e Rovelli sono giunti, nondimeno, alle stesse conclusioni sulla natura del tempo e della realtà di cui questo è sostanza, ma da strade diverse: quella estetica, quasi mistica di Proust (un uomo sostanzialmente laico, per giunta), e quella profondamente intellettuale di Rovelli.
Entrambi ci suggeriscono che la realtà è fatta di relazioni, tra le persone e le cose, tra l’osservatore e il sistema, e ci invitano ad abbandonare l’errata convinzione di una realtà descrivibile “come in un film”, visto dall’occhio esterno dello spettatore, dove non c’è spazio per la relazione tra le persone e il loro passato. La meccanica quantistica relazionale di Rovelli può riuscire a spiegare quei paradossi della fisica che altrimenti resterebbero insoluti, come l’esperienza proustiana può arrivare a dare un senso alla nostra esistenza, invitandoci a considerare il passato – tutto, anche (e soprattutto) i ricordi dolorosi – come parte essenziale della nostra esperienza. Mario Lavagetto ha parlato di “rivoluzione copernicana” per l’opera di Proust e di Freud, per la loro capacità di comprendere l’animo umano. Io vorrei suggerire che Proust e Rovelli abbiano, ciascuno nel suo ambito, offerto alla nostra epoca un’analoga rivoluzione copernicana, che rimette il soggetto al centro senza abdicare a un relativismo estremo e infruttuoso. «La verità deve essere cercata partendo da una posizione di confine tra il mondo esterno che funge da necessario detonatore e il mondo interno dove qualcosa, a grande profondità, sembra “trasalire”: non potrà essere ritrovata nel sapore del tè e del dolce che vi è stato immerso, ma solo quel sapore è capace di evocarla, di determinare l’indispensabile choc, l’urto che potrà disancorarla e riportarla alla luce», scrive Lavagetto.
Non si compia tuttavia l’errore di credere che, attraverso Proust e Rovelli, si possa arrivare al cuore delle cose. Quel che ci hanno spiegato, ciascuno a modo loro, è che ogni storia è diversa. Ciascuno di noi può svelare le “nuda ossa del mondo”, per dirla con Dick, attraverso il proprio punto di vista, e ciò ci spinge a dare valore al modo in cui conosciamo il mondo e gli altri, a far emergere il Je, l’Io con cui Proust racconta l’esperienza iniziatica della Recherche. Secondo Alberto Beretta Anguissola, alla fine del Tempo ritrovato Proust ha voluto «affidare a noi lettori il proseguimento della “ricerca” e il compito di trovare la soluzione perduta». Concordo, anche perché ce l’ha detto lui stesso, nel saggio Giornate di lettura che introduce la sua traduzione di Sesame and Lilies di John Ruskin: «Infatti, una delle grandi e meravigliose caratteristiche dei bei libri… è questa: che per l’autore essi potrebbero chiamarsi “conclusioni” e per il lettore “incitamenti”. Noi sentiamo benissimo che la nostra saggezza comincia là dove finisce quella dello scrittore; e vorremmo che egli ci desse delle risposte, mentre tutto quanto egli può fare è solo d’ispirarci dei desideri».
- Roberto Pauri - Pubblicato il 18/12/2017 su L'Indiscreto -
Fonte: L'indiscreto
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