lunedì 7 novembre 2022

Teoria della Crisi

Game Over
- Perché una demonetizzazione generale è solo questione di tempo -
di Claus Peter Ortlieb

«Tuttavia, il fatto che le crisi continuino a ripresentarsi a intervalli regolari, malgrado tutti gli avvertimenti del passato,  non consente che se ne possa cercare la loro causa finale nei comportamenti sconsiderati di alcuni singoli individui. E se la speculazione che viene messa in atto verso la fine di un determinato periodo commerciale sembra essere l'immediato predecessore del crollo, non bisogna però dimenticare che la speculazione stessa è stata generata nelle fasi precedenti del periodo, ed è quindi essa stessa un risultato e un incidente, piuttosto che la causa finale e la sostanza. Quegli economisti politici che pretendono di spiegare a partire dalla speculazione gli spasmi regolari dell'industria e del commercio, assomigliano alla scuola ormai estinta dei filosofi naturali, i quali consideravano la febbre come se fosse essa la vera causa di tutte le malattieKarl Marx: La crisi del commercio in Inghilterra, 1857, MECW 15, pag. 401.

A quanto pare, sembra che, anche 130 anni dopo Marx, sia ancora la stragrande maggioranza degli economisti a considerare «la febbre come la vera causa di tutte le malattie». Se si segue la loro logica, la crisi in cui ci troviamo tuttora è iniziata nel 2008 con il crollo finanziario conseguente al fallimento di Lehman. La causa, secondo il loro pensiero, è stata una crisi del sistema bancario, i cui titoli finanziari sono diventati in gran parte privi di valore da un giorno all'altro. Per salvare il sistema finanziario dal collasso completo, i governi hanno dovuto salvare le banche usando il denaro dei contribuenti.  Inoltre lo scoppio delle bolle speculative portò anche a una grave recessione dell'economia reale. Per contrastarla, solo nell'anno successivo, il 2009, vennero lanciati in tutto il mondo programmi di stimolo governativi per un ammontare di circa 3.000 miliardi di dollari, evitando in tal modo una depressione come quella degli anni '30; con alcune deplorevoli eccezioni nel sud dell'Europa. A partire da allora, abbiamo avuto a che fare con una «crisi del debito sovrano» e con un'economia tuttora in fase di declino, mentre i "neoliberisti" e i "keynesiani" stanno ancora discutendo su cosa fare in tale situazione. Mentre la prevalente dottrina estremista del libero mercato, che ignora persino la storia della crisi, avendola accorciata al periodo successivo al 2008, ritiene di dover combattere il debito pubblico secondo il modello microeconomico della «casalinga sveva», dal momento che «abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità», i macroeconomisti keynesiani come il premio Nobel Paul Krugman sottolineano i propri libri di testo: «La ripresa, e non la recessione, è il momento giusto per attuare misure di austerità. Oggi i governi dovrebbero spendere di più, non di meno, e dovrebbero farlo fino a quando il settore privato non sarà di nuovo in grado di sostenere la ripresa».

Un terreno comune tra gli avversari
Questi due punti di vista contrapposti hanno in comune più di quanto si voglia far credere. Le loro somiglianze risiedono nel fatto che - a differenza di Marx - non hanno alcuna familiarità con un concetto sistemico di crisi, e riescono a vedere le cause dei fenomeni di crisi (le quali non possono essere trascurate) solo nel comportamento scorretto degli attori economici, per cui l'uscita dalla crisi diventa solo una questione di tempo e di scelta di giusti provvedimenti. Nei libri di testo neoclassici standard, la parola chiave «crisi» non compare per niente. Essa non può esistere in quanto, secondo quella dottrina, i mercati sono sempre e ovunque in equilibrio - tolte le perturbazioni di breve periodo - e quindi la domanda e l'offerta coincidono. E se l'evidenza empirica mostra il contrario, ciò può essere dovuto solo a fattori non di mercato, i quali pertanto devono essere solo eliminati; una linea di pensiero che giustifica, ad esempio, le politiche di austerità volte a ripristinare la «competitività». Il keynesismo, dal canto suo, è a conoscenza della situazione di crisi - come la definì Keynes negli anni '30 - che vede come uno «stato cronico di attività subnormale che dura per un tempo considerevole senza che essa tenda chiaramente né alla ripresa né al collasso completo». Ma «grazie alle analisi di economisti contemporanei come Keynes, e alle intuizioni dei loro successori, oggi sappiamo quali azioni i politici avrebbero dovuto intraprendere all'epoca. E queste analisi ci dicono anche cosa dovremmo fare nella crisi odierna». Per Paul Krugman, che ho qui citato, la crisi in quanto condizione permanente esiste solo se i politici fanno la cosa sbagliata, o se non fanno nulla, ed è proprio questa l'accusa principale che egli rivolge ai politici tedeschi in particolare nel suo libro "Fuori da questa crisi, adesso!". Andrebbe inoltre notato come la giustificazione delle misure keynesiane sia praticamente priva di qualsiasi determinazione preliminare delle cause della crisi. Le crisi sembrano essere incidenti operativi, qualcosa che accade di tanto in tanto, ma che può essere corretto utilizzando le conoscenze dell'esperienza passata. La mancanza di un concetto sistemico di crisi, ha a che fare con il malinteso relativo al significato e allo scopo dell'attività economica capitalistica, così come viene propagandata, ad esempio, nelle introduzioni ai libri di testo di economia. In quei libri, non si parla di capitalismo, ma si afferma che dall'età della pietra a oggi l'obiettivo dell'economia è stato la produzione e il consumo di beni, i quali purtroppo scarseggiano, e che è per questo motivo che non tutti possono avere tutto ciò che desiderano. Oggigiorno, persino i bambini sanno che a scarseggiare non sono i beni, ma solo il denaro necessario per acquistarli, e che lo scopo di tutta l'attività economica capitalista è esclusivamente quello di trasformare il denaro in ancora più denaro, mentre la soddisfazione dei bisogni è tutt'al più un effetto collaterale gradito, per quanto non sia sempre realizzabile. Solo gli economisti ignorano tutto questo. In tal senso, l'economia può essere compresa come un tentativo di rimuovere in maniera sistematica una tale conoscenza da parte di chi la studia; cosa che a molti imprenditore ha già fatto rimpiangere non avere mail letto Marx, il quale dopo tutto sapeva come funziona il capitalismo.

Il concetto sistemico di crisi in Marx
Alla critica marxiana dell'economia politica, è solo ad essa, è stato affidato Il compito di rendere riconoscibile il capitalismo, vedendolo come un modo di produzione che presenta due forme di ricchezza: Oltre alla ricchezza materiale concreta, quella conosciuta tutte le formazioni sociali, nel capitalismo esiste una seconda forma di ricchezza, astratta e dominante, che viene espressa in denaro ed è misurata in tempo di lavoro, «valore» nei termini di Marx. L'obiettivo della valorizzazione del capitale è quello della moltiplicazione della ricchezza astratta; che questo avvenga a partire dalla produzione di bombe, o da quella di scarpe per bambini è irrilevante, ma tuttavia non si può fare a meno della produzione di ricchezza materiale. Comunque, per quel che riguarda quest'ultima, si tratta solo di un effetto collaterale e non dello scopo dell'attività, la quale invece consiste unicamente nella produzione di plusvalore. L'economia politica prima di Marx, e l'economia politica dopo di lui si sono limitate a identificare queste duplice forma di ricchezza come «ricchezza per eccellenza», tralasciando in tal modo la particolare specificità storica del modo di produzione capitalistico. In sostanza, erano ciechi di fronte alle crisi associate a questo modo di produzione. A partire da Marx, il concetto sistemico di crisi sviluppato da lui sviluppato si basa, in breve, sul fatto che le due forme capitalistiche di ricchezza possono - e lo fanno - entrare in contraddizione l'una con l'altra, sempre di più e in misura sempre maggiore. Dacché l'incremento della ricchezza astratta richiede la produzione e la vendita di ricchezza materiale, il successo della valorizzazione e dell'accumulazione del capitale presuppone la costante espansione della produzione materiale e dei mercati di consumo. Non appena l'offerta crescente, e in linea di principio illimitata, di merci si confronta con una domanda solvibile limitata, il processo di valorizzazione entra in crisi. Le conseguenze sono la sovrapproduzione, cioè i beni invendibili, e la sovraccumulazione, vale a dire, le attività di produzione che non possono più essere valorizzate, i licenziamenti di massa, la chiusura delle attività produttive e infine la fuga del capitale non più valorizzabile verso la speculazione. Queste crisi, che nella storia del capitalismo continuano a ripetersi, non sono il continuo ritorno della stessa cosa; piuttosto, avviene che con l'aumento della produttività, le due forme di ricchezza si separano e si differenziano sempre di più, cosa che Marx descrive come una «contraddizione in processo»: «Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza» (Grundrisse, 706). Il capitale necessita della valorizzazione del lavoro mentre allo stesso tempo elimina gradualmente il lavoro dal processo produttivo, distruggendo così le sue proprie basi. Dal momento che il tempo di lavoro è la misura del valore, la crescente produttività ha come conseguenza quella che, per ottenere la stessa ricchezza astratta, si deve produrre e vendere una quantità sempre maggiore di prodotti materiali. Pertanto, le crisi aumentano sia nello spazio che nel tempo e si intensificano sempre più: «La produzione capitalistica tende continuamente a superare queste barriere immanenti, ma riesce a superarle unicamente grazie a dei mezzi che la pongono poi di fronte agli stessi limiti su scala nuova e più alta. La vera barriera alla produzione capitalistica è il capitale stesso» (Karl Marx: Il Capitale: Volume III, 358).

Le cause a lungo termine della crisi
L'ultima volta in cui il capitale è stato in grado di soddisfare la spinta all'espansione derivante dall'illimitatezza della ricchezza astratta su larga scala, è stato nel periodo del boom fordista dopo la Seconda Guerra Mondiale, durante l'«epoca d'oro del capitalismo» (Eric Hobsbawm) e, allo stesso tempo, del keynesismo. Il fordismo si basava sul lavoro industriale di massa alla catena di montaggio, oltre che sul consumo di massa, e presupponeva un corrispondente aumento dei salari reali insieme all'espansione dei sistemi di sicurezza sociale, nonché l'attuazione di investimenti statali nelle infrastrutture e nel sistema educativo. Durante questa fase espansiva, le fluttuazioni economiche potevano effettivamente essere bilanciate dai programmi di stimolo governativi («controllo globale» e «azione concertata», nella Repubblica Federale Tedesca), ed è a partire da questo periodo che le ricette keynesiane da manuale traggono la loro giustificazione. Quel periodo è ormai passato. Già negli anni '70, il boom fordista aveva raggiunto i suoi limiti - dovuti in parte alla forte crescita della produttività - contro i quali la politica economica keynesiana si dimostrò impotente. Seguì poi la fase della «stagflazione»: i programmi di stimolo governativi non erano più in grado di innescare un'accumulazione di capitale autosufficiente, ma portavano solo ad alti tassi di inflazione, che in alcuni casi erano addirittura a due cifre. Coloro che, come Krugman, propagandano ora il rilancio di tali programmi visti come via d'uscita dalla crisi dovrebbero innanzitutto affrontare il fallimento del keynesismo di allora. Perché è qui - e non nel 2008 - che si trovano le origini della crisi attuale. La risposta a questo fallimento è stato il neoliberismo: una reazione alla crisi dell'economia reale, con l'obiettivo di permettere che si generassero profitti, anche sebbene la base capitalistica reale aveva già cominciato a ridursi. Una delle sue componenti è stata la deregolamentazione del settore finanziario, e quindi l'espansione delle possibilità di creazione di moneta basata sul credito. Fa parte della normale tabella di marcia della crisi, il fatto che i profitti già realizzati, in assenza di reali opportunità di investimento, confluiscano nei mercati finanziari e alimentino la speculazione. Tuttavia, il neoliberismo ha elevato a programma quella che era un'evasione posticipata della crisi, creando in tal modo l'illusione di una nuova modalità di regolamentazione, l'illusione di un «capitalismo guidato dalla finanza». L'indipendenza del capitale finanziario è sempre stato un sintomo delle crisi capitalistiche, ma non è mai stato la loro causa. La particolarità della crisi attuale, che dura da quasi quarant'anni, è la scala spaziale e temporale lungo il quale questo processo si sta svolgendo. Storicamente senza precedenti, ad esempio, è la deindustrializzazione (attuata a favore della nuova «industria» finanziaria) di intere economie, come quella che c'è stata in Gran Bretagna sotto Margaret Thatcher. Smentendo la sua stessa dottrina monetarista, il neoliberismo è stato, in tal senso, una continuazione del keynesismo con altri mezzi, vale a dire, a livello privato. Lo Stato è stato sostituito dai finanziatori privati, i quali hanno finanziato anche l'economia reale attraverso i prestiti, mantenendola in questo modo in vita. Spostando grandi quantità di denaro dal consumo di massa al settore finanziario, simultaneamente scomparve l'inflazione; più precisamente, essa si spostò dai beni di consumo ai mercati azionari e immobiliari (inflazione degli asset), un effetto assolutamente gradito, dal momento che i proprietari dei relativi titoli di proprietà, per arricchirsi potevano contare su di essa. Il «più gigantesco programma di stimolo economico finanziato dal credito che sia mai esistito» (Meinhard Miegel) - in definitiva il finanziamento del credito per mezzo di nuovo credito - non può ovviamente essere sostenuto a lungo termine, più di quanto non lo possa essere un tentativo di generare ricchezza con le catene di Sant'Antonio. Di conseguenza, come per magia, negli ultimi trent'anni le attività monetarie e finanziarie globali sono aumentate di venti volte, ma senza che ci fosse un corrispondente aumento dei valori reali. Nel 2008, lo scoppio di una piccola parte di queste bolle è stato sufficiente a portare il sistema bancario a un collasso quasi totale, dal quale poi è stato possibile salvarlo solo grazie all'intervento degli Stati, che da allora sono alle prese con la propria crisi del debito e con una recessione più o meno grave.

Armeggiare con le conseguenze della crisi
A causa delle inimmaginabili dimensioni della massa monetaria accumulata, che è stata ulteriormente gonfiata dalla politica dei tassi di interesse zero delle banche centrali, una demonetizzazione generale è solo questione di tempo. L'argomentazione keynesiana, secondo cui in apparenza tutto questo denaro non porterebbe all'inflazione, è destinata a rivelarsi ingannevole. Non ci sarà pericolo di inflazione, solo finché questo denaro circolerà in modo autosufficiente nel paradiso finanziario. Tuttavia, non appena comincerà a rivolgersi verso le cose terrene, comincerà ad alimentare l'inflazione. Ciò è già stato osservato sui mercati delle materie prime e dei generi alimentari, nonché su diversi mercati immobiliari e abitativi, a causa dei quali gli affitti nelle principali città tedesche sono diventati di recente inaccessibili per molti degli interessati. Alla luce di questa situazione, le contromisure proposte - se davvero sono intese come una via d'uscita dalla crisi - appaiano stranamente irreali. Entrambe le parti non si accorgono che per quasi quarant'anni l'economia reale è stata tenuta in piedi solo creando debito. Le politiche di austerità che cercano di porre fine a questa situazione devono necessariamente portare alla depressione. I programmi di stimolo keynesiani, invece, equivalgono solo a una mera continuazione della politica del debito all'infinito, visto che il settore privato non sarà mai più in grado di sostenere alcuna ripresa.  Negli ultimi quarant'anni di crisi la produttività nell'industria (secondo i dati tedeschi dell'Ufficio Federale di Statistica) è nuovamente triplicata, e nell'agricoltura è addirittura sestuplicata. Per la produzione di ricchezza materiale, il lavoro diventa sempre più inutile e la produzione di plusvalore reale, basata sullo sfruttamento del lavoro, diventa quindi impossibile. L'incapacità, da parte del modo di produzione capitalistica, di affrontare la possibilità di una vita senza lavoro, è dimostrata, ad esempio, dal fatto che, in nome della fantomatica «competitività», nel Sud dell'Europa meridionale è stata preventivata l'abolizione della siesta e l'introduzione dell'etica protestante del lavoro.  L'uscita dalla crisi è possibile solo superando la forma astratta della ricchezza e quindi il modo di produzione capitalistico, che dovrebbe essere sostituito da un'organizzazione sociale basata esclusivamente sulla ricchezza materiale. Finché questa prospettiva non diventa realistica, sembrerà che si possa scegliere solo tra misure di austerità e programmi di stimolo keynesiani; e ovviamente la seconda soluzione è da preferire. La politica neoliberista di austerità equivale a sacrificare un numero sempre maggiore di persone che non sono più "sistemicamente rilevanti" perché diventate superflue per la valorizzazione del capitale, al fine di mantenere un sistema divenuto insostenibile. Anche i programmi keynesiani hanno l'obiettivo illusorio di salvare il sistema, ma lo perseguono in modo più compatibile, perché non perdono completamente di vista l'aspetto della produzione di ricchezza materiale. Ma tali programmi potrebbero essere un po' più intelligenti di quanto non lo siano stati finora: visto che gli ultimi quarant'anni sono stati molto deleteri per le infrastrutture pubbliche, gli ultimi soldi potrebbero essere spesi saggiamente per il loro parziale ripristino, così come per i sistemi di sicurezza sociale in crisi. Ma per favore, niente più «premi di rottamazione»; dopo tutto, c'è anche la crisi ecologica. Ma questa è una discussione per un'altra volta.

- Claus Peter Ortlieb - Pubblicato originariamente su KONKRET nell'agosto del 2013 -

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