Se le comunicazioni che si sovrappongono e si intersecano in una struttura di relazioni sempre più complessa rappresentano il nodo simbolico e funzionale intorno al quale ruota buona parte delle trasformazioni della città europea alle soglie della modernità, le strutture postali costruite dalla fine dell’Ottocento al secondo dopoguerra costituiscono una testimonianza fra le più significative della fase di transizione verso la metropoli contemporanea. Dietro grandi facciate di misurata monumentalità i palazzi postali nascondono il dinamismo della città moderna. Il grande edificio postale moderno si colloca anche come polo di una trama di relazioni e percorsi dei nuovi tessuti urbani spesso a cerniera fra nuove espansioni e città consolidata o quale elemento determinante nelle ristrutturazioni dei centri antichi riproponendo ai progettisti, in forme inedite, l’antico problema del rapporto fra innovazione del tipo edilizio e permanenza del tessuto storico. Il libro, ristampa del volume del 1996, presenta i più bei palazzi delle poste mediante un ricco repertorio di immagini e schede dedicate a ciascun edificio e traccia un itinerario tra architettura e arte. Raccontando la storia di un’infrastruttura divenuta ormai punto di riferimento nelle nostre città racconta anche una parte della storia e della storia dell’arte italiane.
(dal risvolto di copertina di: Le belle Poste. Palazzi storici di Poste Italiane. Testi di Maria Bianca Farina, Giuseppe Strappa, Giorgio Di Giorgio, Manuela Del Bufalo, Maria Grazia Flaccomio, Bruno Principe, Antonella Riccardi; fotografie di Luciano Romano, Giovanni Ricci-Novara e Massimo Listri Franco Maria Ricci, pagg. 192, € 120)
I palazzi delle Poste, castelli per le Parole
- Gli edifici postali sorsero dopo l’Unità assieme alle stazioni ferroviarie. Erano imponenti e belli per esprimere il genio italico al servizio del popolo. L’età d’oro fu il Ventennio: oggi appaiono superflui -
di Fulvio Irace
Nel 1862, appena un anno dopo l’Unità d’Italia, nacquero le Regie Poste con il compito di mettere in comunicazione l’intero Paese e rendere visibile il messaggio di una Nazione nuova.
Con la sua rilevanza istituzionale, questo nuovo servizio doveva anche documentare l’ingresso dell’Italia nella modernità, lasciandosi alle spalle un passato di carrozze, corrieri, strade battute e stazioni di posta: quella rete di contatti capillari che stava per essere sostituita dalla più robusta ossatura delle strade ferrate. Il servizio postale così come lo intendiamo oggi era nato infatti in Europa insieme alle ferrovie, espressione diretta della globalizzazione avviata dalla rivoluzione industriale che, cancellando i limiti dei confini nazionali e grazie agli spostamenti più veloci, faceva improvvisamente sembrare il mondo molto più piccolo.
La nuova rete doveva essere resa evidente e percepibile a tutti, e perciò andava monumentalizzata. Così le Stazioni ferroviarie divennero le porte civiche di città prive ormai di mura e nodi di raccolta di quelle lineari geometrie di ferro che sostenevano l’impalcatura del territorio. Gli edifici postali - che spesso a esse si ispirarono con i grandi saloni di raccolta per il pubblico - seguirono a ruota. Con una differenza importante però: se le Stazioni sorsero ai margini delle città antiche, le Poste invece si incistarono nel corpo stesso delle città, definendosi come nuovi hub dello scambio e vere e proprie borse merci dell’informazione. E dalle Borse e dalle Banche, non a caso, trassero partito nella fase più matura della loro progettazione, adattando i grandiosi acquari di vetro dei loro atrii e dei saloni centrali agli usi della sportelleria e della corrispondenza.
Naturalmente il processo di messa a punto del format non fu immediato e, nel loro insieme, gli innumerevoli palazzi delle Poste Italiane, nelle loro più diverse declinazioni artistiche e strutturali, testimoniano fedelmente le trasformazioni tecniche, politiche e sociali che il Paese visse nel passaggio tra XIX e XX secolo, come bene documenta la pubblicazione del volume Le belle Poste. Palazzi storici di Poste Italiane, che raccoglie e commenta oltre trenta casi studio realizzati tra il 1894 (le Poste di Trieste) e la stagione del Ventennio.
La grandeur degli inizi si affidò a un amalgama eclettico di stili che aspiravano allo status di uno “stile nazionale”, contaminandosi però con le tradizioni regionalistiche dell’Italia pre-unitaria. Se a Trieste l’architetto viennese Friedrich Setz tradiva le ascendenze culturali dell’Impero austro-ungarico, a Pesaro il bolognese Collemarini dovette addirittura confrontarsi con le reliquie dell’antichissima chiesa di San Domenico, così come a Venezia ci si limitò a ristrutturare il Fontego de’ Tedeschi. Avviato il XX secolo, l’eredità delle influenze storiche locali venne assoggettata alla flessibilità dello stile “nuovo”, il Liberty, che Francesco La Grassa utilizzò a piene mani nelle Poste di Trapani: la seduzione delle decorazioni floreali dei soffitti e i delicati disegni a tempera includono la suggestione di influenze moresche nell’adozione di archi acuti che incastonano le finestre e negli arabeschi dei trafori della balaustra di coronamento. Attenzione, non si trattava solo di generici espedienti per abbellire gli ambienti, ma di oculati tentativi di fondere in maniera appropriata i contributi del genio italiano, in modo da conferire agli edifici postali la dignità di veri e propri palazzi per il popolo. Bisognava coniugare funzionalità e monumentalità, attribuendo alle facciate quel ruolo di “magnificenza civile” che l’ultima stagione del neoclassicismo aveva impostato come tema per la grandezza delle città, ma coniugandola secondo i mutati canoni della sensibilità estetica dei tempi moderni nello Stato unitario. Il vero colpo d’ala avvenne però nel Ventennio fascista, quando l’architettura rivendicata come “arte di Stato” fu chiamata a cimentarsi con una propria “maniera” e trovò nell’ingegnere-architetto Angiolo Mazzoni il suo “Virgilio”. Vero deus ex machina dell’apparato progettuale delle Poste e Comunicazioni e autore prolifico di sedi in tutto lo Stivale, Mazzoni diede avvio al periodo d’oro delle Poste Italiane. La ripresa dell’ideale della sintesi delle arti - sostenuta sia dal muralismo monumentale di Mario Sironi che dalla Scapigliatura del secondo futurismo di Prampolini, Fillia e Benedetta Marinetti - fu determinante nell’apparecchiatura di fabbriche audaci e imponenti, che oggi ci sorprendono come musei popolari dell’arte italiana, incunaboli delle trasformazioni della cultura visiva e delle arti, oltre che, ovviamente, dell’architettura. Se Sironi a Bergamo cantava l’epopea dell’Italia agricola, a Palermo e a Trento gli aereofuturisti idolatravano le acrobazie del volo, l’elettricità dei trasmettitori, il turbinio delle acque agitate dalle eliche e dai motori dei transatlantici. Oggi larga parte di questo patrimonio è entrato - come le Banche, le Borse, le Fabbriche - nella categoria degli edifici dismessi: vittime della rivoluzione digitale, hanno confermato la nota diagnosi di Marx: «Tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria». La profezia che Victor Hugo attribuì all’arcidiacono di Notre Dame - «questa [la stampa] ucciderà quella ['architettura di pietra delle cattedrali]» - alla fine del ciclo industriale si è rivelata una sindrome letale: se il libro di carta minava nel XIX secolo le fondamenta dei libri di pietra, oggi il click delle email è bastato per distruggere questi ultimi castelli di lettere e di parole, confermando la convinzione di molti che internet non si addice all’architettura.
- Fulvio Irace - Pubblicato su Domenica del 25/9/2022 -
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