Anna Achmatova, la vostra voce sono io!
- di Alessandro Barbero -
Anna Achmatova ha attraversato le tragedie del Novecento nel Paese che le ha vissute nel modo più spaventoso, la Russia. È sempre stata orgogliosa di non essersene andata, lei che prima della Grande Guerra aveva viaggiato in Francia e in Italia, conosceva Parigi e Venezia, e avrebbe avuto tante occasioni per andarsene: «No, non sotto un cielo straniero / e non sotto la protezione di ali straniere: / io allora ero con il mio popolo, / là dove il mio popolo, per disgrazia, era», è l’epigrafe aggiunta nel 1961 al suo capolavoro, Requiem, che descrive le sofferenze provocate fra la gente comune dalle repressioni staliniane.
È rimasta e non ha mai smesso di scrivere, convinta che la sua poesia non apparteneva a lei, ma era la voce di tutto un popolo. L’altro grande poeta russo del Novecento, suo allievo e suo erede spirituale, il premio Nobel Iosif Brodskij, in una delle poesie che le ha dedicato scrive che l’intero Paese la ringrazia «per aver avuto il dono della parola / nell’universo sordomuto». Ma la sua stessa sopravvivenza, mentre intorno a lei venivano arrestati, mandati in lager, fucilati, o si suicidavano i suoi familiari e i poeti della sua generazione, è una pagina fra le più contraddittorie, e inspiegabili, della storia russa novecentesca.
Anna era una poetessa famosa già prima della Grande Guerra, fin dall’uscita del suo primo libro nel 1912, quando aveva 23 anni. I suoi versi erano quelli di una ragazzina ricca e viziata, appartenente all’aristocrazia pietroburghese, e lei stessa in età avanzata affettava di stupirsi del loro successo: «Per qualche motivo queste poesie infantili scritte da una ragazzina frivola vennero ristampate tredici volte, e tradotte in diverse lingue. La ragazzina, lei, per quanto mi ricordo, non lo aveva previsto, e nascondeva sotto i cuscini del sofà le riviste su cui venivano pubblicate».
Ma la cosa più stupefacente è che quei versi continuarono ad affascinare i russi e a fare di lei un personaggio pubblico conosciutissimo anche dopo la rivoluzione, nell’Unione Sovietica degli Anni 20. Il mondo che lei aveva amato, il mondo dei salotti eleganti, dei caffè, delle discussioni letterarie e degli amori romantici, era stato spazzato via dalla guerra mondiale, dalla rivoluzione, dalla guerra civile; il suo primo marito, il poeta Nikolaj Gumilev, era stato fucilato dalla Cekà; ma le case editrici sovietiche continuavano a pubblicare i suoi libri, sulla Pravda uscivano articoli che la dichiaravano il più grande poeta russo vivente, e le fabbriche di Stato producevano in serie una statuetta di porcellana che la raffigurava, creata dalla scultrice Natalia Danko, che è in produzione anche oggi – la leggenda dice che in ogni casa russa ce n’è una, mentre l’originale è all’Ermitage.
Ma non poteva durare. La critica proletaria più militante comincia ad attaccare Anna, accusandola di essere una reazionaria, un relitto del passato. La rivoluzionaria Aleksandra Kollontaj, che è stata ministro nel governo di Lenin e adesso è ambasciatore dell’Urss in Norvegia – ed è la prima donna nella storia a essere stata ministro e ambasciatore – la difende, cercando di accreditare un’interpretazione femminista della sua poesia, ma è un’impresa disperata.
L’ultimo libro di Anna ad essere pubblicato è del 1924, poi per 16 anni non uscirà più niente di suo; un’edizione in due volumi dei suoi versi è già in bozze, ma viene fermata. Anna si rende conto che, quando un poeta è celebre come lei, la sua poesia non può più riflettere soltanto la sua sfera privata. Già nel 1922 aveva scritto Io sono la vostra voce, in cui si rivolge a un interlocutore collettivo – la critica letteraria, il popolo russo? – chiedendo perché la amano tanto, perché la riempiono di lodi, e perché nessuno le ha mai più chiesto nulla di suo marito fucilato, e conclude che adesso l’unica cosa che vuole è essere dimenticata.
E intanto l’Urss scivola verso la tragedia dello stalinismo. Anna scrive sempre meno, mentre la sua vita è attraversata da altri amori infelici e matrimoni falliti. Il suo unico figlio, Lev, è arrestato nel 1935, rilasciato, poi di nuovo arrestato nel 1938. Anna passa 17 mesi senza rivederlo, in fila ogni giorno davanti alle carceri di Leningrado, nel gelo dell’inverno e nell’afa dell’estate, sperando che accettino il pacco che gli ha portato, e di avere così la prova che è ancora vivo. Da questa esperienza nasce Requiem, in cui si convince definitivamente che la sua voce è quella di tutto un popolo, perché solo lei fra i milioni di persone che vivono quella tragedia ha le parole per descriverla. Nell’epilogo del ciclo dice: se mi tapperanno la bocca, ricordatevi di me; e se invece mi faranno un monumento, fatemelo qui, davanti alla prigione dove sono stata in piedi per tante ore in mezzo alle altre. La cosa più strana è che la bocca non gliel’hanno mai tappata, nemmeno nell’ora più buia: al momento dell’invasione nazista Stalin in persona darà ordine di evacuarla da Leningrado assediata, dove mezzo milione di persone stava morendo di fame.
Oggi a Leningrado, ridiventata Pietroburgo, ci sono quattro monumenti ad Anna Achmatova: il più visitato sorge davanti alla Prigione delle Croci, come aveva profetizzato lei.
- Alessandro Barbero - Pubblicato sulla Stampa del 18/11/2020 -
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