mercoledì 19 ottobre 2022

«Scarne note di dialettica marxiana» !!

Il fardello del realismo
- Osservazioni a partire dalla lettura del libro di Agustín García Calvo, "Apophtegmes sur le marxisme", Crise & Critique, Albi, 2022 -
- di Miguel Amorós -

In un'intervista del 2010, Agustín García Calvo ha dichiarato a Isidro López che: «Durante gli anni del mio gradevole esilio a Parigi, dal 1969 al 1976, pubblicai con Ruedo Ibérico degli apoftegmi contro il marxismo, nei quali denunciavo le credenze che venivano propagandate sia dal Partito Comunista che da altri, e che ricordo mi avevano disturbato fin dall'inizio, e contro le quali avevo dovuto combattere. In seguito, poi mi sono poi divertito a ricorrere, di tanto in tanto, alle conclusioni di Marx stesso, come la vendita della forza lavoro, un concetto che ho cercato di sviluppare anche seguendo altri percorsi».

Nel maggio 1970, prima della fine del primo anno di esilio di Agustín, la casa editrice Ruedo Ibérico pubblicò, con molta riservatezza, e senza alcuna indicazione da parte dell'autore, un pamphlet dal titolo "Apoftegmi sul marxismo in occasione della commemorazione della nascita di Karl Marx". L'intenzione che guidava Agustín, non era quella di criticare l'opera di Marx, così ricca di contributi, col rischio di partecipare - per il solo fatto di criticarla - al rafforzamento dell'Ordine stabilito, quanto piuttosto evidenziare in che modo, nella forma del marxismo, la sua divulgazione fosse degenerata in un culto, in un sistema «inerte e reazionario» di dogmi. Ed era stato proprio per questo motivo, per discutere «del marxismo che aveva finito per diventa parte dell'ideologia dominante», che la casa editrice Ruedo Ibérico decise di ripubblicare gli Apoftegmi nel numero 55-57 della loro rivista Cuadernos, che corrispose al periodo gennaio-giugno 1977, dedicato a «Bakunin, Marx, ai margini della polemica». In questo testo, Agustín aveva inteso dedicarsi all'«obbrobrioso impegno di uccidere ciò che è morto», vittima dei «germi letali dell'ideologia e della dottrina», parlando dei «pesi morti del marxismo», quindi, del suo fardello, e non della sua forza sovversiva e liberatoria, in particolare quella soggiacente allo sviluppo di concetti come Lavoro, Denaro e Capitale. È curioso che García Calvo non sia mai stato etichettato come marxista, mentre invece, per molto meno, alcuni hanno cercato di integrarlo nel pensiero mainstream in quanto post-strutturalista, attribuendogli una filiazione rispetto ad autori come Nietzsche, del quale egli invece ha sempre negato l'influenza, cercando piuttosto analogie con Deleuze e Foucault.

A prima vista, per comprendere il legame tra Agustín e Marx, sarebbe necessario fare riferimento a quello che è il suo trattamento critico del concetto di Realtà, una parola che, in quanto idea - rappresentazione al servizio del Potere - viene sempre scritta con la lettera maiuscola. Il termine «Realtà» è specifico, è un prodotto della nostra cultura in un determinato momento storico; è stata un'invenzione erudita medievale, costruita a partire dal latino res (cosa), al fine di designare un ambito situato tra il regno di Dio e l'ignoto, ciò che non è conosciuto e che gli antichi chiamavano talvolta natura. In linea di principio, si riferiva ad attività come il commercio, la giustizia o le arti. Si cercherebbe invano un termine simile nell'antichità. La realtà venne così stabilita dall'alto dell'autorità terrena con l'aiuto dell'autorità scolastica. Attraverso l'influenza di astrazioni come Uno, Nulla o Tutto, le cose, gli esseri viventi e inerti, sono stati obbligati «a essere, o a credere di essere, ciascuno di loro, uno, nulla o tutto». In preda alle idee, e in loro balia, le persone e gli oggetti hanno potuto così credere di essere una Realtà, una Realtà determinata da «ingiunzioni dall'alto» – sia che si chiamasse Regime, Chiesa, Stato o Capitale - e che doveva essere accettata dai mortali come un atto di fede. A smascherare un tale inganno, questa falsificazione, Agustín dedicherà tutti i suoi sforzi. La sua determinazione, tenace e filologica lo porterà a seguire la via eraclitea, vale a dire, la via del pensiero prefilosofico, complicando così il suo linguaggio e rendendolo di difficile comprensione; ma la stessa cosa si potrebbe dire anche della via hegeliana seguita da Marx. In fin dei conti, la Realtà non era affatto «tutto ciò che c'è», e ancor meno era il ricettacolo della verità, la quale risiedeva al di fuori di essa. Così come si presentava a noi, era semplicemente la concretizzazione materiale delle ideologie del Dominio, o come direbbe Marx, del Capitale stesso. Si trattava, in definitiva, di una relazione sociale mediata da astrazioni e sostenuta dalla fede in esse. Nel Capitale di Marx, Agustín trova un metodo originale per comprendere ciò che chiamava Realtà, per svelarne le contraddizioni e distruggerle. Insieme a essa, anche l'antitesi tra soggetto e oggetto veniva annullata; la persona - il lavoratore - era semplicemente una cosa, con tutti i suoi attributi economici. La realtà era solo Economia. Al suo interno, il denaro, «il nome comune a tutte le cose», che sta letteralmente divorando la forza lavoro, è stato convertito in Capitale, il denaro a sua volta è stato «reso umano», e così «eredita tutti i tratti della soggettività, che i lavoratori gli hanno ceduto». Leggendo questi brevi commenti, riusciamo a comprendere il perché dell'euforia generatasi, molto post festum, nella scuola della «critica del valore», nell'ascoltare il suono di queste «scarne note di dialettica marxiana», in un'opera assai precedente alla riflessioni di Moishe Postone.

Agustín attaccava le grandi debolezze del marxismo, il suo materialismo. Anche il concetto di Materia è altrettanto idealistico di quanto lo è il concetto di Spirito, attorno al quale Hegel ha incentrato tutto il suo sistema, e pertanto andava combattuto in quanto erede della Religione. In realtà, l'idea non proveniva da Marx, bensì da Engels, ed è stata adottata con entusiasmo dalla socialdemocrazia tedesca e da Lenin. Il salto all'indietro, verso il materialismo meccanico e scientista, era già stato abilmente criticato da Anton Pannekoek in "Lenin il filosofo", e da Karl Korsch in "Marxismo e filosofia", ragion per cui non c'è molto da aggiungere. L'altra contraddizione evidenziata da Agustín deriva dal termine «storico», l'aggettivo che accompagna il materialismo marxista e la dialettica. Dal momento che Storia e Realtà si si fondono e si confondono, la narrazione dei fatti che sono accaduti finisce così per diventare solo un passato morto, oggetto di studio scientifico: l'azione viene rimpiazzata  dall'Idea dell'Azione, e la narrazione sostituita dall'ideologia, «una visione che è stata diffusa e si è imposta a partire dalla Società dominante». La contraddizione risiede nel Tempo - naturalmente, un tempo lineare, cronologico - sia che venga anche chiamato Evoluzione, o Progresso. Tuttavia, già Walter Benjamin - a cui lo stesso Agustín allude - aveva affrontato il tema con maggiore chiarezza, spiegando la dialettica della rivoluzione vista come una rottura del continuum storico reificato, come quell'improvviso salto della vita al di fuori dall'epoca, e che le improvvise accelerazioni del tempo durante le insurrezioni popolari comportavano. Un altro contemporaneo di Benjamin, Siegfried Kracauer, menzionerà nel suo "Prima delle cose ultime" [Marietti] il concetto di «evento emergente», e lo farà riferendosi all'evento che determina il suo contesto, piuttosto che essere prodotto da esso, e consiglierà allo storico - al narratore - di «dedicarsi alle molteplici forme del tempo».

Uno dei punti più deboli dell'ideologia marxista è stato - e lo è tuttora - la sua valorizzazione positiva del lavoro e l'esaltazione della condizione operaia, in totale contraddizione con le analisi di Marx. L'operaismo ha spiegato quel limbo nel quale si registravano sia il disgusto per la fabbrica quanto la critica al consumo e alla vita quotidiana, se si eccettuano le ricerche di Henri Lefebvre e dell'Internazionale situazionista, che Agustín certamente ignorava. Più incisiva è stata la sua condanna di quello che è il luogo comune per eccellenza del marxismo - e non solo del marxismo - vale a dire, la lotta di classe. Benché la dinamica capitalistica non avesse ancora messo fine alle classi nel modo in cui esse esistevano all'inizio del secolo, e sebbene il proletariato fosse perciò ancora una forza storica con cui fare i conti - anche se questo non era vero ovunque - il processo di razionalizzazione che aveva notevolmente modificato lo schema di classe era ben visibile. Si stavano sviluppando nuove classi, favorite dallo sviluppo statale e tecnologico, e con il crescere del ruolo dello Stato, il proletariato andava esaurendosi. Inoltre, le lotte di liberazione delle nazioni oppresse, spostando la lotta di classe, avrebbero trascinato Marx nel fango del nazionalismo: in un'ottica terzomondista, contraria all'internazionalismo, ecco che gli sfruttati non erano più uguali dappertutto, e il Capitale sarebbe stato meno dannoso in alcuni Paesi, di quanto invece lo era in altri; secondo Agustín, una cosa del genere andava contraddetta dagli stessi oppressi, senza mezze misure e senza «moltiplicare i regni delle successive epifanie del Signore». Agustín insisteva sulla convergenza del Capitale e dello Stato, che stava dando origine a un nuovo capitalismo - già denunciato da Bruno Rizzi in relazione alla società sovietica, e da Friedrich Pollock e da Franz Neumann, teorici della Scuola di Francoforte - e di conseguenza a una trasformazione delle classi, insieme alla natura dell'oppressione. Il capitalismo di Stato totalitario o «democratico», che ha sostituito la sua forma liberale, è stato caratterizzato da una regolamentazione burocratica dei mercati e dal controllo statale dei movimenti di capitale, e si è reso responsabile quindi di una prima smaterializzazione del denaro, che non si basa più su alcuno standard, bensì sull'autorità dello Stato. Per il marxismo ordinario, lo Stato divenne ancora più attraente, se possibile; ma per Agustín la conquista politica dello Stato non eliminava la contraddizione tra governanti e governati, non eliminava lo sfruttamento, poiché qualsiasi forma di potere costituito - qualsiasi Stato - era una forma di Capitale. Stato e Capitale erano le due facce della stessa cosa, quella pubblica e quella privata, impossibili da distruggere separatamente. Oggi, che entrambi sono entrati nella fase neoliberista, le cose sono ulteriormente peggiorate, perché il denaro - il potere, la realtà, la totalità - si basa sul credito e sulla fiducia nelle banche private, mentre lo Stato rimane in disparte, svolgendo le sue funzioni, altamente sviluppate, di esecutore delle proprie direttive; quelle di poliziotto e carceriere.

L'enorme rafforzamento dello Stato ha finito per rendere quasi pressoché puerili le acute osservazioni di Agustín. Visto da lontano, questo corposo opuscolo appare oggi un po' sottotono, sia per la degradazione e compromissione che ha subito il marxismo ideologico, e sia per la disintegrazione della più grande conquista della civiltà borghese, vale a dire  l'Individuo, sempre più immerso nelle categorie - idee o immagini - strutturanti il capitalismo. Le ultime osservazioni ci portano a Freud, altro autore che Agustín elogia, divertendosi ad affermare che l'anima è di natura freudiana, dato che segue le regole descritte dalla psicoanalisi. Allo stesso modo, l'anima è anche marxista, poiché si comporta secondo le regole dell'economia descritte da Marx. Infine e soprattutto, Agustín ammette che questi suoi Apoftegmi sulle scoperte di Marx e sulle aberrazioni del marxismo, funzioneranno solo nella misura in cui sembreranno provenire dalla voce anonima dei miserabili della terra, della gente che non esiste come componente positiva della Realtà, della gente comune che dice sempre «no».

- Miguel Amorós, 11 maggio 2022 -

Fonte: Les Amis de Bartleby

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