venerdì 7 ottobre 2022

Libri in “pisano” e la «macchina che strizza i limoni…

Dubbi e paura di sbagliare accompagnano spesso il nostro uso della lingua. Quando parliamo, quando scriviamo. Eppure, per chi studia la storia delle lingue gli errori sono una benedizione: sono la traccia che rivela una tensione latente, il fossile che permette di ricostruire un suono perduto, la linfa vitale che spinge le lingue verso il loro futuro. Dopo aver raccontato in "Scritti a mano" la letteratura italiana a partire da otto celebri manoscritti, in "L'eccezione fa la regola" Matteo Motolese guida il lettore alla scoperta dell'importanza degli errori nella storia dell'italiano. Dalle trascrizioni imperfette delle poesie della corte di Federico ii alle celebri edizioni di Aldo Manuzio, dalle sgrammaticature di Manzoni fino al correttore di Word, queste sette storie ci conducono in un viaggio lungo oltre dieci secoli alla fine del quale anche chi una volta ha scritto 'quore' potrà sentirsi meno solo.

(dal risvolto di copertina di: Matteo Motolese, "L'eccezione fa la regola. Sette storie di errori che raccontano l'italiano". Garzanti. €18)

L’importanza degli strafalcioni
- Gli errori grammaticali sono una risorsa per studiare l’evoluzione del nostro idioma -
di Matteo Motolese

Dubbi e paura di sbagliare accompagnano spesso il nostro uso della lingua. Quando parliamo, quando scriviamo. Eppure, per chi studia la storia delle lingue gli errori sono una risorsa preziosa. Sono la traccia che rivela una tensione latente, il fossile che permette di ricostruire un suono perduto, la linfa vitale che spinge le lingue verso il loro futuro. Per questo, seguirne le tracce, ricostruirne la storia, può aiutare a comprendere meglio come sia cambiato, nel tempo, anche il nostro rapporto con la lingua.
Al tempo di Dante, ad esempio, la percezione degli errori era diversa da quella che abbiamo oggi. L’ortografia, per l’italiano, non esisteva. Una parola come figlio poteva essere scritta anche filglo, fillio o figlo senza che questo costituisse un problema. Non si trattava di mancanza di cultura: il volgare, ossia la lingua usata dal popolo, non aveva regole condivise. Questo influiva anche sul modo in cui circolava la letteratura. Lo vediamo osservando uno dei più importanti manoscritti della poesia delle Origini. Il codice – oggi conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze – contiene centinaia di componimenti di autori diversi: dalle poesie della Scuola siciliana sino a un sonetto di Guido Cavalcanti, che era forse ancora vivo quando i suoi versi vengono trascritti (muore nell’agosto 1300). Il manoscritto si deve al lavoro di otto o nove amanuensi diversi. Non conosciamo i loro nomi né la loro età ma sappiamo che la maggior parte era di provenienza pisana. Come facciamo a dirlo, dopo così tanto tempo? Perché nel loro modo di copiare, di rendere determinati suoni della lingua, hanno lasciato una traccia della loro pronuncia. Se ne accorse già alcuni secoli fa uno dei possessori del codice, che annotò su una delle prime carte: «questo libro è scritto da un pisano. E vi si osserva che sempre invece della z mette la s e talvolta invece della s mette la z». Nel pisano antico, infatti, il suono della z del fiorentino veniva pronunciato come s. È per questo che anche nel sonetto di Cavalcanti – che era fiorentino come Dante – una parola come senza è trascritta sensa. Oggi sarebbe un errore imperdonabile; al tempo era considerato normale.

È solo a partire dal Rinascimento che nasce l’esigenza di un sistema di regole condivise per l’italiano. La diffusione della stampa a caratteri mobili contribuisce, in modo decisivo, a questa trasformazione. Per la prima volta, la lingua diventa anche una merce. I tipografi, non potendo gareggiare con i manoscritti sul piano della bellezza, puntano sulla correttezza dei testi per promuovere i loro libri. La concorrenza è spietata. Nel 1501, a Venezia, mentre sta stampando un’edizione di Petrarca – uno dei vertici dell’editoria di tutti i tempi – Aldo Manuzio è costretto a difendersi dall’accusa di pubblicare un libro pieno di errori. Non era così, naturalmente: quelle forme che sembravano sbagliate agli occhi dei più erano il frutto di scelte ben precise. Dietro all’intera operazione c’era infatti colui che di lì a qualche anno sarebbe diventato il principe dei grammatici della nostra lingua, ossia Pietro Bembo.

È l’inizio di un nuovo modo di guardare alla lingua italiana, la nascita di un’idea di correttezza grammaticale basata sul rispetto degli esempi letterari del passato che determinerà per secoli l’assetto dell’italiano. Sarà Manzoni, in pieno Ottocento, a superare questa impostazione nei Promessi sposi, scegliendo di sostituire alla letteratura il parlato fiorentino del suo tempo. Un’operazione difficilissima, soprattutto per un milanese come lui che il fiorentino lo dominava solo nella sua versione scritta e letteraria. In Biblioteca Braidense, a Milano, si conservano ancora i bigliettini che mandava a un’istitutrice fiorentina per sciogliere i dubbi che aveva dopo quasi vent’anni di lavoro sul romanzo: «La macchina che strizza i limoni come si chiama?», chiedeva; alcune volte l’incertezza riguardava il modo di girare una frase: «Si può dire il paese formicolava di poveri o bisogna dire i poveri formicolavano in quel paese?». Lo sforzo di riprodurre sulla pagina la naturalezza del parlato di Firenze porterà Manzoni ad accogliere anche forme considerate fino a quel momento sbagliate dai grammatici: così, ad esempio, il tipo io avevo invece di io aveva per la prima persona dell’imperfetto, oppure l’uso di lui e lei in funzione di soggetto. È grazie alla loro presenza nei Promessi sposi che queste forme sono progressivamente entrate nella lingua italiana.

E questo in un’Italia alle prese con la piaga dell’analfabetismo e abitata in gran parte da persone incapaci di parlare la lingua nazionale. Oggi, le nuove frontiere dell’italiano sono legate a contesti del tutto diversi, che hanno a che fare con la dimensione digitale della lingua, con le questioni di genere. È su questo terreno che si misura anche l’idea di errore. Ogni giorno il nostro contatto con la lingua viene mediato da dispositivi che reagiscono alle nostre scelte: il correttore del computer ci segnala ciò che considera sbagliato e suggerisce ciò che considera giusto; lo stesso fanno l’algoritmo di Google e il software del nostro cellulare. La rivoluzione digitale, mentre ha moltiplicato le occasioni di scrittura, ha generato anche un senso di fragilità. Come se il cambiamento fosse troppo rapido, poco controllato. Non bisogna però cedere a facili allarmismi. Ciò che sta avvenendo è un processo del tutto naturale, fisiologico. Certo, a noi spetta una cura nell’uso della lingua che non è forse molto diversa da quella che dobbiamo destinare al paesaggio, all’ambiente. Non irrigidendolo e tenendolo sempre immobile ma accompagnando le sue trasformazioni per preservare la sua ricchezza e la sua vitalità.

- Matteo Motolese - Pubblicato su Domenica del 21/8/2022 -

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