lunedì 22 aprile 2019

Kafkiana

Cose da Kafka
Israele, la battaglia per i manoscritti supera la fantasia del “Processo”
di Meir Ouziel

Se oggi Franz Kafka fosse vivo non crederebbe alla vicenda kafkiana di cui lui stesso è causa. Recentemente alcuni rappresentanti della Biblioteca Nazionale di Israele si sono recati in un appartamento di Tel Aviv alla ricerca di suoi manoscritti (tra i quali, forse, racconti finora mai pubblicati) e nei giorni scorsi (il 10 aprile) un tribunale svizzero li ha autorizzati ad aprire alcune casseforti a Zurigo in cui con ogni probabilità si trovano altri suoi scritti. Tutto questo raro materiale letterario fa parte dell’archivio di Max Brod, il migliore amico di Kafka, che apparteneva alla signorina Eva Hoffe, la proprietaria dell’appartamento, delle casseforti di Tel Aviv e di quelle di Zurigo. La casa della donna era in uno stato pietoso.

L’archivio di Max Brod
Fino all’estate scorsa Eva Hoffe, nubile e senza figli, vi aveva vissuto da sola, con numerosi gatti, e la visita dei rappresentanti della Biblioteca Nazionale di Israele è avvenuta dopo un lungo contenzioso legale dal quale la donna, che insisteva a serbare in casa sua quei tesori e a decidere a quali archivi consegnarli, è uscita di volta in volta sconfitta. Io ho conosciuto la signorina Hoffe e ho avuto modo di conversare con lei.
I manoscritti appartengono, come si è detto, all’archivio di Max Brod, anch’egli scrittore ebreo di Praga e fin da giovane amico intimo di Kafka. Kafka morì di tubercolosi all’età di quarantun anni, ancor prima dell’avvento del nazismo, e lasciò a Brod un testamento secondo il quale gli cedeva tutti i suoi manoscritti e gli ordinava di bruciarli. Max Brod non lo fece. Al contrario, pubblicò i manoscritti e quando fuggì dai nazisti per approdare in Terra di Israele li portò con sé. Così il mondo conobbe Il processo e gli altri capolavori di Franz Kafka. Esistono poche opere letterarie di importanza mondiale quali quelle di Kafka, scampate alle fiamme.
Max Brod morì a Tel Aviv e lasciò il suo archivio a Esther Hoffe, la sua segretaria e la persona a lui più vicina. Anche Esther passò a miglior vita. Le sopravvissero le due figlie: Ruth ed Eva. Ruth venne a mancare in età relativamente giovane e nelle casseforti di Eva rimase ciò che tutto il mondo avrebbe voluto vedere: pagine autografe di Kafka e i diari di Max Brod riguardanti l’amico. Ancora oggi non sappiamo esattamente che cosa ci sia in quei forzieri.

Materiali contesi
La Biblioteca Nazionale di Israele sostiene che i materiali in essi contenuti le appartengono, in quanto Max Brod era intenzionato a lasciarglieli. Altre istituzioni obiettano che erano invece destinati a loro ed Eva Hoffe, che li aveva ricevuti in eredità, proclamava con fermezza che stava a lei decidere a quali archivi, in Israele o all’estero, affidare quel tesoro letterario. La battaglia legale che ne conseguì le spezzò il cuore e la ridusse in uno stato di indigenza. I processi intentati contro di lei la videro sconfitta e il contenuto dell’archivio di Brod andò alla Biblioteca Nazionale dello Stato di Israele. La scorsa estate, in agosto, Eva Hoffe è morta in un ospedale di Tel Aviv all’età di 85 anni.
Io la conobbi in seguito al mio interesse per Max Brod e Franz Kafka. Di tanto in tanto ci parlavamo. Mi raccontava del garbuglio legale nel quale era rimasta avviluppata come K., il protagonista del Processo. Dopo essere uscita sconfitta da varie cause, arrivate fino alla Suprema Corte di Giustizia israeliana, mi disse: «Sono in lutto, mi sono rasata i capelli».
Questa è una vicenda kafkiana in cui uno Stato e altri organi di potere hanno impedito a una donna debole di decidere che cosa fare dei manoscritti in suo possesso. Parafrasando il grande scrittore praghese: è una giustizia che ha una vita propria. È impossibile capirla, raggiungerla, spiegarla. Ed è impossibile non ritrovarsi in una situazione in cui non ti faccia sentire colpevole.
So che esistono diversi aspetti della questione. Che la vendita in passato del manoscritto del Processo per due milioni di sterline a un’asta di Sotheby’s da parte di Esther Hoffe suscitò risentimento (secondo la legge israeliana la signora Hoffe avrebbe dovuto preparare alcune fotocopie del manoscritto, cosa che in effetti fece; inoltre pagò per intero le tasse relative alla vendita).
Durante un’udienza del processo in un tribunale di Tel Aviv in cui ero presente tutti i posti a sedere erano occupati da avvocati. Ogni gruppo di legali rappresentava interessi diversi. A Eva Hoffe non fu permesso di dire una sola parola e io notai quanto faticava a stare zitta quando si parlava di lei, di sua madre e di Max Brod, che l’aveva cresciuta.

Novantacinque anni dopo
È un peccato che Kafka non fosse in quell’aula. Non avrebbe creduto che in un tribunale di Tel Aviv si discutesse di ogni parola di un biglietto da lui scritto novantacinque anni prima in una squallida stanza di Berlino - magro come uno scheletro e moribondo a causa della tubercolosi, con accanto la sua amata Dora, allora diciannovenne .- nel quale chiedeva a Max Brod di bruciare tutti i suoi scritti senza neppure leggerli.
La corte, per un breve momento, dibatté anche se Max Brod, non avendo seguito la volontà di Kafka e le istruzioni del testamento, non si fosse impossessato dei manoscritti in maniera disonesta. Uno dei giudici disse persino: «Potremmo bruciarli oggi stesso. Organizzare una cerimonia e dar loro fuoco». Era uno scherzo, naturalmente. Ma chiunque abbia letto Il processo sa che una parola che all’imputato sembra pronunciata per scherzo potrebbe rivelarsi una seria norma di legge.
I processi vertevano sulla questione se i manoscritti di Kafka e di Max Brod fossero stati effettivamente regalati da quest’ultimo a Esther Hoffe, la madre di Eva. Esiste un documento che lo comprova ma gli avvocati cercarono di dimostrare che quel dono in realtà non era tale.
Sono sicuro che se nel 1924 il tubercolotico Kafka, agonizzante in un letto di Berlino, avesse saputo che lo Stato di Israele, quasi un secolo dopo, avrebbe discusso con tanta prolissità, nel corso di un processo andato avanti per anni, su quanti quaderni scritti di suo pugno aveva lasciato, avrebbe riscritto tutte le sue opere e le avrebbe rese ancora più assurde per avvicinarsi alla realtà.

- Meir Ouziel - Pubblicato sulla Stampa del 20/4/2019 -

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