mercoledì 24 aprile 2019

L’alba della critica del valore

Lavoro Astratto e Socialismo
- Sulla teoria del valore di Marx e la sua storia -
di Robert Kurz - da Marxistische Kritik IV (1987)

[Frammento tratto dalla I parte: «Il destino della teoria del valore nel marxismo tradizionale»]

Si potrebbe pensare che la teoria del valore - in quanto al centro dell'opera di Marx - avrebbe dovuto diventare la principale arma teorica del vecchio movimento operaio, e del "marxismo" tradizionale che si era sviluppato su questo terreno. Niente affatto. Non c'è nessun'altra parte della costruzione teorica di Marx che abbia un significato meno reale, per i marxisti, di quello che per loro ha la teoria del valore. La maggior parte delle conclusioni politiche, strategiche e programmatiche marxiste non fa alcun riferimento organico alla critica del valore svolta da Marx. Ogni tanto, perfino gli avversari e i difensori, in linea di principio, negavano che, per essere "marxista", bisognasse rimanere sul terreno della teoria del valore di Marx [*1]. Questo fenomeno, a prima vista sorprendente, merita di essere esaminato più da vicino. Vista in termini di contenuto, finora, la scarsa rilevanza della teoria del valore, fondamentale per il marxismo, si basava soprattutto su due punti. Da un lato, non era tanto il valore ad essere interessante a livello elementare, ma semmai il plusvalore. Il valore come tale veniva livellato attraverso delle determinazioni aride, che lo definivano, intendendolo acriticamente come se fosse una pura ovvietà. Questo atteggiamento, tuttavia, deriva necessariamente da quello che è un certo stadio di sviluppo della relazione capitalistica del valore in quanto prassi storico-sociale, giacché ha dominato direttamente le condizioni empiriche della vita della classe operaia. In un certo senso, a partire dal XV secolo, la produzione di merci si era sviluppata seguendo un grande impulso, e la relazione di valore tendeva a generalizzarsi, sebbene ciò avvenisse solo in delle aree parziali o periferiche della riproduzione degli individui. Nel processo di espansione della relazione di valore, del resto, inizialmente il lavoro salariato emerse solo in alcuni punti; significativamente, le prime grandi manifatture venivano gestite da detenuti (si veda: Kuczynski, 1967). Tuttavia, una gran parte della produzione di merci veniva svolta per lunghi periodi, soprattutto fra i piccoli produttori artigianali e contadini, sulla base del lavoro autonomo. Anche nei paesi occidentali più sviluppati, ancora all'inizio del XX secolo, il capitale non copriva affatto tutti i rami interni della produzione. La reale, e quasi totale, generalizzazione del lavoro salariato comincia solo dopo la seconda guerra mondiale. La classe operaia tradizionale ed il suo movimento, quindi, erano ancora fortemente influenzati da una logica artigianale, soprattutto nella forma di operai qualificati, che ne costituiva ovunque anche il nucleo principale. E la classe operaia, nella sua coscienza, ha conservato la memoria recente dell'esistenza di un produttore senza il comando del capitale monetario, ha conservato l'orgoglio del proprio lavoro come operaio manuale qualificato dentro il sistema della fabbrica, e insieme a queste cose ha conservato anche quella che era la visione immediata dei grandi settori di produttori indipendenti, i quali hanno continuato ad esistere per lungo tempo nel settore capitalista: «Le aspettative di vita dell'operaio erano abbastanza piccolo-borghesi» (Grebing. 1962, p.125). Tale coscienza non era in alcun modo capace di criticare il fatto che l'operaio creasse «valore», ma, al contrario, ne esprimeva l'immagine positiva. Proprio come nel modo in cui, per il marxismo tradizionale, la teoria del valore di Marx era più positiva che critica. Se Kautsky e,più tardi, Lenin difenderanno la «teoria del valore-lavoro», contro la Scuola dell'Utilità Marginale e contro altri critici borghesi, questo è sempre avvenuto nella forma dell'affermazione dell'operaio che «crea il valore», e non, per esempio, come critica del valore in quanto potenza negativa e distruttiva. La scientificizzazione della produzione e, pertanto, la sussunzione reale del lavoro salariato sotto il capitale, non era ancora sufficientemente avanzata da poter scardinare una tale fiducia.
In simili condizioni, la critica del lavoro salariato non poteva che essere limitata alla critica del plusvalore, compresa in maniera grezza. Gli operai non volevano veramente liberarsi dalla forma di valore e di merce della produzione, ma solamente dal capitale monetario che attanagliava la loro gola; ciò corrispondeva, visto da oggi, a quella che era una fase poco sviluppata della socializzazione, nella quale le basi scientifiche della socialità diretta (istituzioni scientifiche, educazione generale, tecnologia, infrastrutture e logistica sociale della produzione) non svolgevano un ruolo così tanto dominante, e dove gli operai di una fabbrica avrebbero potuto dirigerla facilmente, e mandarla avanti in quanto operai «auto-organizzati», come se fossero un artigiano quasi collettivo che si basava sulla produzione di merci. L'alternativa alla relazione di capitale, non sembrava essere l'abolizione del lavoro in quanto tale, ma piuttosto una produzione cooperativa di merci. Il socialismo cooperativo, nelle sue molteplici varianti, riflette questa fase «intermedia», ancora non matura, della socializzazione capitalista. In questo contesto, sulla base inconsciamente presupposta del valore, i concetti di società di classe e di sfruttamento sono stati trasformati in una grossolana concezione di «poveri» e di «ricchi», ed il concetto di plusvalore è diventato la rappresentazione dell'accaparramento di «tutta la produzione del lavoro» deliberatamente attuata da parte del capitale; una comprensione, questa, che testimonia quanto fosse irremovibile lo spirito artigianale, e quanto il lavoratore fosse aggrappato ai propri mezzi di produzione. Marx, d'altra parte, che pensava secondo la logica del processo di socializzazione e scientificizzazione, attaccava con forza un tale mondo immaginario - rappresentato nella sua forma più pura dal Lassallismo - nella sua (abusata) «Critica del Programma di Gotha». Ma anche il «marxismo» va considerato a partire dalla coscienza storicamente condizionata degli operai avanzati; ciò si traduce in una lettura allo stesso tempo ancora dominante e riduttiva. L'affermazione dell'operaio «creatore di valore» non fa apparire il plusvalore come se fosse lo status moderno del valore, ma come una categoria della relazione di valore, vista come un supplemento esterno. Se l'abolizione del plusvalore non significava la restituzione della «produzione totale», una simile comprensione sembrava non avere alcun senso. Pertanto, Bernstein, prontamente, trasformò l'argomentazione di Marx in una giustificazione della relazione di capitale (si veda: Bernstein, 1923). Il concetto di sfruttamento doveva così tradursi, senza rendersene conto, in una relazione diretta di dominio personale («violenza» del capitalista, come slogan di agitazione).  Nel livellamento sociologico, le classi acquistavano un'esistenza indipendente ed autonoma, «a fianco» del concetto del valore; e non è un caso che nell'articolo di Lenin, «Karl Marx» (1913), che propone solo una «dottrina economica» generale, la «lotta di classe» sia logicamente un'entità quasi indipendente, ex ante la teoria del valore (Lenin, 1970), Le classi non sono - come nella costruzione logica dell'opera di Marx - derivate del valore e del suo movimento, apparendo invece piuttosto come indipendenti nelle loro azioni contro il valore; un approccio, questo, che apre le porte a quelli che saranno i malintesi politici della critica dell'economia politica [*2]. Il «marxismo occidentale» non ha superato questa riduzione della teoria di Marx; al contrario, l'ha rafforzata e l'ha ampliata. Non si è fatto ricorso alla critica del valore, bensì al «soggetto», sia esso collettivo o individuale, ed inteso come se fosse indipendente da quella critica. Ma il soggetto, che non intende sé stesso in quanto definito dal valore, il cui superamento  è la condicio sine qua non della sua stessa liberazione, deve rimanere in questo modo un soggetto borghese astratto. Quanto poco il moderno «marxismo occidentale» riesca a superare quello tradizionale, appare esattamente laddove tenta esso stesso di ricostruire la critica dell'economia politica. Ed ecco che, quindi, secondo Louis Althusser, la teoria del valore di Marx non è in alcun modo la base logica della teoria del plusvalore e, perciò, quest'ultima non è affatto una conseguenza della prima. Piuttosto, al contrario, la dottrina del plusvalore è una «teoria scientifica di ciò che i proletari fanno esperienza quotidianamente: lo sfruttamento della propria classe» (Althusser, 1973, p.88). Qui diventa visibile in maniera ancora più esplicita la medesima riduzione che era già stata applicata nel marxismo tradizionale, ed ecco che dietro l'apparente oggettivismo strutturalista salta fuori la soggettività astratta di quelle che sono quasi tutte le nuove costruzioni teoriche marxiste [*3].
In tale contesto, bisogna richiamare l'attenzione su una citazione di Marx del 1859: « Per i fisiocratici, tuttavia, così come per i loro avversari, la scottante questione controversa non consiste nel sapere quale sia il lavoro che crea valore, ma quale lavoro crea plusvalore. Perciò, affrontano il problema in maniera complicata ancor prima di averlo risolto in quella che è la  sua forma elementare; secondo la stessa identica maniera in cui il cammino storico di tutte le scienze arriva ai propri veri punti di partenza solo dopo numerose deviazioni e derive» (Marx, 1968, S.55). Evidentemente, l'ironia della storia risiede nel fatto che il cammino di questa scienza basata sul marxismo si ripete in maniera diversa, allo stesso modo in cui lo ha fatto il vecchio movimento della classe operaia, passando attraverso tutti i momenti di emancipazione borghese, facendolo però su una scala più elevata di socializzazione capitalista, quella di una forma «proletaria» o «marxista», senza potere però uscire dalla categoria del valore e, pertanto, dalla relazione di capitale. In secondo luogo, è stata la «legge del valore» che, in contrasto con la teoria del valore stessa, per il marxismo tradizionale è diventata oggetto di critica e di controversia. A prima vista, quest'affermazione può sembrare bizzarra. Tuttavia, «valore» e «legge del valore» non sono immediatamente identici. Generalmente, la legge del valore indica la forma per mezzo della quale avviene l'«allocazione delle risorse» attraverso la categoria del valore; la forma in cui si dà la proporzionalita sociale della distribuzione della forza lavoro e dei mezzi di produzione nei diversi rami della produzione. Pertanto, va intesa come forma indiretta della regolazione sociale, la cui istanza centrale è rappresentata dal mercato. A tal proposito, come sappiamo, il topos del marxismo tradizionale e del vecchio movimento operaio è quello dell'«anarchia del mercato». In tale definizione, la «legge del valore» in gran parte si dissolve. Allo stesso modo in cui lo stesso plusvalore, all'interno della stessa categoria del valore, è stato frainteso, lo è stata anche la legge del valore vista come «principio anarchico di concorrenza». L'anarchia del mercato è stata altrettanto fraintesa del plusvalore, non in quanto esistenza reale del valore stesso, ma come se fosse un effetto esterno ed erroneo delle azioni dei capitalisti orientate al profitto. Questo pensiero «marxista» rifletteva quelle che erano le crisi descritte anche da Marx a metà del XIX secolo, la Grande Depressione alla fine del Gründerzeit (1874-1879), la stagnazione congiunturale minore avvenuta prima della prima guerra mondiale e, infine, la Grande Depressione (1929-1933). Tuttavia, l'approccio centrale della critica, fondamentalmente, non riguardava la categoria del valore in sé, ma soprattutto il meccanismo «cieco» del mercato. Così come sembrava si potesse rendere libero l'operaio «creatore di valore» dall'erroneo principio del plusvalore, la medesima cosa venne estesa alla riproduzione sociale basata sul valore, relativamente alla regolazione «cieca» del mercato e alle sue crisi. Le teorie della crisi di Kautsky e di Rosa Luxemburg rimanevano del tutto fissate sul «meccanismo del mercato» o sulla «realizzazione del plusvalore». Le teorie del sottoconsumo e della sproporzionalità (Hilferding), nel loro contesto della spiegazione della crisi, ne differiscono in maniera secondaria. L'economia di guerra «pianificata» tedesca della prima guerra mondiale aveva immensamente rafforzato quello che era il malinteso marxista  della produzione di merci, o della socializzazione «organizzata» del valore. Infatti, superare la legge del valore, o il «cieco mercato», sembrava fosse solo una questione di organizzazione. Ai fini di una simile comprensione, tecnicamente ridotta, nella quale la relazione sociale del valore veniva intesa come se si trattasse di una mera «assenza di pianificazione», la formazione di grandi trust, di grandi imprese e corporazioni, la loro integrazione e compenetrazione e, infine, l'intervento statale, nel senso della regolamentazione sociale totale, non doveva significare altro che un «superamento della produzione di merci» (si veda: Hilferding, 1974). Un'interpretazione più radicale di questo meccanismo di regolazione puramente organizzativo, vedeva in esso perfino una possibilità di mettere in atto una transizione verso un'«economia naturale proletaria» deprivata del denaro, senza toccare realmente il problema della categoria del valore (come fa Neurath nel 1919, e ad Est  Bukharin/Preobrashensky nel 1921). Anche Lenin ha visto nell'economia di guerra tedesca un modello organizzativo che avrebbe potuto essere trasformato in «socialismo» per mezzo di una mera conversione politica (la presa del potere da parte del partito proletario) [*4]. Diventa così comprensibile come la descrizione ridotta della legge del valore - visto come un «mercato cieco», il cui male potrebbe essere superato ed eliminato per mezzo della semplice organizzazione sul  terreno del valore - doveva sfociare nelle diverse varianti del socialismo di Stato. Proprio così come la critica limitata del plusvalore aveva prodotto il socialismo cooperativo, la stessa cosa avvenne con la critica limitata dei «mercati ciechi», per quel che riguardava il socialismo di Stato. Entrambe le ideologie si condizionarono e si interpretarono a vicenda, e, in quelli che erano dei contesti formali modificati, entrarono in contraddizione l'una con l'altra. La condizione storica fra di esse simile consiste nell'incapacità di trascendere la categoria del valore in sé. Senza rendersene conto, l'affermazione che parlava dell'«operaio creatore di valore» era comune alle parti in lotta. L'antagonismo dei riformisti e dei rivoluzionari politici, dentro il movimento socialista che si era sviluppato su questo terreno, ha contrassegnato tutta un'epoca.

- Robert Kurz - 1987 -

NOTE:

[*1] - La successione dei punti di vista rilevanti è lunga. Comincia con Bernstein, che volle accettare quella che era la teoria del valore marxista che si poneva meramente «a lato» della Scuola dell'Utilità Marginale, vista come di «uguale importanza», e di certo non termina con Baran/Sweezy, i quali, nel loro «Capitale Monopolistico», per tener conto delle «realtà trasformate» del «capitalismo organizzato», credettero di aver «rinunciato» alla teoria del valore di Marx . Esplicitamente, o quanto meno implicitamente, quella che per il marxismo del dopoguerra  era l'irrilevanza di fatto della teoria fondamentale del valore divenne sempre più una variante del keynesismo di sinistra (Dobb, Robinson, ecc.) (Si veda Deutschmann, 1973).

[*2] - È stato deliberatamente scelto il termine «politicista» in quanto antitesi che viene usata contro l'accusa inflazionata di «economicismo», il quale ha perso ormai da molto tempo la sua relativa giustificazione ed è diventato l'arma di un marxismo accademico «sociologicamente» livellato, il quale, all'interno dei suoi concetti riformisti, evita qualsiasi approccio fondamentale della critica del valore (a tal riguardo, è tipica la posizione di J. Hirsch, si veda:  Hirsch/Roth 1986). Nel contesto di questo lavoro, tale problema non può essere ulteriormente discusso.

[*3] - Il neo-marxismo della nuova sinistra della Germania occidentale non fa eccezione. Nella Repubblica Federale, in particolare, le esperienze di una ricostruzione sistematica della critica dell'economia politica di Marx a partire dalla fondazione della teoria del valore si possono contare sulle dita di una mano (Reichelt, Backhaus, ad esempio). Il fallimento di simili esperienze, viene attribuito al clima «politico» precedentemente menzionato che riguarda il processo di costruzione della teoria limitata della Nuova Sinistra, sia dentro che fuori dall'università.

[*4] - Lenin si è richiamato all'economia di guerra tedesca del «capitalismo di Stato», e non ha considerato in alcun modo che sul suolo russo tale forma economica fosse impropria per un grande processo sociale in direzione dell'industrializzazione e della «modernizzazione». Si riteneva che il «contenuto socialista» fosse puramente esteriore, e quasi garantito dal segno politico astratto, ed una base (o meglio, un punto di partenza) per la successiva formazione dell'ideologia in Unione Sovietica: «Il capitalismo di Stato è incomparabilmente più elevato di quanto sia il nostro attuale modo economico. E in secondo luogo, non c'è nulla di terribile nel potere sovietico in sé, poiché lo Stato sovietico è uno Stato in cui viene garantito il potere degli operai e dei contadini poveri» (Lenin 1978, p.331). Qui, il riferimento alla base sociale dello «Stato sovietico» ha il carattere di una cospirazione anticipata contro i poteri di una nuova struttura di riproduzione in via di sviluppo con contenuti capitalisti, che non può essere usata a piacimento come se fosse uno «strumento» per un «potere politico» di opposizione. In fin dei conti, Lenin fa una chiara distinzione tra «Stato sovietico», da una parte, e «capitalismo di Stato», dall'altra (anche in Russia); vale a dire, senza ulteriori indugi, non pone il «piano» nella categoria del valore del «socialismo».

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