giovedì 11 aprile 2019

«Allora andiamo?». «Andiamo!»

Lo sviluppo delle intelligenze artificiali riattualizza quella che è una profezia persistente: con la sostituzione dell'essere umano da parte delle macchine, il lavoro verrebbe chiamato a scomparire. Se per alcuni si tratta di un allarme, altri vedono nella «distruzione digitale» una promessa di emancipazione basata sulla partecipazione, sull'apertura e sulla condivisione.
Tuttavia, dietro la quinte di questo teatro di burattini (senza fili), si può vedere un altro spettacolo. Quello degli utenti che alimentano gratuitamente le reti sociali con i propri dati personali e con i dei contenuti creativi che vengono monetizzati da giganti del Web. Quello dei fornitori di start-up per l'economia collaborativa, la cui connessione quotidiana non consiste tanto nel guidare dei veicoli o nell'assistere delle persone, quanto piuttosto nel produrre dei flussi di informazione sul proprio smartphone. Quello dei micro-lavoratori con gli occhi incollati ai loro schermi che, da casa o nelle «fabbriche di clic», spingono la viralità dei marchi, filtrano le immagini pornografiche e violente, oppure inseriscono stringhe di frammenti di testo che servono a far funzionare dei programmi di traduzione automatica.
Ridimensionando quella che è l'illusione dell'automazione intelligente, Antonio Casilli fa apparire la realtà del lavoro digitale: lo sfruttamento delle piccole braccia dell'intelligenza «artificiale», una miriade di umili sgobboni del clic sottomessi ala gestione algoritmica delle piattaforme nel processo che vanno a riconfigurare e a precarizzare il lavoro umano.

(dal risvolto di copertina di : "En attendant les robots. Enquête sur le travail du clic", di Antonio A. Casilli. Seuil. )

Aspettando i robot
- di Claudio Canal -

Questa recensione non è una recensione. È la trascrizione di una conversazione catturata al bar. Un uomo e una donna sulla trentina, lui in tiro, sorridente, voce tornita, sicuro di sé, forse un informatico o del settore, lei meno in scena, un po’ sfuggente, più definitoria nel fraseggio, un’insegnante o un’artista. Dai silenzi non sofferti suppongo una tenerezza in essere. Mi piace andare di fantasia. Volto loro le spalle, ma li vedo riflessi nello specchio démodée.

Lui: …sarà facile e difficile nello stesso tempo. Lo faranno le macchine il lavoro. Siamo a buon punto. Lo vedi anche tu, l’intelligenza artificiale fa passi da gigante. Neppure ce lo immaginiamo. Non lo vedrà la prossima generazione, ne godremo noi stessi. Per modo di dire, godremo. Bisognerà trovare un’occupazione per quelli che perderanno il lavoro o un reddito o qualcosa di simile.
Lei: ma tu ci sei dentro. Quali problemi potrai avere?
Lui: io non li avrò. Però mi rendo conto. La situazione potrebbe sfuggirci di mano.
Lei: tante cose ci sfuggono. Ma questa cavalcata delle Valchirie dell’intelligenza artificiale, dell’automazione, io non la vedo tanto.
Lui: come no? E’ dappertutto.
Lei: è dappertutto l’addestramento che bisogna fornire alla macchina, al programma. Lo sai meglio di me, anzi, me l’hai spiegato tu, per distinguere un volto tra tanti è stato necessario che migliaia di esseri viventi come te e me cliccassero su altrettante migliaia di immagini. Idem per gli altri miracoli dell’AI.
Lui: quello è il retroterra.
Lei: chiamalo come vuoi. Loro però hanno passato le giornate a cliccare forsennatamente per guadagnare pochissimi soldi.
Lui: l’intelligenza artificiale non piove dal cielo.
Lei: appunto. Non sbuca dal nulla. Tu e gli altri raccogliete il cibo e imboccate la macchina. Ma il nutrimento l’hanno prodotto altri.
Lui: sempre lavoro è.
Lei: non ne dubito. Però io non lo farei e sicuramente neanche tu.

Silenzio d’ordinanza. Si guardano. Si capiscono. E io me ne devo purtroppo andare. Pago il mio pessimo bicchiere di rosso e li intravedo allo specchio rianimare il confronto.

Per chi volesse sapere fatti e antefatti di questa discussione si procuri di Antonio A. Casilli, "En attendant les robots. Enquête sur le travail du clic", Seuil, Paris, 2019. Non è un romanzo. È meglio. Non c’è la coppia del bar, ma c’è tutta la umanità viva che permette agli illusionisti dell’intelligenza artificiale di decantarne le virtù. Umanità rigorosamente anonima, affaticata, annullabile, ma ingranaggio essenziale dell’apoteosi dell’algoritmo. A fine lettura cresce l’inquietudine. Non per i robot factotum, ma per l’ultima versione dei lavoratori e del lavoro in frantumi.

- Claudio Canal - Pubblicato il 24/2/2019 su Alfabeta2 -


Intervista a Antonio Casilli, autore di «En attendant les robots», inchiesta sui "lavoratori del clic" nel capitalismo delle piattaforme digitali. «Sono reclutati in Asia, in Africa e in America Latina, operano per le piattaforme del Nord globale. Non crediamo alla propaganda, l’intelligenza artificiale ha sempre più bisogno di forza lavoro». In Cina c’è «Zhubajie» che aggrega fino a 15 milioni di micro-lavoratori digitali. «TaskCn» ne aggrega 10 milioni Queste persone non sono diplomate e non hanno qualifiche professionali. Lavorano negli internet caffè o da casa».

Antonio Casilli: «Gli operai del clic sono il cuore dell’automazione» .
- di Roberto Ciccarelli -

Antonio Casilli, docente all’università Telecom ParisTech, lei ha appena pubblicato in Francia "En attendant les robots" (Seuil), un’inchiesta sul lavoro digitale. "The Cleaners", un documentario di Hans Block e Moritz Riesewieck diffuso sulla rete Tv Arte, ha rivelato l’esistenza di migliaia di lavoratori del clic nelle Filippine che lavorano per le piattaforme digitali. Chi sono queste persone?
«Sono lavoratori occupati nel settore del commercial content moderation, la moderazione dei contenuti commerciali. Sono gli operai del clic che rileggono e filtrano commenti sulle piattaforme digitali. Il loro lavoro è classificare l’informazione e aiutare gli algoritmi ad apprendere. Insieme svolgono il machine learning, ovvero l’apprendimento automatico, a partire da masse di dati e di informazioni. La moderazione è uno degli aspetti di un’operazione fondamentale che crea il valore. Il lavoro digitale è l’ingrediente segreto dell’automazione attuale

Abbiamo conosciuto una parte di questa divisione del lavoro mondiale: l’attività estrattiva di Coltan in Congo, l’assemblaggio di componenti elettrici ed elettronici nelle fabbriche Foxxconn. Oggi si parla delle fabbriche del clic. Che cosa sono?
«Esistono diversi modelli di click farms, fabbriche del clic. In certi casi sono divisioni di grandi gruppi industriali digitali americani come Google, Facebook o Amazon, a quelli cinesi o russi. Trattano i dati e spesso le loro attività sono coperte dal segreto industriale. Un altro tipo di fabbrica del clic la troviamo nelle reti globali degli appalti e dei subappalti dove la produzione di dati è esternalizzata verso altre aziende che sono, a loro volta, piattaforme digitali.»

Come operano questi lavoratori?
«Si connettono alle piattaforme da casa loro, entrano così a fare parte di fabbriche distribuite in rete. Nella maggioranza dei casi sono persone che si trovano in paesi in via di sviluppo ed emergenti. Altre volte operano in piccole strutture localizzate in Cina o in India. Possiamo anche trovare ex fabbriche trasformate in hangar dove centinaia o migliaia di persone, sottoposte a un turn-over molto rapido, operano su computer o smartphone e cliccano per migliorare algoritmi o creare falsa viralità.»

In cosa consiste il micro-lavoro digitale?
«Per esempio nella digitalizzazione e nel trattamento automatico di 900 milioni di documenti cartacei. Invece di aprire una sede in un paese terzo dove un’azienda può trovare manodopera a buon mercato e condizioni fiscali vantaggiose, si rivolge ad una piattaforma in un paese terzo si occupa di scannerizzare, anomizzare, labellizzare questi documenti in cambio di un abbonamento o un pagamento puntuale. I lavoratori non sono più localizzati in luoghi specifici, non appartengono solo a una città o regione, ma possono essere reclutati dappertutto, purché abbiano la possibilità di connettersi a una piattaforma. Questa economia si sviluppa attraverso un sistema di offshoring on demand in tempo reale l’azienda può decidere di esternalizzare in Cina o nelle Filippine solo un aspetto della produzione, non l’intero processo. La delocalizzazione classica era riservata ad aziende che potevano aprire sedi in paesi terzi, oppure avere partner in questi paesi dove stabilire rapporti commerciali stabili.»

Questa divisione del lavoro è stata descritta come un «neo-colonialismo digitale». È d’accordo con questa definizione?
«È un’espressione metaforica usata per indicare un’asimmetria di potere, ma indica fenomeni troppo diversi. Può essere utile per descrivere le situazioni in cui lo sviluppo del capitalismo tecnologico ripete forme di sfruttamento coloniale classico. Nel 2016 Facebook ha cercato di imporre «Freebasics», un servizio che permette gli utenti di accedere a una piccola selezione di siti web e servizi, in paesi come l’India o la Colombia. È stato rifiutato dalle autorità e gli stessi investitori hanno ammesso che era un’operazione neo-coloniale. Preferisco parlare invece di un micro-lavoro diffuso che nutre l’intelligenza artificiale dove il Sud non è passivo, ma è molto attivo e compete con cinesi o indiani sugli stessi mercati. Questo avviene perché in questi paesi sono fiorite aziende come i tele-servizi, call center, centri di assistenza a distanza di cui le grandi piattaforme di lavoro digitale rappresentano l’evoluzione. Questi paesi sono anche produttori di tecnologie, acquistano micro-lavoro.»

Come definisce questi rapporti di potere?
«Migrazioni su piattaforme, arbitraggi della forza lavoro a livello internazionale che non si basano più su aperture di filiali e delocalizzazioni in paesi a basso reddito, né sui flussi migratori dal sud al nord. Sono processi migratori che restano in loco. Negli ultimi trent’anni le frontiere dei paesi del Nord sono state militarizzate, i nostri paesi si sono trasformati in campi di concentramento in cui xenofobi perseguitano migranti e dove i legislatori mettono in atto misure draconiane contro di loro. In questo contesto di migrazione negata, le piattaforme di micro-lavoro a distanza permettono di avere accesso a questa forza lavoro di cui le aziende avranno sempre più bisogno.»

Quali sono gli assi principali del mercato digitale mondiale?
«C’è quello dal Sud-Est asiatico ai paesi occidentali: Australia, Stati uniti, Canada o Gran Bretagna. Da qualche anno sono emerse altre due dinamiche. La prima è quella dal Sud al Nord: i paesi africani e quelli dell’America del Sud hanno iniziato a lavorare per le aziende del Nord globale.»

Per esempio?
«In Francia il lavoro digitale necessario per sviluppare l’intelligenza artificiale è prodotto in Costa d’Avorio, in Madagascar, Senegal o Camerun, lì dove esistono micro-lavoratori francofoni che possono interagire con clienti francesi. Dall’altra parte si registra un’esplosione di micro-lavoratori sudamericani su piattaforme americane come Amazon Mechanical Turk, Upwork o Microworkers per le quali lavorano paesi che si trovano in crisi economica e politica come il Venezuela.»

Che ruolo ha la Cina in questo mercato?
«È un circuito chiuso dove grandi acquirenti e grandi masse di micro-lavoratori si trovano nella stessa macro-area geopolitica ed economica. Questo è dovuto al fatto che in Cina esiste il Witkey, un sistema di trattamento puntuale dell’informazione online attraverso il quale gli utenti possono scambiarsi e vendere servizi e informazioni. In questo sistema ci sono élite che guadagnano bene, diverse migliaia di euro al mese, e la quasi totalità degli altri che invece guadagnano meno di un euro al mese. Le élite aggregano i micro-lavoratori degli altri, sono i caporali digitali.»

Quali sono le piattaforme di micro-lavoro cinesi e asiatiche più importanti?
«In Cina c’è Zhubajie che aggrega fino a 15 milioni di micro-lavoratori digitali. TaskCn ne aggrega 10 milioni. Epweike, 11 milioni di persone. Esistono altri servizi più piccoli che lavorano con clienti interni. Più raramente con quelli dell’area sinofona come Singapore o Taiwan. In altri paesi asiatici, come la Corea del Sud – paese avanzato e alto reddito – esistono grandi gruppi industriali come Kakao, una specie di galassia di servizi dal pagamento su internet ai taxi alla Uber, fino ai videogiochi. Oppure Naver, un conglomerato basato su un motore di ricerca. Sono aziende che non si rivolgono ai lavoratori del clic dei paesi limitrofi, probabilmente per motivi linguistici, culturali e commerciali.»

Esiste una competizione tra Cina e Usa per il primato mondiale anche in questo settore?
«Va inquadrata nella competizione sull’intelligenza artificiale e sulle sue soluzioni. La Cina gioca su due piani. Da una parte, ci sono i grandi gruppi industriali parastatali come Baidu, Alibaba e Tencent, le cosiddette «Bat» – che competono con i «Gafa» americani, Google, Amazon, Facebook, Apple e gli altri. Dall’altra parte, la Cina è il paese del micro-lavoro che compete con altri paesi emergenti e in via di sviluppo. L’India con i due grandi cluster industriali digitali a Bangalore e a Hydebarad che producono tecnologie e reclutano i cottimisti del clic. La Cina deve essere competitiva su entrambi i fronti: produrre intelligenza artificiale abbastanza di punta per interessare il pubblico globale del Nord e essere competitiva con la manodopera dequalificata e sottopagata che rende possibile l’automazione, in India, in Nigeria o in Madagascar.»

Quanti sono i lavoratori del clic in Francia, negli Usa o in Italia?
«In una ricerca pubblicata da poco abbiamo stimato in Francia una platea di 266 mila lavoratori occasionali, al cui interno esistono decine di migliaia di persone molto attive. Negli Usa le stime sono più complesse: alcuni studi recenti parlano di 100 mila persone su Amazon Mechanical Turk, oltre a quelle che lavorano per Upwork o PeoplePerHour o Raterhub di Google. Anche l’Italia è un paese di micro-lavoratori, ma non è un paese di aziende che comprano micro-lavoro e sviluppano intelligenza artificiale. Questo la dice lunga sul tessuto produttivo e sul suo settore industriale digitale.»

Cosa rappresenta il pagamento anche di pochi centesimi per clic per questi lavoratori?
«La promessa di accedere a un minimo di attività remunerata. Nei paesi africani e asiatici il micro-lavoro necessario per calibrare l’intelligenza artificiale è presentato da campagne di marketing invasive come la promessa del lavoro del futuro per le giovani generazioni che arrivano da zone periferiche, ma vivono anche in quelle urbane svantaggiate e non hanno la possibilità di accedere a un lavoro formalmente riconosciuto. Sono persone non diplomate che non hanno qualifiche professionali. Lavorano negli internet caffè o da casa. Ci sono le donne alle quali è richiesto un lavoro flessibile che può armonizzarsi con quello di cura per gli anziani e per i figli che continuano a pesare sulle loro spalle.»

In che modo questo proletariato digitale può autodeterminarsi e prendere coscienza della sua centralità?
«Una condizione storica è il superamento del quadro concettuale dell’automazione digitale totale. Quella che attualmente gli operai del clic vivono è una condizione precaria perché il loro lavoro è presentato come effimero ed è destinato a scomparire. Gli si fa credere che stanno segando il ramo sul quale sono seduti. Il mio sforzo è dimostrare che questo non è vero. Stiamo creando una tecnologia che ha bisogno di lavoro umano e ne avrà bisogno sempre di più. Questo lavoro non sarà mai sostituito da un’automazione. Ed è per questo che le lotte per il riconoscimento di questo lavoro sono legittime e necessarie.»

Quali strade possono seguire?
«Quella tradizionale del sindacato, delle leghe e del coordinamento di base. La strada del cooperativismo tra le piattaforme, un movimento esistente che cerca di digitalizzare le strutture mutualistiche del XIX e del XX secolo e creare alternative solide alle piattaforme capitalistiche attuali. C’è poi la strada dei commons digitali che creano condizioni economiche materiali per raggiungere il potenziale veramente anarchico delle piattaforme politiche teorizzate dai Diggers nell’Inghilterra del Seicento. Dobbiamo riscoprire il vero significato del concetto di «piattaforma»: il superamento della proprietà privata, l’abolizione del lavoro salariato e la creazione del governo dei beni comuni.»

Roberto Ciccarelli - Pubblicato sul Manifesto del 27/2/2109 -

Le macchine non rubano il lavoro. Lo spostano
- «L’automazione dirotta molte funzioni sui consumatori. E nessuno cerca davvero l’intelligenza artificiale» -
di Stefano Montefiori

Se i robot arriveranno a rubarci il lavoro , che cosa faremo noi umani? E quando l’intelligenza artificiale avrà reso obsoleta quella umana, avremo ancora un ruolo nella catena produttiva? Preoccupazioni non così giustificate e neanche così nuove, sostiene il sociologo italiano Antonio A. Casilli, docente alla Télécom ParisTech di Parigi, in En attendant les robots (Seuil), approfondita inchiesta di 400 pagine sul «lavoro del clic». «Aspettando i robot» sta avendo un notevole successo in Francia perché tratta da una prospettiva originale il tema alla moda dell’intelligenza artificiale. Lasciare credere che robot sempre più sofisticati si stiano sostituendo all’uomo è, secondo Casilli, una specie di truffa intellettuale. Le macchine non sono davvero intelligenti e il lavoro non sta scomparendo: si trasferisce, semmai, parcellizzato in micro-lavori pagati poco o nulla. Dopo gli studi ottocenteschi di Thomas Mortimer, David Ricardo o Andrew Ure (traspare la formazione economica di Casilli laureato alla Bocconi) che già affrontavano gli effetti dell’automazione sul lavoro, il XX secolo ha conosciuto la disputa tra la visione di Alan Turing e quella di Ludwig Wittgenstein. Il primo giudicava che «gli uomini fossero delle macchine come le altre» e quindi credeva nella possibilità di produrre macchine intelligenti. Il secondo pensava l’opposto, e considerava che le macchine fossero in realtà solo «uomini che calcolano». Casilli parteggia per Wittgenstein.

Questo libro nasce come risposta alla retorica della fine del lavoro?
«Il saggio ha un po’ una doppia natura. Da un lato c’è la mia ricerca iniziata ormai più di 5 anni fa sulla nozione di digital labor, ovvero su come le piattaforme digitali sfruttino il lavoro più o meno consapevole degli utenti. Poi ci sono le ricerche più recenti sul machine learning. Cioè l ’immettere dati fino a quando non emerge una qualche regolarità. Su questo si basa per esempio il libro di Luc Julia L’intelligence artificielle n’existe pas, che si è diplomato anni fa da noi alla Télécom ParisTech. Un libro appena uscito del mio collega Jean-Louis Dessalles, Des intelligences très artificielles è complementare al mio lavoro: lui punta sul fatto che le intelligenze non sono poi così intelligenti, io dico che non sono poi così artificiali. C’è una scuola nuova che sta emergendo e mi fa piacere farne parte».

Rientra nel clima generale di riflusso anti internet e nuove tecnologie?
«Non credo sia legato a quello, mi sembrano fenomeni abbastanza scollegati. Se penso per esempio alla denuncia dello strapotere dei giganti di internet, la trovo slegata dal web di adesso, sono le cose che si dicevano vent’anni fa a proposito di Ibm o Microsoft. Quello che sta succedendo rispetto all’intelligenza artificiale è che ci siamo accorti che la trattiamo come se: a) esistesse già; b) fosse già sul mercato; c) ci fosse già un impatto sociale da considerare. Quello che mi interessa è come fisicamente vengono messi i dati là dentro, come si insegna alle macchine a fare quello che promettono di fare. La realtà è che le macchine attuali sono deboli e poco eccitanti, come soluzione e anche come prestazione».

Forse perché siamo ancora agli inizi?
«Diciamo la verità, non ci stanno nemmeno provando. Ci potrebbe essere un salto se qualcuno stesse davvero cercando di mettere in atto il programma scientifico dell’intelligenza artificiale di Mar- vin Minsky degli anni Sessanta: quello sì puntava davvero a una simulazione completa dei processi cognitivi umani. Oggi stiamo cercando di sviluppare quelle che vengono chiamate euristiche frugali, cioè soluzioni un po’ quick and dirty per fare finta che la macchina faccia qualcosa. Ma non necessariamente questa finzione viene ottenuta da un software, può essere fatta anche a mano».

E qui veniamo all’esempio di apertura del libro, la start-up che spaccia per intelligenza artificiale il frutto dei clic incessanti di un lavoratore sottopagato in Madagascar.
«Quello è un esempio che da una parte sono contento di avere citato, dall’altro è un po’ fuorviante perché poi ci vogliono 400 pagine per raddrizzare il tiro, per spiegare cioè che il problema non riguarda quattro truffatori ma è una questione strutturale. Esiste un sistema economico, politico, culturale, che crea credulità rispetto all’intelligenza artificiale. La realtà è che l’intelligenza artificiale è fatta da miliardi di persone che a volte sono micro-pagate e a volte non sono pagate per nulla. L’intelligenza artificiale si nutre anche del digital labor inconsapevole di tutti noi, che creiamo dati e quindi valore ogni volta che usiamo il nostro smartphone».

Lei fa l’esempio delle casse automatiche al supermercato. Il lavoro di passare gli articoli e di pagare non è scomparso, si è solo trasferito sui clienti.
«Il digital labor attuale, il lavoro degli utenti che devono creare valore per usare una piattaforma, è legato a queste forme già conosciute da decenni di lavoro del consumatore. Tutto quello che ha a che fare con i bancomat, le casse automatiche, i distributori automatici di biglietti in stazione, sono esempi classici di automazione che sostituisce il lavoro della persona di contatto, di interfaccia, per esempio tra il supermercato e il cliente. Questo lavoro non è sparito, è delegato ai consumatori che diventano i cassieri di sé stessi, i bigliettai di sé stessi. E resta la cassiera, che fa un lavoro di psicologa, si occupa di gestire la frustrazione del cliente che non riesce a pagare da solo».

Come definisce l’automazione?
«È una maniera di redistribuire i carichi di lavoro tra gli uomini. C’è un po’ di macchina, d’accordo, ma è quasi un pretesto. Quel che prima veniva fatto da un salariato viene delegato a 20 mila microlavoratori oppure, tramite bancomat o altri tipi di soluzioni tecnologiche, si distribuisce a consumatori-lavoratori».

Quando il candidato socialista all’ultima elezione presidenziale francese Benoît Hamon quindi parlava della «fine del lavoro» come nuova sfida per la sinistra, sbagliava bersaglio?
«Direi di sì. Il lavoro non sta finendo, sta diventando invisibile e i politici rischiano di non accorgersene. Il pervasive computing, l’internet delle cose, l’idea delle smart cities, dipendono dal lavoro invisibile anche mio, che cammino con uno smartphone in tasca e produco dati, o starò al volante della mia automobile autonoma che poi tanto autonoma non è. Una soluzione potrebbe essere che gli enti locali negozino con le piattaforme un accordo per decidere cosa si fa con questi dati, e quanto vengono pagati. Esistono sperimentazioni interessanti in Corea del Sud, in Bolivia o a Barcellona».

- Stefano Montefiori - pubblicato sul Corriere de 17 febbraio 2019 -

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