sabato 20 aprile 2019

Scegliere fra la Peste ed il Colera

La Democrazia Totalitaria
- Un frammento dal «Libro Nero del Capitalismo» - 1999 -
di Robert Kurz

È ovvio che per la coscienza dominante, forgiatasi nello sviluppo fordista a partire dal 1945, il carattere totalitario della sacrosanta democrazia stessa rimane per lo più invisibile. Questo fissarsi sulla sfera politica della società capitalista, così come hanno fatto Hannah Arendt ed altri teorici del totalitarismo, ci permette però di fare una comparazione fra le forme democratiche e quelle totalitarie all'interno della sfera politica, dove queste differenze non vengono rappresentate come fasi transitorie di uno stesso processo storico, bensì come «modelli» antagonisti. La libertà di espressione, la libertà di riunione e le libere elezioni appaiono, da questo punto di vista, come se fossero degli esatti opposti fra la dittatura, da una parte, ed una garanzia per la libertà di decisione delle «persone» sul loro destino, dall'altra. Questa illusione non è affatto nuova. Già i socialdemocratici del XIX secolo immaginavano che, attraverso le procedure democratiche, secondo il principio «un uomo, un voto» (il diritto al voto femminile  è stato introdotto solamente nel XX secolo) si sarebbe potuto, per così dire, «eliminare» il capitalismo (che veniva capito in forma ridotta). E dal momento che anche gli avversari conservatori borghesi erano fermamente convinti di questo, la lotta per il diritto al voto e per la democrazia dominava il dibatto sociale nella sfera politica, mascherando il vero carattere della macchina sociale capitalista. Tuttavia, quando la guerra mondiale portò all'irruzione della democrazia proprio attraverso grandi massacri umani, divenne assai chiaro che la politica democratica era solo una funzione del capitalismo, sviluppatosi come totalitario e che non poteva essere altro che questo. La doppiezza del liberalismo, i cui precursori non facevano riferimento alla democrazia, ora poteva svilupparsi ancora meglio nella forma di una democrazia di massa: la decisione politica vista come inevitabile sottomissione agli imperativi economici, il libero dibattito visto come ineludibile restrizione del pensiero a quelli che sono «possibilità e rischi»  capitalisti - il «pensiero doppio» non avrebbe potuto completare l'imposizione capitalista in maniera più intelligente di come abbia avuto luogo nelle democrazie occidentali.
A modo loro, sapevano questo anche i pionieri del totalitarismo di Stato dell'epoca della guerra mondiale. In ogni caso, essi sono stati democratici nella misura in cui, a differenza dei regimi liberal-conservatori del XVIII e XIX secolo, la «maggioranza della popolazione operaia» venne deliberatamente incorporata nella mobilitazione politica, dal momento che riconoscevano che la nuova tappa dello sviluppo capitalista, sorta per la prima volta nella guerra totale, non era più possibile senza che ci fosse una paradossale partecipazione «responsabile» delle masse atomizzate - che si realizzava nella loro «combustione» in quanto materiale che veniva bruciato per «obiettivi più elevati». È in tal senso che Ludendorff ha interpretato il concetto di «popolo», che assumeva ora una connotazione di democrazia di massa, usata ed abusata tanto dal nazismo quanto dal capitalismo di Stato dell'Unione Sovietica e, successivamente, dalle «democrazie popolari» dell'Est, ma anche ancora oggi dalle libere democrazie occidentali. Ludendorff afferma chiaramente che la «democratizzazione delle masse e dello Stato» è del tutto in linea con la richiesta totalitaria: «Ho continuato a portare sull'aquila del mio elmo le parole: Con Dio per il Re e per la Patria". Queste parole non comprendono la parola popolo, quindi non erano esaustive. Oggi, nella guerra totale, la parola popolo, e, insieme ad essa, il popolo stesso si trova sulla linea del fronte [...] Nella guerra totale, a combattere non è solo lo Stato, ma il "popolo" [...] Nel popolo, si trova il centro di gravità della guerra totale. La sua direzione deve poter contare sul popolo. La politica totale (!) deve mettere il potere del popolo a sua disposizione e tutelare il popolo» (Ludendorff ).
Ancora una volta, al di là dell'immediato contesto militare del ragionamento sulla guerra totale, qui brilla la comprensione benthamiana del fatto che non esiste alcuna altra forma di governo come la democrazia che sia in grado di guidare il materiale umano in quello che è il processo di valorizzazione in maniera così tanto passiva e a buon mercato. Per questo, c'è una semplice ragione e si basa sulla contraddizione dei due poli della socializzazione capitalista, fra economia e politica, fra mercato e Stato, e della quale la democrazia è l'espressione più pura. Da un lato, si esalta la pretesa astratta per cui la società sarebbe autocosciente circa quelli che sono i suoi problemi comuni, e che, a partire da questo, prende le sue decisioni razionali ("democrazia"). Dall'altro lato, però, questa società, allo stesso tempo e in maniera confessa, consiste in un'auto-regolazione meccanica di quello che è un contesto sistemico autonomizzato, le cui leggi funzionali trasformano queste sedimentazioni in fatti pseudo-naturali ("economia di mercato", vale a dire, capitalismo). In ultima analisi, in realtà, la vita sociale non è regolata da decisioni congiunte e consapevoli dei membri della società democratica. Le procedure democratiche di liberà di espressione, il processo decisionale politico e le libere elezioni non sono a monte, ma si trovano a valle di quelli che sono gli effetti della «fisica sociale» dei mercati anonimi. Tutte le decisioni prese dalle istituzioni democratiche non rappresentano alcun controllo autonomo sul pieno utilizzo pieno di senso delle risorse naturali, ma sono sempre già pre-formate attraverso quello che è l'automatismo del sistema economico, il quale, in quanto tale, non è negoziabile democraticamente, poiché si trova associato ad una «natura» ineluttabile. Questo giustifica a priori la mobilitazione più folle e più assurdamente violenta delle risorse materiali ed umane.
Dietro i «tre poteri» della sfera politico-statale, vale a dire, il legislativo, l'esecutivo ed il giudiziario, così come lo si trova in tutti i libri di studi sociali, seguendo Charles de Secondat Montesquieu (1689-1755), si trova sempre già un «quarto potere» muto - il potere strutturale del sistema totalitario del mercato; vale a dire, la sfera della regolamentazione e della realizzazione della valorizzazione del capitale, la quale viene eseguita negli spazi funzionali dell'economia imprenditoriale del «lavoro astratto», e che diventa sociale sono indirettamente attraverso la compravendita universale. Questo idolo economico, che si fa gioco di tutte le procedure democratiche, opera nella teoria politica, a partire da Rousseau, sotto il nome di un astratto «bene comune». Dal momento che la società viene considerata paradossalmente soltanto politica, e il modo di produzione dominante si inquadra in una «natura» per così dire extra-sociale, i postulati democratici si estendono logicamente al «quarto potere» della valorizzazione del capitale e dei suoi meccanismi di mercato.
Quest'assurda relazione sociale totale ha costituito non solo una struttura oggettivata ed una cieca legalità di fatto, ma anche una corrispondente forma di soggettività dei membri della società, nella quale si riproduce la relazione di dipendenza oggettive e oggettivata dello Stato nei confronti del mercato, e della politica nei confronti dell'economia. Prima che i membri della società agiscano in quanto soggetti politico-democratico, persino ancora primo che comincino a pensare, vengono già presupposti come se fossero «forza lavoro» e soggetti della concorrenza sui mercati anonimi; al di fuori di questa determinazione assiomatica, anche il loro status politico e giuridico non avrebbe alcuna rilevanza. Una meravigliosa trappola benthamiana, da cui non c'è scampo, visto che gli assiomi non possono essere infranti, poiché per definizione non possono essere oggetto del discorso democratico. In ultima analisi, la perfida natura delle procedure democratiche è assai difficile da percepire, poiché ormai da lungo tempo le persone hanno internalizzato il loro status in quanto «forza lavoro» di un contesto sistemico autonomizzato e autotelico, e non sono più capaci di immaginare un'altra forma più ragionevole di socialità. Un tale status assiomatico viene ulteriormente rafforzato dal fatto che il processo sistemico oggettivato non appare in alcun modo come un discorso unidimensionale e lineare, che può essere solo osservato ed eseguito. Al contrario, è il sistema a stabilire in maniera permanente delle alternative, delle differenti possibilità e forme di sviluppo che possano essere trattate politicamente e democraticamente nelle loro stesse categorie. Ma questi percorsi alternativi, devono correre sempre dentro il quadro capitalista, ermeticamente chiuso. Fin dall'inizio, ad essere negoziate democraticamente saranno solo le pseudo-alternative programmate  nel modo in cui vengono prodotte dai ciechi «processi naturali» della fisica sociale. In linea di principio, le decisioni democratiche avvengono secondo quello che è il modello di una procedura a «scelta multipla»: «si traccia una X» solo una possibilità data a priori, all'interno di un catalogo strettamente limitato. Si tratta comunque e sempre di una scelta fra la peste ed il colera. Un'alternativa che vada al di là dello spettro delle possibilità già stabilite, vale a dire, un rifiuto di quella che è tutta la costellazione, che riesca a mettere in discussione la procedura stessa, ciò viene escluso a livello strutturale.
Se la socialdemocrazia del XIX secolo ha fornito il prototipo di una tale auto-regolamentazione politico-democratica, la mobilitazione di massa dello Stato totalitario, la «politica totale» di Ludendorff, ha messo pienamente in moto l'integrazione democratica delle masse. Il rovesciamento del totalitarismo capitalista della «politica totale» in «mercato totale», nelle democrazie del dopoguerra, ha stabilizzato anche in senso politico la fase di sviluppo della Seconda Rivoluzione Industriale: le masse non dovevano più essere mobilitate politicamente al fine di testare, per mezzo di sfilate e di comizi organizzati, i processi democratici, ma ora potevano rimanere fissate in maniera passiva, come bestiame elettorale, nel ruolo di spettatori del teatro politico. Per il cittadino comune, la procedura democratica si riduceva ad un procedimento secondario a scelta multipla, ossia, «tracciare una X» sui nomi dei partiti politici, a grandi intervalli di tempo. Nella storia del dopoguerra, i partiti diventavano sempre più simili fra di loro, fino al punto che non si riusciva più a distinguere i loro programmi e le loro pratiche; uno stato di cose che da tempo era ormai stato raggiunto nel sistema bi-partitario degli egemonici Stati Uniti.
Il carattere totalitario della democrazia fordista non si era rivelato, solo in maniera indiretta, nella succitata dittatura totalitaria degli imperativi economici, che lasciava ai membri della società solo la «scelta» fra i differenti mali e fra i diversi (non sempre poi così diversi) esecutori politici della cieca legalità sistemica. Anche quello che era l'esecutivo in senso lato - la gestione burocratica degli esseri umani dalla culla alla tomba, che aveva accompagnato il processo di modernizzazione in tutte le sue forme statali fin dalla sua nascita nell'assolutismo - aveva conosciuto il suo periodo più fiorente nelle democrazie del mercato mondiale della storia del dopoguerra. Il «mondo amministrato», previsto da sociologhi come Burnham, ora era diventato realtà in tutta la sua estensione. Il capitalismo totale fordista, inclusa la motorizzazione totale, la logistica infrastrutturale e l'assistenza dello stato sociale, richiedeva un'onnicomprensiva amministrazione statale ed imprenditoriale, che andava ben al di là della precedente densità amministrativa.
Il prolungamento e lo sviluppo democratico delle strutture economiche del tempo di guerra, ora sempre più in sintonia con il nuovo dispiegarsi della concorrenza di mercato, avevano prodotto apparati di regolazione e controllo veramente mostruosi, che potevano essere toccati dal processo di formazione della volontà politica solo in maniera molto superficiale e sempre più debole - in maniera conforme allo slogan secondo cui: «i governi vanno e vengono, ma il Moloch dell'amministrazione totalitaria rimane». In realtà, gli apparati degli Stati democratici e delle corporazioni del mercato mondiale oggi superano, e di molto, la densità amministrativa e le possibilità di accesso perfino delle dittature degli Stati totalitari della prima metà del XX secolo. La convinzione secondo cui è vero il contrario, si basa su un'illusione ottica. Quando, nelle società del dopoguerra, le esigenze degli Stati totalitari appaiono più rigorose di quelle degli Stati democratici, questo è dovuto unicamente al fatto che i tentativi burocratici, e ancora relativamente maldestri, nei confronti dell'economia capitalista, producono dei forti attriti e, di conseguenza, richiamano più attenzione. Con l'inversione delle esigenze dello Stato che si rivolgono al mercato, gli apparati di controllo e di amministrazione sono stati sintonizzati con maggior precisione, e in maniera quasi silenziosa, con i meccanismi di concorrenza del mercato, mentre, allo stesso tempo, continuavano sempre più a crescere e ad ampliarsi  le loro aree di accesso. In questo modo, dagli anni '50 ad oggi, la costruzione totalitaria benthamiana, sviluppatasi nel senso del suo inventore, ha raggiunto la sua forma più raffinata e più completa nel contesto delle democrazie di mercato mondiali. L'interazione fra i meccanismi benthamiani della prigione sociale totale non ha mai funzionato così tanto perfettamente come è avvenuto nelle democrazie sviluppate in maniera completamente giuridica. Perfino la regolamentazione giuridica più semplice relativa alle relazioni quotidiane, nel rendere finalmente invisibili quelli che sono i rapporti di violenza originari, definisce a priori gli esseri umani solamente come «forza lavoro» e come soggetti interni dell'automatismo della valorizzazione sociale. Da un lato, in questo modo, il materiale umano non viene più controllato solo in quelle che erano le sue interazioni e le sue rivendicazioni, ma anche, in termini reali, ad ogni passo, per mezzo di architetture e di sistemi di segnalazione pienamente formati dal capitalismo, dalla razionalità imprenditoriale oggettivata e tecnologicamente mascherata, e per mezzo di una soggettività giuridica impiantata in maniera capitalista, mentre allo stesso tempo l'apparato di gestione umana può funzionare senza interruzioni e silenziosamente. Dall'altro lato, l'auto-osservazione legata all'ansia da prestazioni da parte del soggetto dell'economia e l'auto-regolazione del cittadino democratico, si trovano ora ad essere perfettamente calibrate sull'insieme delle condizioni capitaliste, le quali ora possono canalizzare le procedure formali dei processi di decisione democratica senza che ci sia l'attrito dovuto alla frizione delle pseudo-alternative repressive nello spazio chiuso dell'imposizione socio-economica totalitaria. E quant'è beffarda la predica che viene rivolta finora in maniera noiosa su tutti i canali sociali a quest'uomo democratico, automatizzato sotto tutti gli aspetti: ora finalmente sei politicamente e personalmente libero, libero, libero! Eppure, fin dall'inizio, le procedure democratiche contengono un'insicurezza che continua a percepire la relazione di violenza internalizzata. Sotto la superficie levigata della «freedom and democracy» bruciano ancora i potenziali di angoscia e di odio sociale che crescono, perfino in tempo di prosperità, a partire dalle relazioni di concorrenza e dal deserto mentale del «lavoro astratto».  Dal momento che la democrazia non è altro che una dittatura internalizzata e legalizzata dell'irrazionale fine in sé capitalista, essa può fallire in qualsiasi momento, allorché la «bella macchina» smette di funzionare o viene disturbata lungo il suo cammino.
Ma anche durante i bei tempi di prosperità relativa, qualsiasi impulso di opposizione veniva implacabilmente represso, non appena minacciava di trasgredire, anche sono accidentalmente, la gabbia di ferro democratica. Si potrebbe elencare, per mezzo secolo a partire dal 1945, una serie interminabile di attacchi di polizia avvenuti nel mondo occidentale (per non parlare delle dittature di periferia amiche), ripetutamente diretti contro ogni e qualsiasi critica di sinistra al capitalismo, e che, in realtà, nello stesso periodo, potevano facilmente abbinarsi con le complementari rappresaglie che avvenivano nel sempre più obsoleto totalitarismo dello Stato dell'Est. In tal senso, la democrazia del dopoguerra è andata avanti, ininterrottamente, senza soluzione di continuità dal XVIII secolo, anche se, grazie ad una prosperità temporanea,  abbia avuto meno lavoro. Tuttavia - in maniera parallela alla terza guerra mondiale che c'è nelle strade - nel complesso abbiamo più morti, ferimenti e prigionieri di quanto a prima vista si sarebbe portati a credere. Anche il potenziale della violenza razzista delle masse addomesticate si è manifestato ripetutamente in tutto il mondo occidentale, dai cosiddetti «tumulti razziali» negli Stati Uniti e in Inghilterra fino alle risse nei concerti nella Repubblica Federale Tedesca. La latente brace razzista non si estingue sotto quella che è una superficie apparentemente pacificata, poiché è parte integrante del capitalismo. Questo si applica anche alla sindrome antisemita che non è mai stata superata. Soprattutto in Germania, laddove sarebbe ancora più necessario, non c'è stata una rigorosa, e fino alle radici, resa dei conti con la storia. La Germania democratica ha preso le distanze dall'assassinio degli ebrei in maniera del tutto superficiale e futilmente moralistica. L'ideologia «nazionalista» del sangue è rimasta finora ancorata alla legge di cittadinanza tedesca. E, fin dentro i pori della vita quotidiana, l'antisemitismo è stato trasmesso, in un certo qual modo, come per osmosi. Il germanista Ralf Schnell (nato nel 1943) ha catturato scene tedesche di questo tipo, che potrebbero essere abbondantemente documentate in ogni genere di letteratura:
«Antisemitismo? Immagini attraversano la mente, scene che parlano di un giovane nella Germania degli anni '50 e '60, configurazioni culturali sullo sfondo traumatico di un passato incomprensibile: - Il professore di storia, una gamba amputata, l'occhio destro di vetro, che, negli anni '50, nella decima classe del ginnasio umanista di Oldenburg [...], "insegnava" il nazionalsocialismo e metteva tra parentesi le deportazioni degli ebrei nel Terzo Reich: "Gli ebrei - sono anche una croce" pausa, silenzio, paura, una rapida occhiata sopra i banchi [...] - Le conversazioni familiari durante il pranzo nelle case piccolo-borghesi, che, così tanto spesso, ruotavano intorno alla domanda: come si è potuto arrivare a questo? I soliti gesti legati alla retorica apologetica: cosa si sarebbe potuto fare? E ad ogni modo: le autostrade! Sei milioni! Mai! E poi, all'improvviso, en passant, la storia di quello zio, quello zio mezzo-ebreo che "era stato nei campi di concentramento" - "ma contro questo non c'era da poter fare niente" [...] - Un vecchio conoscente, il quale, irritato dai baffi che il giovane adolescente si era lasciato crescere, mezzo schifato, mezzo ironico e disperato, grida: "Sembri un ebreo"! - La madre che esorta i figli, studenti delle scuole superiori, a non leggere troppe opere dell'"ebreo" Bertolt Brecht. E la quale, anche se non del tutto convinta, almeno viene rassicurata quando il figlio - senza sapere in che guaio si è cacciato - tenta di spiegarle che Brecht non era per niente ebreo. Solo comunista» (Schnell 1998, 7 s.).
Scene simili possono emergere senza alcuno sforzo dalla memoria personale di tutta la Repubblica. Quando da bambino mi mostravo incuriosito dal perché non dovevo mostrare «fretta ebraica». E rimanevo ancora più perplesso quando ne chiedevo il significato. «È questo che si dice». Nel 1966, alla vigilia della rivolta studentesca, quando vivevo ancora a casa con la mia famiglia, ci venne a far visita una giovane coppia di accademici del paese nemico, la Repubblica Federale Tedesca. Non dimenticherò mai il momento in cui la mia paziente nonna, che stava cucinando per noi, mi portò nel corridoio e, con voce terrorizzata, sibilò: «Robert, Robert, sono ebrei - gli ebrei sono la nostra disgrazia!» La mia religiosa nonna non sapeva che stava citando l'onorato storico tedesco Heinrich von Treitschke, il cui nome, nel 1999, onora ancora il suo nome, intitolandogli una via della nostra città.
Può sembrare quasi insignificante che ancora oggi, nella stessa città, la sede del Partito Socialdemocratico si chiami, molto innocentemente “Karl-Bröger-Haus”. Oppure che il festival di Bayreuth sia rimasto, senza alcuna interruzione, un avvenimento onorevole, come se non fosse mai successo niente. Anche nella Repubblica Democratica Tedesca, il nazionalsocialismo è stato trattato in maniera superficiale dall'«antifascismo» dei partiti comunisti, mentre la sindrome «nazionalista»-antisemita è rimasta nell'ombra, proprio come nella Repubblica Federale Tedesca - il passo dell'oca prussiano dell'«Esercito Popolare Nazionale» ha potuto continuare a sfilare in nome delle «tradizioni nazionali». I demoni della storia della modernizzazione non sono mai stati espulsi, dal momento che appartengono, in quanto sanguinosi spiriti domestici, al capitalismo in ogni sua variante e, pertanto, alla democrazia. L'epoca della prosperità è stata il tempo in cui i demoni si trovavano ibernati, il tempo in cui li si poteva sentire respirare.

- Robert Kurz - 1999 -

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