Nell’anno finale della Grande Guerra il comando supremo austro-ungarico diventa consapevole della necessità di disporre di un efficace e bene organizzato apparato di propaganda indirizzato alle proprie truppe. Così, nel marzo 1918 il viennese Quartiere della stampa di guerra incarica Robert Musil, che a Bolzano aveva già diretto la Soldaten-Zeitung, di dirigere il nuovo settimanale “patriottico” Heimat. Il progetto è oltremodo ambizioso: in aggiunta all’edizione tedesca dovranno essere pubblicate altre edizioni nelle principali lingue dell’impero. Non verrà portato a compimento, poiché vedono la luce, sempre dirette da Musil, solo le edizioni in lingua ceca, croata e ungherese. Obiettivi di Heimat sono la pubblicazione di servizi periodici sulla salute economica e militare della Duplice monarchia e la lotta contro le correnti disfattiste che attraversano il corpo dell’Impero, nutrite dal recente mito della rivoluzione d’ottobre. È un giornale che si propone di dare risposte e instillare nei cuori la fiducia nella prossima, sicura vittoria.
(dal risvolto di copertina di: "L’ULTIMO GIORNALE DELL’IMPERATORE", di ROBERT MUSIL. Reverdito Editore.)
Un giornale di trincea in 11 lingue
- Il sogno fallito del soldato Musil -
di Gian Antonio Stella
«Non è necessario saper fare versi, per essere poeta; il poeta vede le cose come fosse la prima volta; ogni soldato che si renda imparzialmente conto di quanto vede, diventa poeta». Scintilla d’intelligenza, curiosità, entusiasmo, l’appello di Robert Musil ai soldati austriaci perché collaborino col giornale del quale in quel 1916 è direttore, la «Tiroler Soldaten-Zeitung» di Bolzano. Bastano una foto, una nota, una lettera… «Il ricordo è un apparecchio scadente — scrive —. Tra un paio di anni non avrete più una chiara visione di ciò che è stato. Le immagini elaborate dagli scrittori delle retrovie vi sembreranno realtà. Mancherà la parte migliore, la parte viva, ai limiti dell’immaginabile, di quello che ora vi attornia ad ogni istante».
Immagini come quelle impresse da lui stesso: «Quella notte il buio si poteva tagliare col coltello; gli occhi di chi procedeva a tastoni fra le case urtavano contro l’oscurità che pareva fatta di legno. Fuori, là dove il terreno si elevava, brillavano piccole stelle giallo-scure che non emanavano luce, ma andava un po’ meglio; dalla vastità dello spazio fluiva un chiarore opaco, incerto, che diluiva la notte. (…) Quando arrivò, il mattino si distese come un panno sottile e inzuppato». Poesia. Eppure le alte sfere dell’esercito asburgico restarono colpite soprattutto dall’insistenza con cui il già famoso autore de I turbamenti del giovane Törless batteva e ribatteva su idee come Austria, Stato, Patria, Fedeltà… Fu così che nel marzo 1918 gli chiesero di dar vita a un giornale, «Heimat», che parlasse a tutti i soldati nelle varie lingue dell’impero: «Come la Monarchia anche l’esercito era plurilingue: undici quelle ufficialmente riconosciute. Gli ufficiali parlavano il tedesco, mentre i sottufficiali parlavano oltre a un tedesco veicolare anche una delle lingue riconosciute e parlate dalla truppa — spiegano gli storici Massimo Libardi e Fernando Orlandi ne L’ultimo giornale dell’Imperatore, che raccoglie gli articoli del grande scrittore —. Ogni unità era caratterizzata da una lingua “ufficiale” scelta tra quelle parlate in base alla percentuale di appartenenza della truppa ad un determinato gruppo linguistico».
Le edizioni di «Heimat» oltre a quella tedesca saranno in realtà meno: quelle in ceco («Domov»), ungherese («Üzenet») e croato («Domovina»). Le altre? Lasciate cadere. Tanto più che in italiano, nell’allora Triveneto dove stava il fronte, uscivano già dalle stamperie austriache dei falsi come «La Gazzetta del Veneto» e «La Domenica della Gazzetta» uguale identica alla «Domenica del Corriere» in ogni dettaglio tipografico, comprese le scadenti imitazioni delle copertine di Achille Beltrame.
Certo è che, nonostante fosse stata varata anche per ribattere colpo su colpo alla propaganda italiana, considerata più efficace, «Heimat» riuscì sì ad arrivare a una tiratura di 31 mila copie ma senza mai avere la freschezza, l’inventiva, l’arte di parlare alle truppe dei giornali di trincea italiani. Da buon ufficiale figlio d’un ufficiale e tirato su in un’accademia per ufficiali, Musil lasciò cadere l’impronta della «Tiroler Soldaten-Zeitung», venata di ironia o malinconia, per andar dritto al punto: appoggio pieno e totale all’Austria e alla guerra. I militari volevano questo. E lui, agli ordini, questo fece.
Ed ecco gli attacchi a quanti vogliono che «sia una conferenza mondiale della pace, e dunque con la cooperazione dei francesi, degli italiani e degli inglesi, a regolare la posizione degli slavi fra i popoli dell’Austria-Ungheria» e «fanno occhi dolci al nemico» senza capire che «ogni voce di questo genere prolunga la guerra di una settimana» e «ogni giorno di detta settimana costa migliaia di morti e di invalidi che sono i nostri fratelli e i nostri figli!». I moniti al silenzio: «Anche se il singolo soldato non conosce le intenzioni e i progetti dei massimi responsabili dell’esercito, tuttavia sente cose che, se registrate da orecchie malevole, possono finire col danneggiarci».
E poi la ringhiosa difesa dell’Austria accusata di opprimere i popoli quando al contrario questi erano liberi di lamentarsi: «I popoli oppressi non gridano, non possono gridare. Sono silenti, hanno la bocca tappata, nessun lamento oltrepassa le mura entro le quali li tiene rinchiusi il loro oppressore. Lo vediamo nel caso dell’Irlanda, neanche una sillaba oltrepassa la Manica». E le certezze assolute nella vittoria: «Senza dubbio l’Austria-Ungheria ha conseguito in questa guerra mondiale grandi successi. Successi inauditi, che noi stessi non siamo in grado di valutare bene e infatti li valuta l’estero. Lo fa con meraviglia e a denti stretti».
È in guerra e fa la guerra, il soldato Musil. Attacca i tirolesi trentini che vanno a Praga a far proclami «nel nome degli italiani d’Austria» tirandosi addosso «le parole più stizzite e i rimproveri» perfino di tanti triestini che sì, «continueranno la lotta per i loro diritti nazionali» ma sanno che «la Trieste austriaca è una città fiorente, una città portuale ambiziosa, la città portuale dell’Austria» quando invece se passasse di là «sarebbe solo uno dei molti porti d’Italia, del tutto decentrato». Mette in guardia contro i comunisti usando le parole di Maksim Gor’kij: «Uno dei principali risultati della grande Rivoluzione è che in Russia tutto quel che si può rubare viene rubato. Si saccheggiano le Chiese e i Musei, si vendono i fucili e i cannoni, si rubano i generi alimentari e i gli sbandati mettono a sacco i palazzi dei granduchi di un tempo. È diventato un paradiso per ladri, saccheggiatori e assassini…».
Durissimo con i nemici interni come «gli usurai e gli speculatori, quelle figure dubbie della nostra vita economica che con un piede sono ancora nella società onesta, con l’altro sono già in galera» e furente con gli speculatori («rimasti a livello delle bestie più selvagge» fino a «creare una casta o corporazione molto unita»), il futuro autore dell’Uomo senza qualità che morirà in esilio in Svizzera ce l’ha soprattutto con chi insulta la sua idea dello Stato: «Di continuo si sentono camerati che parlano dello Stato come se non ne facessero parte, il che naturalmente è una sciocchezza. Perché, come l’Armata si compone di tutti i soldati, dall’ultimo attendente su su fino al Comandante supremo, così anche lo Stato è composto da tutti coloro che abitano all’interno delle sue frontiere, dal contadino di montagna fino al ministro e all’Imperatore». Ironizza: «Ah, certo! Senza Stato sarebbe tutto più bello. Ma per questo bisognerebbe prima di tutto che noi uomini fossimo più belli di quel che siamo. E non solo più belli ma anche migliori, molto migliori. Lo Stato è infatti un male necessario lì dove molte persone molto diverse vivono assieme».
Finita la guerra, morto l’Imperatore e frantumato il suo mondo, affiderà ai diari l’amarezza dei «delusi fino alla nausea più profonda»: «Per sapere come si arriva alla pace, occorre porsi la domanda su come si sia arrivati alla guerra. Credo che la risposta esatta sia: perché eravamo sazi di pace…».
- Gian Antonio Stella - Pubblicato sul Corriere del 10/4/2019 -
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