Organizzati da Jerome Klinkowitz e Dan Wakefield per temi – “Guerra”, “Donne”, “Scienza”, “Amore”, “Etica del lavoro contro fama e fortuna”, “Comportamento umano”, “Il direttore della banda” e “Il futuro” – questi novantotto racconti sono stati scritti tra il 1941 e il 2007, e includono lavori pubblicati su giornali e riviste e poi raccolti in diversi volumi, cinque inediti e una manciata di testi apparsi finora solo in rete. Durante la sua vita Kurt Vonnegut ha pubblicato meno della metà dei racconti che ha scritto, ma seguì il consiglio il suo agente dopo un rifiuto nel 1958: tenerli da parte “per la raccolta delle tue opere che si pubblicheranno il giorno in cui sarai diventato famoso. Anche se per arrivare a quel giorno forse ci vorrà un po’ di tempo.” Questa raccolta ragionata, frutto di una grande opera di recupero, mostra tutta l’intelligenza, la maestria e l’umorismo dell’uomo e dello scrittore che con la sua prosa ha segnato la letteratura americana del XX secolo.
(dal risvolto di copertina di: "Tutti i Racconti", di Kurt Vonnegut. Bompiani. 1440 pagine)
Da "Come Vonnegut imparò a scrivere racconti", del curatore dell'antologia Dan Wakefield,
Un nome scarabocchiato in fondo a una lettera di rifiuto della rivista Collier’s aprì a Kurt Vonnegut la porta della carriera professionale di scrittore. In un primo momento non la riconobbe. Decifrò il messaggio che diceva: “Per noi questo è un po’ sentenzioso. Non sei per caso il Kurt Vonnegut che lavorava al Cornell Sun nel 1942, eh?” Kurt pensò che lo scarabocchio poteva essere “Owen Buyer, Ormes Bruyes o Dunk Briges, tutte persone a me ignote”. Fosse merito del caso, della fortuna o delle Muse, un fotografo col quale Kurt lavorava alla General Electric gli aveva suggerito di spedire alcuni dei racconti che stava scrivendo a un commilitone che aveva conosciuto quando lavorava a Yank. Il nome dell’amico era Knox Burger, che adesso lavorava a Collier’s come fiction editor.
Collier’s. Kurt cercò la lettera di rifiuto e riconobbe in “Knox Burger” il nome che non era stato capace di decifrare. Burger era stato editor di una rivista umoristica chiamata The Cornell Widow quando Kurt lavorava per il Sun. Non perse tempo, andò a pranzo con Knox a New York e trovò in lui una guida, e un’amicizia, che doveva durare molti anni.
Kurt spedì a Knox una scelta di racconti recenti e Knox gli rispose nel modo in cui i buoni editor rispondevano a quel tempo, con una lettera dettagliata di istruzioni (3 luglio 1949) su come migliorare un racconto che secondo lui aveva del potenziale, intitolato “Mnemonics”. Vonnegut, in seguito, avrebbe ricordato che “allora agenti e editori potevano dire a uno scrittore in che modo mettere a punto un racconto come se loro fossero i meccanici e il racconto una macchina da corsa” (dall’Introduzione a Bagombo Snuff Box).
I suggerimenti di Burger erano effettivamente dettagliati come quelli per smontare un’automobile: una pagina intera di istruzioni seguite dall’incoraggiante convinzione che il racconto aveva... delle possibilità. Knox diceva che un certo personaggio doveva essere più motivato e spiegava come farlo; voleva che la lista della spesa di una moglie fosse più fantasiosa e dava esempi di prodotti che avrebbe potuto andare a comprare. Trovava che un riferimento fosse “forzato” e chiedeva di sostituirlo...
Kurt operò immediatamente tutte le correzioni, solo per ricevere un’altra lettera con ulteriori revisioni. Accolse tutti i nuovi suggerimenti e rispose con le ultime revisioni, solo per ricevere un’ultima risposta: il racconto era stato presentato all’editore, che non soltanto pensava che non fosse riuscito, ma diceva che gli aveva lasciato l’amaro in bocca!
Se avessi letto tutto questo in un romanzo su un aspirante scrittore, avrei temuto voltando pagina di scoprire che il protagonista si era buttato, o aveva almeno buttato la macchina da scrivere, nel burrone più vicino. Vonnegut non buttò via nemmeno il racconto. Dovette smontarlo di nuovo, lavorarci su ancora e più a lungo, perché “Mnemonics” fosse finalmente pubblicato su Collier’s un anno e mezzo dopo (28 aprile 1951). Come osserva Ginger Strand nel suo perspicace resoconto in The Brothers Vonnegut, “un grande numero di giovani avevano sogni letterari, ma Kurt aveva anche la disciplina”.
Mentre la maggior parte degli scrittori alle prime armi reagiscono alla valanga di rifiuti decidendo che gli editori sono semplicemente troppo stupidi o insensibili per apprezzare l’immortale prosa dell’autore, Vonnegut ebbe una reazione eccezionale: i suoi racconti erano stati rifiutati perché non erano abbastanza buoni. In “Coda to My Career as a Writer for Periodicals” (in Bagombo Snuff Box) scrisse che quando era agli inizi alcune riviste, “giustamente, non avrebbero toccato la mia roba nemmeno con i guanti di gomma. Non mi offesi e non mi vergognai. Capivo le loro ragioni, ci voleva un po’ di umiltà”.
[...]
L’associazione con Burger, che poi lo passò a Littauer, diede il via alla parte professionale del viaggio di Kurt. Fu Burger a pubblicare il primo racconto di Kurt, “Relazione sull’effetto Barnhouse”, dopo che Ken Littauer gli ebbe fatto cambiare il finale per trasformarlo in una drammatica conclusione anziché in un discorso. Il risultato rispose finalmente alle attese di Burger e Vonnegut ricevette un assegno di 750 dollari, meno il dieci per cento dell’agente.
Il 28 ottobre 1949 Kurt scrisse a suo padre per dargli fieramente la notizia:
Caro papà,
ho venduto il mio primo racconto a Collier’s. Ho ricevuto il mio assegno (750 dollari meno la commissione del dieci per cento dell’agente [dall’agenzia Littauer e Wilkinson]) ieri a mezzogiorno. Pare che adesso altri due dei miei lavori abbiano buone probabilità di essere venduti nel prossimo futuro.
Credo di essere sulla buona strada. Ho depositato il mio primo assegno in un conto di risparmio e, se e quando ne venderò altri, continuerò a fare così finché avrò l’equivalente della paga di un anno alla GE. Basteranno altri quattro racconti per arrivare a qualcosa di più (come non ci è mai successo prima). Allora lascerò questo dannato lavoro da incubo e non ne cercherò un altro finché campo, Dio mi è testimone.
Da molti anni non sono mai stato così felice.
Con affetto,
K.
Le operette morali di Kurt Vonnegut
- di Stefano Massini -
Bompiani pubblica in un solo volume tutti i racconti del grande scrittore americano Inattuali nel senso migliore del termine: perché ci indicano ciò che è giusto e ciò che non lo è
We don’t need no education, cantavano i Pink Floyd esattamente quarant’anni fa. Ed è lampante che in quel contesto l’educazione fosse il simbolo restrittivo del potere più bieco, quello che impone non solo regole, ma schemi e modelli per leggere la realtà. Forse non esiste fattore più politico (nel senso alto del termine) dell’educazione: le dittature ne fanno un presupposto imprescindibile, convertendo però la palestra del libero pensiero nello scatolificio prestampato del consenso, ed è la riprova di quanto l’educazione, nelle sue forme libere e pluraliste, sia il più autentico ingrediente di un sistema democratico, così come lo concepiva don Milani. Parto da qui, perché c’è qualcosa che ai nostri orecchi suona inaudito, in questi racconti di Kurt Vonnegut (1922-2007) raccolti oggi da Bompiani: essi osano porsi nei confronti del lettore con un intento palesemente educativo. E ha ragione Dave Eggers nella sua prefazione: noi oggi ci sottraiamo immediatamente non appena un autore sembra additarci la retta via, la percepiamo come una catechesi non richiesta, perfino irritante. We don’t need no education versione 2.0, con la differenza sostanziale che nel 1979 si accusava l’educazione di regime, mentre oggi spariamo a vista contro chiunque indichi agli altri un barlume di direzione. Ma è giusto, vi chiedo, assecondare un simile rifiuto epidermico? Forse — anche per comprendere al meglio questi scritti di una penna formidabile — converrà allargare un minimo lo sguardo, tentando una franca riflessione su questo nostro ribrezzo anti-pedagogico. D’accordo: esimersi dall’indicare una via è sempre il metodo più furbo, perché consente di non esplicitare una scelta fra bene e male. Questo è il punto: noi non crediamo più né al bene né al male, tacciamo di manicheismo chi allude seppur vagamente allo steccato, e — se proprio dobbiamo — optiamo semmai più felicemente per il dark side, marchiando di buonismo e melassa ogni tenue raggio di luce. Siamo sinceri, una volta per tutte: va bene temere a ogni passo l’erba infestante della retorica, ma quanto gioca invece la codardia? Quanto incide la smania dell’abbraccio consolatorio, in quella nebbia democristiana in cui nessuno è né perduto né perfetto? Viceversa, Vonnegut crede spassionatamente nei buoni e nei cattivi, sentendosi a sua volta chiamato a una scelta di campo. Pare che una delle sue letture preferite fosse Piccola città di Thornton Wilder (un testo che anch’io amo molto), in cui assistiamo alla biopsia sociale di una cittadina americana ritratta sul perenne ciglio di uno sbando morale. Ecco: Vonnegut avverte nella sua missione di scrittore echi di una antica custodia e garanzia collettiva, non dissimile da quella che animava Wilder, più anziano di lui di un quarto di secolo. Non ci stupisce, in fondo: in continuità con quanto iniziato da Wilder prima degli anni ’40, i racconti di Vonnegut coprono un po’ tutto il secondo dopoguerra, traducendo in forma letteraria il sincero bisogno del lettore medio di essere orientato, assistito, indirizzato. Perfino di più: istruito. Era un’epoca in cui si cercavano voci autorevoli, riconoscendo loro un crisma magistrale, e si annotavano le frasi dei romanzi, si sottolineavano passaggi interi trascrivendoli magari sul proprio diario come moniti esistenziali, in nome di un qualche laico rigore.
E non per niente gli esordi letterari di Vonnegut furono nel segno di una fantascienza camuffata, allegorica, in cui il vero oggetto del contendere — fra alieni e automi — era il discrimine etico fra bene e male, e dunque la salvezza del genere umano, altrimenti avviato al mattatoio (non solo il n.5). Tronfia pretesa? Sarà. Ma almeno — mi sia consentito dirlo — implica il coraggio di una scelta drastica, passaggio davvero troppo impegnativo per chi sguazza come noi in un acquario di certezze liquide, provvisorie, continuamente ritrattabili. Perfino alla Marvel e alla Walt Disney hanno sentito il bisogno di intervenire sulla delineazione dei caratteri, sfumando i confini prima troppo netti fra le schiere angelicate del bene e quelle abiette dei villains. L’avranno fatto certo per maggiore realismo psicologico, non ho dubbi… Ma quanto avrà inciso il fatto che nella terra di mezzo ci riconosciamo tutti, mentre gli eroi puzzano di casta? Anche solo per questo, varrebbe la pena di consigliarvi la lettura dei racconti: sono un’allucinante full immersion dentro un tempo ormai tramontato, in cui le affermazioni implicavano una consapevole permanenza, non modificabile a colpi di tweet.
- Stefano Massini - Pubblicato su Robinson il 28/4/2019 -
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