La maggior parte della gente crede che la domesticazione degli animali e la coltivazione abbiano alla fine permesso agli esseri umani di stabilirsi, formando villaggi, città e stati agrari, rendendo così possibile la civiltà, la legge, l’ordine pubblico e un modo di vivere presumibilmente sicuro. Tuttavia le prove archeologiche e storiche mettono in discussione questa narrazione. I primi stati agrari nacquero da un accumulo di domesticazioni: prima del fuoco, poi delle piante, del bestiame, ma anche delle persone assoggettate allo stato, dei prigionieri e infine delle donne all’interno della famiglia patriarcale, tutti elementi che possono essere considerati un modo per ottenere il controllo sulla riproduzione.
James C. Scott analizza il motivo per cui per un periodo l’uomo evitò la sedentarietà e l’agricoltura con l’aratro, sfruttando i vantaggi della sussistenza mobile; considera le epidemie di malattie imprevedibili derivate dalla concentrazione di piante, animali domestici, granaglie; e spiega perché tutti i primi stati si basarono su miglio, cereali e schiavismo. Affrontando infine il tema della vita al di fuori dello stato, la vita dei «barbari», spesso più facile, libera e sana di quella all’interno della civiltà.
(dal risvolto di copertina di: James C. Scott, "Le origini della civiltà. Una controstoria". Einaudi)
Senza Stato si sta meglio
- di Adriano Favole -
«Popoli statali e non statali, agricoltori e raccoglitori, “barbari” e ”civilizzati” sono gemelli». Il libro di James Scott non solo archivia la visione evoluzionista del rapporto tra «civiltà» e «barbari», ma difende un’idea di complementarità tra società che scelsero l'agricoltura e lo Stato e società che scelsero (o furono costrette a scegliere) la raccolta e la caccia, la pastorizia, il nomadismo o, semplicemente, un’altra agricoltura rispetto a quella dei cereali. «Le tribù», scrive ancora Scott, «sono innanzitutto una fantasia amministrativa dello Stato: iniziano dove lo Stato finisce».
Scott si muove alle «origini» della civiltà dei cereali e nelle periferie degli antichi imperi. La sua lettura però è illuminante su pagine della modernità e della contemporaneità. Per esempio a metà Ottocento la Francia prendeva possesso della Nuova Caledonia, un arcipelago melanesiano che proprio nelle prossime settimane si esprimerà in un referendum per l’indipendenza. Le popolazioni locali, in seguito chiamate kanak, praticavano una forma di orticoltura itinerante basata sulla coltivazione di tuberi. La ricerca di terre nuove e fertili portava queste popolazioni a disegnare nel paesaggio degli chemins («cammini», «sentieri»), scanditi dal succedersi di genealogie e topologie. Una volta insediati in un nuovo terreno, i kanak tornavano periodicamente sui propri passi, alla ricerca di specie alimentari ibride, nate dall’incontro tra tuberi domestici e selvatici. Come scrisse l’etno-botanico André Haudricourt, i kanak erano orticoltori xenofili, sempre alla ricerca di nuove varietà di tuberi. Un atteggiamento, la xenofilia, che si riverberava nelle modalità con cui persone di origine «straniera» (per esempio locutori di altre lingue melanesiane) venivano innestate nei clan locali.
L’arrivo dei francesi e della civiltà dei cereali fu sconvolgente. La coltivazione del grano e l’allevamento di bovini richiedevano grandi e stabili appezzamenti di terra che furono assegnati ai coloni, spingendo i kanak verso le montagne. Le economie e gli immaginari itineranti dei kanak diventarono problematici in un sistema che «fissava» la proprietà delle fattorie. La legge dell’indigenato «inventò» di fatto le tribù, confinando i locali in riserve dai confini precisi, imponendo tasse, scoraggiando la mobilità e proibendo i matrimoni misti. La civiltà dei cereali creò una netta distinzione tra «grano» e «zizzania», basata, fuori di metafora, su una logica di purezza etnica che frammentava il mondo in «bianchi» e «negri» e divideva i secondi in tribù. All’estrema periferia dell’impero francese nasceva un nuovo popolo di «barbari», rimasti fino a oggi in posizione marginale rispetto allo Stato.
La bella idea a cui Scott dà voce, la gemellarità di civiltà e barbarie, ha una lunga storia in antropologia culturale, una disciplina nata per dare volti e voci a popoli in-disciplinati che sopravvivevano nelle periferie dei grandi centri di potere. Negli anni Settanta del secolo scorso, sulla scia dei rinnovati studi sulle società acquisitive, Marshall Sahlins lanciò una tesi provocatoria. I «cacciatori e raccoglitori», come venivano chiamati un tempo, erano società dell’abbondanza, altroché un’umanità sempre al limite della sussistenza. La limitazione dei bisogni le rendeva società ricche e soprattutto con molto tempo libero da dedicare alla socialità. Negli stessi anni Pierre Clastres sottolineava, a partire dai suoi studi sulle società amerindiane, che alcune culture scelgono di proposito di porsi «contro lo Stato».
E oggi? È tutto finito? Gli Stati si sono mangiati il mondo? Non proprio. Più che come società contro lo Stato, oggi i «barbari» si manifestano come società nello Stato, popoli che chiedono riconoscimento e legislazioni particolari. I nativi del Canada sono autorizzati a sfruttare in modi peculiari il territorio e gli aborigeni australiani recuperano i vecchi land titles, «titoli» di accesso alle terre. Come mi ha detto un bushinengue in Guyana francese, in risposta alla mia preoccupazione relativa al fatto che mi aveva portato sull’altra riva del fiume, in Suriname, senza un visto di ingresso: «Noi siamo i figli del fiume. Non conosciamo i confini!». Come altre società, i bushinengue, discendenti di schiavi fuggiti ai padroni a partire dal XVI secolo, vivono ai margini dello Stato, sfruttando la loro posizione. Ma non vanno dimenticate le privazioni di una cittadinanza più libera e incompleta al tempo stesso.
- Adriano Favole - Pubblicato su La Lettura del 28/10/2018 -
La nascita delle (in)civiltà
- James C. Scott, una controversia -
di Alessandro Vanoli
E se ci fossimo sbagliati? O almeno, se non avessimo tenuto conto di tutti i punti di vista? Nello studio della storia capita spesso. Ma in questo caso il problema è più profondo; così profondo da riguardare il senso stesso delle nostre vicende storiche. Prendete lo Stato, nel suo senso più generico: se c’è una cosa che da sempre segna e scandisce l’interpretazione del passato, essa è appunto lo Stato, a cominciare dalle prime forme neolitiche: cioè le prime concentrazioni di piante, animali domestici e persone organizzate sotto un solo potere. Qualsiasi racconto di progresso e di civiltà parte in fondo da quelle realtà agricole e continua poi parlando di regni e di imperi.
La storia, così come tutti la conosciamo e l’abbiamo ripetuta, è quella del progresso e della civiltà codificati dai primi grandi regni agricoli: società nuove e potenti determinate a distinguersi il più possibile dalle popolazioni da cui erano nate e che ancora si agitavano minacciose ai loro confini. Una storia di «ascesa dell’uomo» dove il mondo selvaggio, primitivo, senza legge e violento dei nomadi e dei cacciatori-raccoglitori era stato rimpiazzato dall’agricoltura stanziale che, invece, era l’origine e la garanzia della vita stabile, della religione formale, della società e del governo della legge. In questa storia era più o meno implicito che chi si opponeva all’agricoltura lo faceva per ignoranza o per rifiuto dell’adattamento: perché assieme ai prodotti della terra stava la casa, il luogo per antonomasia della civiltà, dove gli uomini potevano per sempre sistemarsi, ponendo fine a centinaia di millenni di nomadismo. E questa immagine della nostra storia ha avuto sempre, per di più, il vantaggio dell’evidenza: perché sono gli Stati che lasciano agli archeologi i resti monumentali; e sono sempre gli Stati che elaborano forme di scrittura in grado di preservare la memoria pubblica.
Ma la domanda è proprio qui: e si ci fossimo sbagliati? Se stessimo esagerando l’importanza di tali forme di sedentarizzazione? Sono molte le recenti scoperte che legittimano un simile dubbio: sappiamo ad esempio che l’agricoltura stanziale nacque ben prima degli Stati e sappiamo che, in termini di benessere umano, il lavoro dei campi si dimostrò molto spesso tutt’altro che vantaggioso. Inoltre stiamo cominciando a capire quanto gli Stati antichi furono fragili di fronte a malattie, carestie e guerre. Dunque, dato tutto questo, siamo poi sicuri che i nomadi non vedessero davvero l’ora di sistemarsi e smetterla con i loro spostamenti stagionali? In fondo, dai Galli ai Sioux, la storia è piena di esempi di popolazioni intere che hanno combattuto sino all’ultimo per non essere controllate da uno Stato. E siamo davvero sicuri che i nomadi se la passassero peggio dei sedentari dal punto di vista della salute e della qualità della vita? In realtà forse è vero il contrario, erano cioè gli agricoltori, legati alle terribili fatiche della terra, a fare una vita grama e a ritrovarsi con una dieta a dir poco ristretta. E soprattutto, siamo davvero sicuri che lungo il corso della storia, lo Stato abbia poi contato davvero così tanto ai fini degli scambi economici, delle trasformazioni culturali e dei rovesci militari?
Il politologo americano James Scott, nel libro Le origini della civiltà (Einaudi), parte da qui per mettere in discussione uno dei cardini stessi del nostro senso della storia e della politica. Lo fa cominciando da lontano, dagli albori del Neolitico, sulla scorta di una tradizione di studi ormai decennale che si sta sforzando di indagare il nostro passato più profondo alla luce di scienze come la biologia e la paleontologia, per trarne interpretazioni valide per i più ampi processi storici. E in effetti la storia politica proposta da Scott lega profondamente biologia e cultura; e facendolo rimette in discussione alcuni degli assunti più scontati del nostro immaginario storico. A cominciare dallo Stato appunto. Una storia antica, antichissima, quella ricostruita da Scott, che prende le mosse dall’uso del fuoco e dalle prime modificazioni del paesaggio, per arrivare alla coltivazione dei cereali. Poi passa all’addomesticamento degli animali per il lavoro agricolo; e affrontando questo argomento traccia un parallelo con l’addomesticamento di esseri umani, gli schiavi, utilizzati per alimentare la vita economica degli Stati con la loro forza lavoro. E questa concentrazione di esseri umani dediti all’agricoltura appare certamente la precondizione per la fondazione dello Stato, con le sue gerarchie politiche, la tassazione estrattiva e il servizio di massa.
Lo sguardo si volge poi alle narrazioni prodotte da queste nuove forme politiche, che agirono sin da quei tempi lontani e che si vedono già nella propaganda prodotta dai primi regni agricoli sorti tra Tigri ed Eufrate intorno al 3000 a.C.: una mitologia incentrata sulle origini divine del grano; una mitologia, aggiunge Scott, che avrà una lunghissima fortuna, tanto che appare ormai incancellabile l’associazione tra civiltà e cereali, grano, orzo, mais o riso che siano. E, assieme alla mitologia del grano, l’idea che i sedentari avessero adottato una forma di vita superiore e più attraente delle forme mobili di sussistenza. L’idea che l’essere sedentario, abitare una casa, fosse il segno di una raggiunta civiltà.
Ma è a questo punto che si mostra tutta la complessità della storia. Perché in realtà, con buona pace dei sedentari, gran parte della popolazione mondiale, quella definita dallo Stato come «barbari», continuò a vivere fuori dai confini. Certo, i nomadi hanno lasciato poche registrazioni delle loro attività e delle loro visioni del mondo, ma questo non vuole dire affatto che se la passassero peggio degli stanziali. Anzi non è per nulla detto che lo Stato fosse la migliore offerta possibile, l’occasione per un salto di civiltà.
Certo, la maggior parte delle tracce storiche sono state prodotte dallo Stato e dunque ad esso favorevoli, ma a guardar bene vi sono anche moltissimi indizi contrari: la coercizione, la schiavitù, le forti tassazioni, le malattie epidemiche. E se è vero che molti tra i nomadi desiderarono le ricchezze degli Stati, non è affatto detto che tutti volessero farne parte.
Prendete le mura, ad esempio. Alla fine del II millennio avanti Cristo buona parte delle città della Mesopotamia era circondata da mura: per la prima volta lo Stato aveva generato una corazza protettiva. E l’esistenza di una simile corazza era il segno evidente di qualcosa di prezioso: almeno una coltivazione permanente e un deposito di provviste. Sin da quei tempi lontani lo Stato raccontò come le mura fossero state innalzate per difendere il suo popolo dalle minacce esterne. È questo che si legge già nell’epopea di Gilgamesh ed è questo che sarebbe stato ripetuto per secoli e millenni, dall’Impero cinese, dai Romani e da tutti gli altri costruttori di potenti civiltà. Ma ci sono ottime prove per dimostrare che la vicenda fu decisamente più complessa: la Grande Muraglia, per fare un esempio importante, non era solo un baluardo per arginare le incursioni dei nomadi, ma anche un ottimo strumento per tenere dentro i confini statali i contadini che dovevano pagare le tasse. Due scopi apparentemente contrapposti, ma che nella storia si sarebbero trovati spesso congiunti: difendersi dai barbari ed evitare la fuga dei sudditi. Sì, perché gli Stati non ne hanno mai parlato volentieri, ma la tentazione di passare tra le file dei barbari e, dunque di ritornare nomadi, è sempre stata più forte di quanto si racconti normalmente. In fondo essere ai margini o completamente al di fuori del controllo statale presentava non pochi vantaggi: la libertà da un fisco opprimente ad esempio, oppure la possibilità di arricchirsi lungo le grandi direttrici di traffico commerciale.
Così eccoci arrivati, senza mai dirlo apertamente, alle soglie del nostro presente. Occorre tenere conto dei precedenti lavori di James C. Scott per capire meglio questo suo viaggio nel passato profondo: l’autore di Seeing Like a State (Yale University Press, 1998) e di Elogio dell’anarchismo (Elèuthera, 2014) da decenni spiega come gli interessi di uno Stato quasi mai coincidano con gli interessi degli individui che gli appartengono: perché, dice, al di là delle apparenze, quelle tra dominati e dominanti sono sempre relazioni conflittuali e intrise d’inganno, dove i subordinati simulano la propria deferenza all’autorità costituita, mentre i detentori del potere inscenano la propria supremazia e il proprio amore per il popolo. In quest’ottica il suo ultimo libro fa in fondo solo un piccolo passo in più: il tentativo di leggere tali dinamiche su una scala storica infinitamente più ampia.
Ma se dal punto di vista della scienza politica tutto questo rappresenta un insieme di salutari riflessioni, per uno storico una simile opera offre un’evidente sfida: siamo in grado di pensare le vicende umane facendo per un attimo astrazione dagli Stati? Siamo in grado di pensare i nomadi o i cacciatori-raccoglitori come protagonisti di pari dignità del nostro passato? La risposta è probabilmente no, ma varrebbe la pena di compiere qualche piccolo sforzo in quella direzione, specie oggi. In fondo è vero che abbiamo sempre tenuto lo Stato al centro della scena, talvolta anche inconsapevolmente: da Thomas Hobbes a Georg Wilhelm Friedrich Hegel, sino alle moderne riflessioni di Francis Fukuyama, siamo stati educati a pensare l’ascesa dello Stato come realizzazione della libertà individuale, come culmine della storia del mondo. Eppure le nuove prospettive aperte dalla storia globale ci mostrano l’importanza millenaria dei grandi flussi di individui e ci abituano a guardare al mondo relativizzando l’importanza dei grandi centri di potere.
I nomadi delle steppe che insidiarono l’Impero romano; gli Xiongnu che infestarono le terre a nord della Cina; i Normanni che giunsero dalla Scandinavia fino in Sicilia, i Turchi che si impadronirono dei territori musulmani; i Mongoli che unificarono l’Asia. L’elenco potrebbe continuare a lungo mostrando l’incredibile varietà di queste condizioni di nomadismo e la loro innegabile importanza storica. Talvolta i barbari prosperarono lungo le grandi vie di commercio o negli spazi aperti della pastorizia. Altre volte conquistarono infine lo Stato e si trasformarono così nella nuova classe dominante. Molto più spesso diventarono la cavalleria o i mercenari dello Stato, che li utilizzò allo scopo di tenere sotto controllo altri barbari.
E da qui, come storici, dovremmo magari fare ancora un passo avanti, sino al presente. Perché è evidente che in questo nostro mondo, che ci appare ormai pensabile solo in termini di Stati, i nomadi sono ancora in movimento: enormi flussi di persone attraversano mari e continenti sfuggendo dagli Stati o vivendone ai margini. E allora, non fosse che per questo, di fronte al rigurgito di tanta vecchia retorica nazionalista e al desiderio primitivo di nuovi muri, forse varrebbe la pena di volgerci anche al passato profondo, per tornare a chiederci quanto di antico vi sia in questo nostro mesto presente.
- Alessandro Vanoli - Pubblicato su La Lettura del 28/10/2018 -
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