Il Libro Nero del Capitalismo
- Introduzione alla nuova edizione del 2009 -
Dalla fine del socialismo di Stato nel 1989 alla crisi del capitale mondiale nel 2009
di Robert Kurz
La celebrazione di anniversari di eventi famosi è uno dei più noiosi obblighi della scena culturale borghese. Tuttavia, se l'anniversario fa riferimento ad argomenti e contesti controversi, dove c'è ben poco da celebrare, allora si preferisce ignorarlo. Quando venne pubblicato per la prima volta questo libro, nel 1999, allora, nel mondo ufficiale, si presumeva che avrebbe dovuto esserci qualcosa da festeggiare: il crollo del socialismo di Stato avveniva esattamente dieci anni prima. L'euforia per la vittoria, da parte dei guerrieri occidentali della Guerra Fredda, non si era ancora dissolta. La filosofia accademica aveva proclamato la «fine delle utopie», e lo scienziato politico americano, Francis Fukuyama, aveva proclamato la «fine della storia»; lo sviluppo dell'umanità avrebbe raggiunto il suo obiettivo, in quella che era l'eterna forma sociale dell'«economia di mercato e della democrazia». Da allora, il professorale marxismo residuale e la sinistra politica non avevano più smesso di abiurare; riconoscere il realismo compatibile con il Mercato era diventato una sorta di rituale. E la «rivoluzione neoliberista» sembrava imporre inarrestabilmente la nuova immagine umana che coincideva col personaggio del radicale del mercato. A quel tempo, l'economia capitalista globale si trovava al culmine di un vertice senza precedenti raggiunto in Borsa. I guru del management e gli analisti finanziari proclamavano una New Economy che si presumeva avrebbe superato tutte le precedenti teorie della scienza economica.
In una situazione del genere, esisteva solo un modo di nuotare controcorrente rispetto a quello che era lo Spirito del Tempo: la coscienza dominante doveva essere messa di fronte alla sua completa cecità storica. Il mercato totalitario non conosce la storia, ma solamente l'eterno ritorno ciclico dello stesso. Quanto più il pensiero riesce ad immergersi nell'orizzonte temporale della logica di mercato, tanto più esso deve diventare incoerente. Contro tutto questo, il Libro Nero del Capitalismo fece qualcosa per tentare di ripristinare la dimensione storica perduta. Non si tratta di banalità, secondo cui tutto ciò che è temporale finisce per arrivare ad una sua fine, ma di analizzare concretamente un processo nel quale il capitalismo divora letteralmente il mondo e divora sé stesso. Ormai da tempo, è diventato evidente che la coazione compulsiva ad un'incessante crescita della «ricchezza astratta» (Marx) è associata ad una progressiva distruzione delle basi naturali. Quanto più inarrestabile minaccia di diventare la catastrofe climatica, tanto più esitanti si fanno le misure reali, nonostante tutte le chiacchiere dei politici, per fare in modo che gli interventi necessari siano totalmente incompatibili con la razionalità economica del modo di produzione diventato oramai unificato su scala planetaria. Tuttavia, l'analisi del Libro Nero si riferisce principalmente alla dinamica della «valorizzazione del valore» (Marx) e a quella dell'accumulazione storica in sé. A partire da questo diventa chiaro che tutto ciò sfugge alla coscienza dell'uomo di mercato, che rimane fissata su quelle che sono le mere «situazioni di cambiamento» della congiuntura economica: l'astratto «sempre più» del capitalismo non solo va a sbattere contro il suo limite esterno naturale, ma incontra anche un limite economico interno.
Quello che sembra essere il ritorno dello stesso, a livello di flussi di merci e denaro, dell'eterna compravendita, è allo stesso tempo una storia irreversibile di quello che Marx chiamava «sviluppo delle forze produttive», imposto dalla concorrenza nazionale ed internazionale. Rispetto a questo, non si dà mai un ritorno dello stesso, bensì sono le rivoluzioni tecnologiche a stabilire continuamente nuovi modelli di produttività, su scala crescente. Questa storia, la si può leggere in quelli che sono i musei industriali del mondo. L'ideologia secondo la quale, in questo sviluppo auto-generato, può esser fatto tutto. Perché c'è una cosa che il capitalismo non può fare; il capitalismo non può tornare ad un livello tecnologico precedente (come quello della macchina a vapore). Tuttavia, lo sviluppo delle forze produttive non segue un piano sociale che si basa su accordi consapevoli, che possa includere i rischi, gli effetti collaterali e le conseguenze a lungo termine, ma esso è controllato dalla cieca dinamica della concorrenza. È questo il meccanismo della macchina economica, quello che in Marx appare come il «soggetto automatico», al quale sono soggette anche le élite. Pertanto, le ripercussioni sociali possono essere affrontate solo successivamente, e soltanto in maniera inadeguata. Ma tutto questo crea delle contraddizioni che si accumulano, così come si accumula il capitale monetario. La storia del capitalismo è la storia del modo in cui il capitalismo tratta le proprie contraddizioni, le quali si sono acutizzate in maniera drammatica alla fine del XX secolo.
Dal momento che il capitalismo è una relazione sociale, esso deve anche riprodurre la società, materialmente e socialmente. Questo fa parte del concetto di relazione sociale, e non ha niente a che fare con considerazioni morali. Ma il fine di tutta l'organizzazione non è la riproduzione materiale e sociale. Al contrario, l'obiettivo è quello di un fine in sé «irrazionale», nato da dei processi storici inconsapevoli, vale a dire, dalla necessità di produrre incessantemente da ogni euro, o da ogni dollaro, due euro, o due dollari. Questo fine in sé automatico non ha alcun riguardo per il contenuto specifico di tutto ciò che viene mobilitato. Perciò, la sviluppo delle forze produttive si rivela allo stesso tempo come sviluppo di forze distruttive, che raggiunge quelli che sono i limiti della resilienza, non solo ecologica, ma anche sociale. Nell'epoca moderna, il denaro non è altro che la forma sociale della rappresentazione della forza lavoro astratta erogata, la quale produce il famoso plusvalore, al di là di quello che è il suo stesso costo di riproduzione. Dal punto di vista dell'economia imprenditoriale, la produzione di profitto, in quanto necessità di sopravvivenza, si dimostra tanto più efficace quanto più bassi sono i costi della quantità di forza lavoro che viene comunque spremuta. Dato che i produttori non producono per quelle che sono delle necessità comuni, ma per il fine capitalista in sé presupposto, essi, insieme alla «ricchezza astratta», creano anche la loro stessa povertà relativa, se non addirittura assoluta.
Questa descrizione della paradossale logica della relazione di capitale, continua ancora a provocare le più violente proteste. L'aumento della produttività non ha forse portato anche ad un aumento della «prosperità per tutti»? Ma, già nel 1999, il miracolo economico del dopoguerra era solo un ricordo. Nell'andare a fondo, il socialismo dello Stato burocratico non ha lasciato i suoi figli nel paradiso del consumo occidentale, come molti speravano, ma nella «nuova povertà», insieme ai tagli nella Sicurezza Sociale, i salari bassi e la precarizzazione. Nei centri occidentali, questa tendenza alla caduta era cominciata negli anni '80, ed era stata occultata solo grazie al disastro dell'Est. Il trattamento della contraddizione sociale, apparentemente pacificata, perdeva sempre più forza. Negli anni '90, erano sempre più le voci che sostenevano che ora il capitalismo stesse regredendo proprio a quello che era il suo orribile «stato normale», dal momento che non aveva più bisogno di alcuna legittimazione, come avveniva invece durante il conflitto sistemico della Guerra Fredda. Il problema della legittimità dipendeva certamente da quanta privazione e da quanta sofferenza, le persone, degradate e unite nel lavoro, fossero disposte a sopportare da parte dell'amministrazione della povertà. Le condizioni capitalistiche di esistenza ed i loro criteri erano state interiorizzate nel corso di un processo secolare, cominciato a partire dalla fine del XVIII secolo. Se una persona non riesce ad immaginare altro, allora deve arrendersi in maniera incondizionata alle circostanze, e deve sprecare la propria vita nel tentativo di lottare per la «competitività». Il trionfo del neoliberismo è stato accompagnato da una crescente individualizzazione e desolidarizzazione. Forse ora, la valorizzazione del capitale, finalmente emancipatasi dai problemi della legittimazione sociale, avrebbe potuto davvero iniziare il suo nuovo volo verso altezze sempre maggiori?
Tuttavia, il concetto di relazione sociale non si era esaurito nella legittimazione ideologica. Quanto meno fino ad un certo punto, per poter riprodurre sé stesso, il capitalismo deve riprodurre anche la vita materiale e sociale. Ciò dipende dal potere di acquisto sociale al fine del consumo di beni e servizi, dal momento che, diversamente, non può essere mantenuto il ciclo di trasformazione in plusvalore del capitale monetario che viene anticipato. A tal riguardo, la razionalità dell'economia imprenditoriale, nel ridurre i costi della forza lavoro, si trova in contraddizione con le condizioni di riproduzione del capitale totale. Se la povertà monetaria prodotta dalla logica paradossale della valorizzazione eccede una determinata soglia del dolore, ecco che anche la valorizzazione stessa diventa un problema. Le cosiddette crisi non sono, in alcun modo, la conseguenza delle persone che lottano per i loro propri interessi preformati in termini capitalistici, o addirittura del fatto che quelle persone non vogliono più questo sistema, come amano credere i teorici di sinistra. E neppure la povertà capitalista, che ha cominciato di nuovo a diffondersi rapidamente a partire dagli anni '80, è la conseguenza delle decisioni ideologiche della volontà delle élite, come leggiamo in quello che è il repertorio standard di una critica del capitalismo assai miope. Anche se i modelli ideologici di interpretazione, e le loro mobilitazioni, possono plasmare i processi politici, essi non possono provocare crisi economiche. Il limite del capitale è il capitale stesso, come ha detto Marx, vale a dire che è lo sviluppo della sua auto-contraddizione interna. Pertanto, la storia del capitalismo non è solo la storia della gestione della contraddizione sociale, ma è anche la storia della gestione della contraddizione economica.
Visto in maniera superficiale, si tratta sempre della mancanza di potere di acquisto sociale. Ma questo è solamente la manifestazione di un problema più profondo, ossia, la mancanza di produzione del plusvalore sociale stesso. Il valore, rappresentato nella forma del denaro, non è nient'altro che la forma in cui viene rappresentato il «lavoro astratto» (Marx), la massa del dispendio di energia umana astratta che viene spesa negli spazi funzionali dell'economia imprenditoriale, che si raggruppa in una massa sociale totale. L'indifferenza della valorizzazione, nei confronti di quello che è il contenuto materiale della produzione dell'economia imprenditoriale, e per quelli che sono i suoi effetti sulle basi naturali, deriva dal fatto che il suo contenuto sociale, o la sua «sostanza», è formata proprio dal «lavoro astratto». Il fine in sé di fare sempre più denaro, a partire dal denaro, si basa sulla finalità di fare del «lavoro» sempre «più lavoro». Tuttavia, nella concorrenza, il capitale individuale non si appropria del plusvalore che viene prodotto dentro le sue quattro mura, ma di quella parte di plusvalore sociale che riesce a spremere da sé per mezzo della sua offerta. Per offrire prodotti più economici, e per riuscire ad imporsi nella concorrenza, è necessaria una «politica di taglio dei costi» nell'impresa, realizzata per l'appunto attraverso l'aumento della produttività. Ma tutto questo non è in alcun modo una questione meramente tecnologica, ma, al contrario, in questo modo si creano costantemente nuove condizioni economiche per la valorizzazione del capitale totale. Come può questo avere come risultato la mancanza di produzione sociale di plusvalore?
La coazione a tagliare i costi dell'economia imprenditoriale, non solo porta ad un aumento del la pressione sui redditi salariali, ma lo sviluppo relativo delle forze produttive ha anche l'effetto di rendere superflua la forza lavoro. Ora, dal momento che la forza lavoro è la fonte del plusvalore, la sua graduale razionalizzazione in quello che è un processo secolare indebolisce il raggiungimento del fine della valorizzazione. Sono proprio le aziende che si appropriano della maggior parte di plusvalore sociale, che, nello stesso tempo, contribuiscono più delle altre alla sua riduzione, «liberando» una grande quantità di forza lavoro. È questa la vera contraddizione del capitalismo. Nonostante le crisi periodiche, in passato questa contraddizione poteva essere compensata con successo, poiché l'abbassamento del prezzo dei prodotti portava ad una grande espansione dei mercati, cosa che faceva aumentare fortemente la produzione e portava, pertanto, ad un utilizzo addizionale della forza lavoro, mentre allo stesso tempo si riduceva la forza lavoro usata nella produzione di ciascun prodotto. L'economia ha reso tutto questo una legge generale, e solo in questo modo è stato possibile celebrare lo sviluppo delle forze produttive come un motore della riuscita valorizzazione e della crescente prosperità. Ma tutto questo è falso. Perché, nella Terza Rivoluzione Industriale della microelettronica, a partire dagli anni '80, per la prima volta nella storia capitalista, è diventata superflua più forza lavoro di quanto poteva essere riassorbita dall'espansione dei mercati. Lo sviluppo capitalistico raggiunge il proprio limite assoluto, in una irreversibile «desustanzializzazione del capitale» e in una storica «svalorizzazione del valore» . È questa, nel suo ultimo capitolo, la tesi principale del Libro Nero.
Questo culmine poteva essere visto nella disoccupazione e nella sottoccupazione strutturale, in costante crescita su scala globale. In superficie, il corrispondente crollo della massa reale di plusvalore sociale si manifestò come un declino costante del reale potere di acquisto delle masse. Tuttavia, all'inizio tutto questo sembrava interessare poco i profitti nominali. Dal momento che questi ultimi si nutrivano sempre meno della produzione reale di plusvalore, e sempre più dell'imponente montagna del debito, per mezzo di sempre nuove ristrutturazioni, e attraverso un'economia di bolle finanziarie «senza sostanza», a partire dai prezzi delle azioni in piena esplosione. Il sistema di credito e di speculazione sui mercati finanziari, già nelle precedenti crisi periodiche svolgeva il ruolo di simulare temporaneamente la valorizzazione reale, la quale ormai non avveniva più a sufficienza; le bolle di credito e di speculazione, però, dopo alcuni anni, erano sempre scoppiate, per dare luogo alla successiva ondata di valorizzazione reale, a partire da una nuova base tecnologica. Ma dato che, nelle condizioni della Terza Rivoluzione Industriale questa ondata non era comparsa, l'economia delle bolle finanziarie era fiorita come se fosse una presunta condizione strutturale permanente di una crescita «spinta dalla finanza».
Sostanzialmente, la riproduzione simulata dal capitalismo per mezzo delle bolle di credito era già cominciata negli anni '70, alla fine del miracolo economico, allora sotto forma di una credito pubblico gonfiato a partire dalla dottrina economica del keynesismo. Il denaro a credito dello Stato, che non veniva più assorbito dalla produzione reale di plusvalore attraverso il gettito fiscale, fluiva verso gli investimenti destinati alle infrastrutture nel settore dell'istruzione e della salute, così come verso le gratifiche dello stato sociale. In questo modo, si era venuto a creare già allora un potere di acquisto che non aveva alcuna base sostanziale. Nel momento in cui questo potere di acquisto simulato veniva alimento direttamente in quelle che erano le rispettive aree monetarie nazionali, esso, in Occidente, finì per stimolare l'inflazione con tassi a due cifre, e con l'iper-inflazione nei pasi periferici. Questo sviluppo di una «stagflazione» (aumento dell'inflazione e tasso di crescita in caduta), relativamente poco tematizzato nel Libro Nero, diede il segnale di partenza per la «rivoluzione neoliberista». Ma il neoliberismo non ha riconosciuto come causa la mancanza di produzione di plusvalore reale, pretendendo piuttosto di responsabilizzare solo le attività statali, che avrebbero superato i limiti, preferendo perciò affidarsi ai presunti «poteri auto-rigenerativi del mercato». La successiva e conseguente deregolamentazione radicale dei mercati del lavoro ha solo intensificato il crollo del potere di acquisto, attraverso la creazione di settori, con salari bassi, ed un'elevata disoccupazione, mentre la deregolamentazione altrettanto radicale dei mercati finanziati ha solo rimandato, per mezzo delle Borse, la formazione di bolle di credito pubblico senza alcuna sostanza.
Questa forma di «capitale fittizio» (Marx) ha raggiunto il suo apice alla fine degli anni '90. Non sono state solo le banche di investimento e i fondi di capitale monetario, ma anche i gruppi industriali, partecipando all'economia delle bolle finanziarie, ad aver portato a livelli senza precedenti la simulazione dei profitti. La riduzione della simulazione è stata in questo modo un po' ostacolata, ma l'applicazione reale della forza lavoro è apparsa come se fosse solamente un effetto collaterale delle new economy. Allo stesso tempo, il potere di acquisto altrettanto simulatorio, nonostante la caduta dei salari reali, ormai non era più determinato soprattutto dal credito di Stato, bensì da un rapido aumento del debito privato e dalla relativamente ampia diffusione della proprietà di azioni. La società si trovava ad essere stata suddivisa fra, da un lato, una crescente povertà di massa di coloro che erano stati espulsi dal mercato del lavoro e dei lavoratori sottopagati, e dall'altro, una partecipazione parziale diretta o indiretta alla crescita «promossa dalla finanza». Il piccolo speculatore ed il piccolo artista del debito si erano trasformati in un modello di individualizzazione. Il Libro Nero si chiude con la descrizione di tale situazione, e con la previsione apparentemente temeraria del fatto che tutta questa falsa meraviglia finirà per dissolversi in fumo ed in macerie, dopo un periodo di incubazione non determinabile in maniera esatta.
Il pubblico intellettuale tedesco ha preso il Libro Nero come se fosse stato una sorta di cattivo presagio (dopo tutto, nel mondo del capitalismo virtualizzato, c'era bisogno di qualcuno che si mostrasse sempre meravigliosamente «aperto» ad ogni genere di «pensiero creativo» esoterico), senza però prendere sul serio quella che era la previsione che veniva presentata. Per il pensiero astorico della febbrile coscienza della classe media, e nel bel mezzo del boom del mercato azionario, il periodo era troppo dorato perché si volesse vedere in tutto questo qualcosa che andava al di là del valore di intrattenimento che poteva avere ciò che vedevano come se fosse solo un treno fantasma socio-filosofico. Appena solo tre anni dopo la pubblicazione del libro, la new economy collassava, ed entrava in una crisi globale. Il capitale azionista delle piccole imprese su Internet, con pochi dipendenti, che era arrivato ad avere la capitalizzazione borsistica dei grandi gruppi industriali, in gran parte spariva dalla scena; i segmenti di «nuovi mercati» ad essi relazionati in borsa si dissolvevano. Nel complesso, gli indici azionari globali perdevano fra la metà ed i due terzi di quello che era il loro valore fittizio. Il risultato era quello di una recessione altrettanto globale, nella misura in cui si cominciava a prosciugare il potere di acquisto delle bolle finanziarie.
Il capitalismo correva il rischio di trovarsi ridotto alle sue basi reali di valorizzazione, con conseguenze imprevedibili. Per poter rimandare ancora una volta il limite interno della valorizzazione, che ora è sotto gli occhi di tutti, le banche centrali degli Stati scendono in campo, soprattutto la Federal Reserve degli Stati Uniti, guidata da Alan Greenspan. Attraverso una drastica concertata riduzione dei tassi di interesse di base, le bolle finanziarie indebolitesi dovrebbero tornare a gonfiarsi. Infatti, il successo è clamoroso. Dal momento in cui le banche centrali hanno aperto le chiuse del flusso monetario, si è potuta evitare una crisi mondiale del credito, e le Borse hanno cominciato a recuperare, anche se è continuata la mancanza di produzione di plusvalore sostanziale. Per poter salvare la crescita «spinta dalla finanza», come è stato deciso negli Stati Uniti, se necessario, bisogna «lanciare dall'elicottero» denaro in quantità brutale. Tuttavia, queste misure sono sono già state la rovina del neoliberismo, riportando quella che era stata l'espansione inflazionistica del credito pubblico, avvenuta alla fine del boom postbellico, ad una «politica del denaro a basso costo», attraverso le banche centrali.
La dottrina neoliberista del cosiddetto monetarismo aveva come fine in sé quello di limitare la creazione di denaro da parte delle banche centrali, riportandola ad una quantità che non eccedesse la quantità di beni determinata da domanda solvibile. Cosa che andava bene, finché con questo si riusciva a a giustificare le restrizioni sociali nei confronti dei disoccupati e dei sottoccupati. Ma ora la dottrina monetarista veniva spazzata via, perché si era esaurito il potere autonomo del sistema creditizio, insieme alla speculazione che permetteva di creare «capitale fittizio». Il salvataggio dell'economia delle bolle finanziarie aveva successo solo nella misura in cui veniva alimentato dalla creazione di denaro da parte delle banche centrali. Pertanto, il «fattore Stato», nella forma di una politica monetaria espansiva da parte delle banche centrali, tornava ad essere l'istituzione decisiva. Né l'inflazione autonoma dei mercati finanziari, con l'aiuto della deregolamentazione neoliberista, né la sua rigenerazione attraverso l'alluvione di denaro proveniente dalle banche centrali, a partire dal 2001, hanno prodotto valore reale, attraverso la sostanza del lavoro. Questa «asset inflation» («Inflazione mobiliare») non appariva solo come se fosse una rapida svalorizzazione del denaro, poiché, diversamente dal credito pubblico, essa non fluiva direttamente, in quanto potere di acquisto, verso le aree monetarie nazionali, ma era mediata dal contesto del concatenamento globale del capitale finanziario; per esempio, come esportazione di credito e di capitale speculativo fra le diverse aree monetarie. Tuttavia, in questo modo il realizzarsi del potenziale inflazionistico veniva solo posticipato.
Inizialmente, l'apertura delle chiuse del flusso di denaro aveva creato un potere di acquisto fittizio, in una nuova dimensione. Oltre alla rinnovata bolla azionaria nelle Borse, in molti paesi e regioni del mondo, era emersa un bolla immobiliare altrettanto inedita; all'interno dell'Unione Europea, in Spagna, nel Regno Unito ed in Irlanda, in parti dell'Asia, e soprattutto negli Stati Uniti, dove le abitazioni e la proprietà immobiliare della classe media, in larghissima parte ampliata e finanziata a credito, avevano potuto servire come base. Allo stesso modo in cui i prezzi dei corrispondenti titoli di proprietà salivano, di mese in mese, molto più dei costi del credito, l'eccedenza garantita dalle ipoteche la si era potuta usare nel consumo. Inoltre, il denaro a basso costo delle banche centrali era stato usato dalle banche commerciali, in previsione di un costante aumento dei prezzi delle case, per mezzo di ipoteche per i nuovi costruttori di case senza alcun capitale proprio. In questo modo, avendo come centro gli Stati Uniti, era nato un «miracolo del consumo» ancora più slegato dai redditi reali. Alan Greenspan venne celebrato come il «mago» del denaro a basso costo.
La massa di potere di acquisito «lanciata dall'elicottero», con tali mezzi, era stata così grande da riuscire a spingere un'economia di deficit globale di dimensioni sorprendenti, dopo la breve recessione avvenuta in seguito al crollo dei Dotcom. In un tale contesto, nella fase matura, era nata una peculiare «divisione del lavoro» globale che si prendeva gioco di qualsiasi manuale di economia. Gli Stati Uniti, come potenza politico-militare garante del capitale mondiale, divennero il centro della globalizzazione. In questo presunto «porto sicuro» venne ad attraccare la maggior parte del capitale globale a credito e speculativo, alla ricerca di realizzazione. È solo per questo motivo che il dollaro ha potuto mantenere la sua posizione come moneta mondiale, sebbene nel dicembre del 1973 abbia dovuto porre termine alla convertibilità del dollaro in oro, essendo stata l'ultima moneta a farlo. In questo modo, ha potuto essere finanziato, non solo il potente «complesso militare-industriale» (Eisenhower), ma anche un deficit commerciale in costante crescita, nonostante i bassi tassi di risparmio. Via via, e nella misura, che il potere di acquisto fittizio di concentrava negli Stati Uniti, questi cominciarono ad assorbire il flusso globale di merci. Già negli anni '90, tutte le regioni del mondo avevano un surplus commerciale nei confronti dell'ultima potenza mondiale. Mentre dappertutto i mercati interni si prosciugavano e crescevano le esportazioni, negli Stati Uniti avveniva il contrario. Il consumo era responsabile dell'economia per l'80%, mentre le esportazioni continuavano a calare. L'alluvione di dollari di Greenspan, faceva ora traboccare quello che era il barile di questo «squilibrio» economico.
Lo già sproporzionato circuito del deficit del Pacifico, fra gli Stati Uniti e l'Asia, cominciava a scaldarsi. In un simile contesto, la Cina e l'India diventavano le nuove «stelle della crescita». L'investimento delle imprese occidentali si concentrava soprattutto nelle zone economiche dell'esportazione cinese, per poi, a partire da lì, rifornire il mercato degli Stati Uniti. La combinazione di salari bassi e componenti high-tech importati, aveva generato milioni di posti di lavoro industriali. Per un osservatore superficiale, anche di provenienza marxista, tutto questo era considerato come se fosse una nuova esplosione di produzione di plusvalore sostanziale; il quale si sarebbe solo trasferito dai paesi industrializzati occidentali in Asia. O forse la forza lavoro non si era davvero trasformata in una nuova massa di valore? La produzione dell'industria di esportazione cinese, e quella degli altri paesi dell'Asia, è altrettanto «reale» della produzione dell'industria delle costruzioni, dopo il boom immobiliare. Le sue basi e i suoi presupposti non sono costituite dal potere di acquisto basato sulla creazione di valore reale, ma sul potere di acquisto in quanto sottoprodotto dell'economia delle bolle finanziarie, che ora deve operare principalmente a partire dalla liquidità che viene fornita dalle banche centrali, in maniera sempre più a buon mercato. Ed il cui potere, e la cui competenza, di creare denaro è puramente formale; solo la creazione sostanziale di valore, nella produzione di merci, può essere espressa sotto forma di denaro. Pertanto, la recente inondazione di denaro è irregolare, e rafforza soltanto il riciclaggio di «capitale fittizio» a partire da una domanda solo apparentemente reale. L'economia mondiale, in tal modo alimentata, ha i piedi di argilla e non può essere auto-sostenibile.
Quando,a partire dal 2005, il circuito del deficit del Pacifico cominciò a trascinare con sé l'economia europea si sperava che questo glorioso recupero arrivasse fin dentro al XXI secolo. Anche l'industria di esportazione tedesca cavalcava quest'onda; dall'industria automobilistica con le sue boriose automobili di lusso agognate da tutti i nuovi ricchi, fino alla costruzione di macchinari, che aveva guadagnato una montagna di denaro con la fornitura di componenti di produzione per l'Asia e per altri paladini dell'esportazione. Che tutto questo fosse solo una meteora passeggera lo si sarebbe potuto leggere a partire da alcuni fenomeni, Lo «squilibrio» delle esportazioni unilaterali si rifletteva sui crediti asiatici in dollari, che avevano un ordine di grandezza astronomica e che venivano gestiti per mezzo di fondi sovrani. Questa massa monetaria - che è una bolla finanziaria sui generis - dev'essere in qualche modo scaricata. Allo stesso tempo, al culmine dell'economia di deficit, ecco che tornava lo spettro dell'inflazione, che si presumeva fosse stato bandito. Negli Stati Uniti e nell'Unione Europea, i tassi di inflazione salivano molto al di sopra di quelli che erano i limiti stabiliti; in Cina, in altri paesi asiatici ed in Europa orientale, si registrava una crescita a due cifre. A livello sociale, la divisione della società aumentava ulteriormente. Le restrizioni dovute all'amministrazione della povertà crescevano dappertutto, soprattutto in Germania, dove si aggravavano a causa della Hartz IV. Mentre, dopo qualche tempo, tutta la ripresa regolare arrivava a raggiungere anche gli strati inferiori, la nuova economia del deficit non riusciva a raggiungere la maggioranza della popolazione. Se ne accorgeva solo una «aristocrazia operaia» minoritaria legata in qualche modo al settore delle esportazioni. La tanto acclamata riduzione della disoccupazione si rifletteva principalmente su un'espansione forzata dell'occupazione precarizzata a basso salario, o fatta di lavoro temporaneo in subappalto e malpagato. Non stupisce che il mercato interno continuasse a rimanere a secco come prima.
Le banche centrali, inclusa quella degli Stati Uniti, reagirono al ritorno dell'inflazione con un aumento graduale dei tassi di interesse. Ma questo non poté poi essere invertito nel momento in cui riprese a fiorire quell'economia che era stata prematuramente proclamata auto-sostenibile. Il fatto che le condizioni fossero diverse, apparve ben presto evidente a partire dalle conseguenze impreviste. Il moderato aumento del tasso di interesse, revisionato dalle banche commerciali, nel giro di due anni fece scoppiare la bolla immobiliare. Già nel 2006, il boom immobiliare degli Stati Uniti si era ridotto. Sempre più proprietari non erano più in grado di pagare gli interessi ipotecari. Nell'autunno del 2008, a partire dalla sempre più crescente valanga di fallimenti, si sviluppò una crisi finanziaria globale, che in poche settimane si rivelò come la più grande di tutti i tempi. Attraverso la cosiddetta cartolarizzazione, i mutui ipotecari che andavano a male, i quali avevano costituito fin dall'inizio il nocciolo della questione, erano stati impacchettati nei cosiddetti pacchetti di derivati finanziari, che i banchieri stessi che li avevano emessi ammettevano che non erano percepibili. Questi pacchetti erano sparsi in tutto il mondo, dove nutrivano promesse di rendimento irrealistiche. Solo quando collassò Lehman Brothers, una delle maggiori banche di investimento degli Stati Uniti, divenne chiara a tutti qual era la vera dimensione del disastro. Le ondate della crisi si sono propagate ed hanno investito dall'Islanda al Kazakistan, fino ad arrivare negli angoli più remoti del sistema finanziario globale.
In passato, a partire dalla deregolamentazione neoliberista, un gran numero di crisi finanziarie e di crolli in Borsa hanno sempre accompagnato l'economia del deficit globale; ma si sono limitati a regioni o a settori specifici del mondo, che in ogni caso avrebbero potuto nuovamente essere controllati, sebbene con molto difficoltà. Ma ora il problema ha assunto una nuova dimensione, che va molto al di là del crollo dei Dotocom avvenuto nel 2001 e di quelli che sono stati i suoi effetti. La crisi dei mutui ipotecari non può più essere limitata ad un settore, ma è diventata il catalizzatore del «collasso» del sistema globale del credito. La montagna di debiti accumulatisi nel corso dei decenni sta cominciando inesorabilmente a franare, a causa della sua interconnessione globale con il capitale finanziario privo di sostanza. Non è a caso che il termine «crisi finanziaria» sia stata votata come «Parola dell'anno 2008». Ma non rimarrà come se fosse la solita parola di un anno, di cui poi ci si dimentica rapidamente.
Le relazioni fin qui delineate, la cui analisi continua sulla linea di argomentazione del Libro Nero, a quanto pare non sono state percepite né dai media né dalle élite politico-economiche e scientifiche, oppure sono state completamente rimosse. Non si potrebbero spiegare diversamente i giudizi grossolanamente errati, come quelli espressi subito dopo il «Lunedì nero» dell'ottobre del 2008. Anche se le banche degli Stati federali tedeschi e le banche parastatali del PMI si trovavano già in difficoltà, la cancelliera tedesca Merkel ed il suo ministro delle finanze Steinbrück continuavano ad immaginare che il problema si trovasse al di là dell'Atlantico, per cui le cose sarebbero state ancora «ben posizionate». Ma furono costretti a rettificare rapidamente. Tuttavia, era diventato ormai chiaro che un'inondazione di denaro, da parte delle banche centrali, come quella avvenuta nel 2001, oramai non sarebbe stata sufficiente. Per questo, era già tardi. Ragion per cui, al di là del fatto che il monetarismo era caduto nel peccato, lo Stato doveva entrare in azione, in quanto «ultima istanza» del capitalismo, nella sua forma di creazione monetaria espansionistica, attraverso le banche centrali. L'economia delle bolle finanziarie si stava alla fine spostando dai mercati finanziari deregolamentati, ritornando al credito statale. Dal giorno alla notte, il neoliberismo era diventato spazzatura ideologica.
Alla fine del 2008, negli Stati Uniti, i pacchetti di salvataggio pubblico del sistema bancario in crisi erano arrivati ad ammontare a 9mila miliardi di dollari, e nei paesi centrali dell'Unione Europea equivalevano a 2,2mila miliardi di dollari. Operazioni di salvataggio simili erano cominciate anche in altri paesi. Questi pacchetti erano strutturati come garanzie per i prestiti bancari ai privati, come prestiti pubblici fatti direttamente alle banche e alle compagnie di assicurazione, così come nazionalizzazioni parziali di banche attraverso l'acquisto di crediti inesigibili e di titoli finanziari svalutati. E tuttavia, ci si aspetta che queste somme inimmaginabili non verranno richieste, poiché la garanzia statale nominale creerà così tanta «fiducia» da fare in modo che le «normali» transazioni finanziarie torneranno da sé sole a rimettersi in pista, e i prezzi dei titoli torneranno di nuovo a salire e così le banche potranno pagare con gli interessi il credito pubblico quando verrà richiesto. Ma tutto ciò è completamente irrealistico, dal momento che i pacchetti di salvataggio non aggiungono alcun valore reale addizionale, la cui mancanza è stata, di fatto, la causa oggettiva della crisi finanziaria. Il gatto si morde la coda: lo Stato dovrebbe chiedere al proprio sistema finanziario degli enormi prestiti, e riempire in questa maniera quelli che sono i suoi enormi buchi nel bilancio. Un simile tentativo di quadrature del cerchio può sfociare solo nel collasso delle finanze pubbliche; e questo proprio nella misura in cui le cifre dei pacchetti di salvataggio scadranno realmente.
Il vero problema di fondo della mancanza di produzione reale di plusvalore, nelle condizioni di quelle che sono le nuove forze produttive, è fuori da ogni prospettiva ufficiale. Ragion per cui, si può verificare il ripetuto e grossolano errore di giudizio, secondo il quale la tanto temuta «ripercussione» della crisi finanziaria su un'economia falsamente in espansione sarà lieve. Ma questa economia ha appena fino di essere stata alimentata dal riciclaggio di «capitale fittizio» alla ricerca di «economia reale», che così assumerà essa stessa un carattere virtuale. Insieme all'accumulazione simulata di capitale, anche il meccanismo di potere di acquisto simulato si paralizza. Il portafogli di ordinazioni industriali sta scomparendo ad un ritmo mozzafiato, a partire dall'industria automobilisti e dai suoi fornitori, passando per l'industria metallurgica, fino alla costruzione di macchine e servizi secondari. La speranza nella Cina e nell'India, viste come locomotiva sostitutive dell'economia globale, è anch'essa illusoria. Gli investimenti di capitale nelle fasce di quelle zone di esportazione erano dipendenti ed integrate nel circuito del deficit insieme agli Stati Uniti. La crescita asiatica, trainata dall'esportazione unilaterale, si riduce drasticamente nel dicembre del 2008, e ci consegna un'idea di distorsione che nega qualsivoglia ambizione di «potenza mondiale». L'imminente crisi economica, la maggiore dopo quella degli anni '30, minaccia di svalorizzare gli attivi in dollari dei fondi sovrani, fino a ridurli a valori ridicoli.
Nell'«economia reale», che ormai non è più così tanto reale, viene distruttivamente messa in atto la medesima catena di interconnessione del sistema finanziario. Anche qui la coscienza capitalistica invoca lo Stato come un «deus ex machina». Oltre ai pacchetti di salvataggio per il settore finanziario, vengono lanciati dei pacchetti di stimolo economico di grandezza simile. Mentre negli Stati Uniti l'amministrazione del neo-eletto Obama annuncia, in tutta tranquillità, un programma di investimenti statali di oltre mille miliardi di dollari, nello stesso momento in cui si stanno contrattando nuovi pacchetti di salvataggio per l'industria automobilistica statunitense in bancarotta, e mentre il presidente francese Sarkozy parla di una nazionalizzazione di quelle che sono le industrie chiave, intanto il governo federale tedesco ancora esita, e continua a raccontare favole a proposito del risanamento delle finanze pubbliche. Ma l'industria automobilistica tedesca e le sue banche di leasing sta già annunciando le medesime richieste di salvataggio.
Non c'era mai stato così tanto «salvataggio». Quello che continua a rimanere poco chiaro, è da dove deve provenire il denaro per tutto questo. Sebbene l'inflazione all'inizio sia stata ritardata dal collasso dell'economia globale, questa rimane solo una piccola consolazione. Perfino il credito pubblico stesso, che viene scaricato nel buco nero dei bilanci delle banche, non riesce ad apparire come se si trattasse di una domanda inflazionistica fittizia, sebbene il suo finanziamento sia alle stesse. Ma si tratta, fondamentalmente e conseguentemente, del collasso del potere di acquisto globale. È questo il dilemma capitalistico di base. I tagli fiscali, come quelli attuati nel Regno Unito, portano all'assurdo, nella misura in cui la crisi economica globale in corso può, simultaneamente, rendere rapidamente inutili le ricette fiscali come base per il credito statale. Se lo Stato, come «ultima istanza», pretende di far rialzare la domanda moribonda, deve mettere in funzione l'emissione monetaria, contro ogni intenzione. Il «lancio di denaro dall'elicottero» non viene più filtrato dalle istituzioni del capitale finanziario, ma sono le banche centrali che devono trasferire allo Stato quello che è denaro formale creato direttamente a partire dal niente.
Il dibattito tedesco a proposito dei «buoni di consumo» da 500 euro per ciascun cittadino adulto, serve a dare l'idea di dove stiamo andando. Gli ostinati economisti di mercato non sanno quel che dicono quando affermano, a ragione, che queste misure non portano a niente. Se le consideriamo a lungo termine, finiranno per innescare l'iper-inflazione. E quest'ultima è solo un'altra forma della «svalorizzazione del valore», così come lo è la svalorizzazione della forza lavoro superflua, o quella della «sovraccapacità» industriale. Tuttavia, l'alternativa compatibile con il sistema potrebbe essere solo quella di negare il capitalismo in quanto relazione sociale, in maniera tale che la maggioranza dell'umanità dovrebbe morire di fame per mancanza di «capacità di finanziamento». Ma una tale opzione, la quale si nasconde nel criterio della «finanziabilità regolare», è impossibile, e non solo per ragioni di legittimità. Il capitalismo rimane dipendente da un «lavoro sociale totale» (Marx) interconnesso, che supporta la sua accumulazione. È infatti prevedibile che l'amministrazione statale di crisi dia espressione alla contraddizione, spingendola fino alla sue estreme conseguenze, e pretenda perciò di imporre al materiale umano diventato inutilizzabile delle razioni di fame che saranno sempre più ridotte, anche al costo di sanguinose rivolte. Ma questo non è in grado di risolvere l'auto-contraddizione economica del capitale. La logica del paradosso reale della «valorizzazione del valore» si estingue a causa del suo limite interno, che nessuno vuole ammettere.
Quando nel 2009 si manifesta la crisi storica del capitale mondiale, il ventesimo anniversario del collasso del socialismo reale oramai non interessa più a nessuno. La fine del capitalismo di Stato dell'Est è stata solo una tappa nella crisi del mercato mondiale. Il secondo fine di un'epoca non ne nega il primo, ma ne costituisce la sua continuazione; il Libro Nero è apparso esattamente in quello che è stato il punto più alto delle due cesure storiche. L'euforia per la vittoria, da parte degli ideologhi occidentali, è stata vittima di un'illusione ottica. Quello che costituiva il problema non era la modulazione realizzata dalla burocrazia dello Stato della socializzazione capitalista, ma proprio il contesto formale di base di questa socializzazione, che esisteva anche all'Est. Involontariamente, il capitalismo di mercato, «liberale», era arrivato dove presumeva che si trovasse la sua presunta controparte. Quando si parla di «comunismo di Wall Street» o di «socialismo del mercato finanziario», questo indica l'illusione dello Stato capitalista, del quale è caduta vittima anche la sinistra tradizionale. Ma lo Stato può solo aumentare le contraddizioni immanenti del capitalismo, portandole a quello che è un livello più generale del sistema monetario, senza riuscire realmente a risolverle. Retrocedendo nuovamente al credito statale, il capitale mondiale si viene a trovare improvvisamente in una posizione simile ad una burocrazia tipo quella di un capitalismo di Stato, come quella che, nel 1989 nella RDT, ed in Unione Sovietica nel 1991, era diventata insolvente. Ma, a differenza di quel blocco di una regione mondiale, il capitalismo occidentale «autentico» non ha potuto dissolversi in un ordine superiore del sistema mondiale produttore di merci, in quanto è proprio questo che esso è.
Nei primi fuochi della grande crisi economica globale iniziata alla fine del 2008, a dominare sono ancora quelle illusioni ideologiche che pretendono di screditare e disprezzare quello che è il carattere storico del limita interno della socializzazione capitalista. Improvvisamente, l'ex-«mago» Alan Greenspan diventa un capro espiatorio. In un'inversione fra causa ed effetto, la deregolamentazione neoliberista, da un lato, e l'eccesso di dollari della Fed, dall'altro, vengono accusati di essere responsabili dell'irruzione della crisi. Grottescamente, quest'argomentazione è del tutto incoerente, poiché, con la critica dell'apertura delle chiuse del denaro, a prendere nuovamente la parola è ancora una volta la «coscienza» neoliberista dottrinaria, mentre viene contraddetta da vent'anni di critica della politica di deregolamentazione. In realtà, il problema non risiede nella forma politica della regolamentazione, ma nella mancanza di quella che è la sostanza della valorizzazione. Se non ci fosse stata la disinibizione dei mercati finanziari, la crescita «spinta e guidata dalla finanza» sarebbe stata impossibile fin dall'inizio; e se Greenspan non avesse desistito dal monetarismo, il collasso si sarebbe verificato alcuni anni prima. Nella loro disperazione, le banche centrali stanno facendo esattamente quello che allo stesso tempo viene rimproverato a Greenspan.
Dato che non è cambiato niente in quelle che sono le condizioni della valorizzazione, in seguito alla Terza Rivoluzione Industriale tutte le previsioni degli istituti economici a proposito di una «ripresa», dopo un paio di anni di depressione economica, mancavano di qualsiasi fondamento. In assenza di percezione dell'auto-contraddizione interna del capitale, tali considerazioni si nutrono unicamente di un vago orizzonte di aspettative economiche. Ma oramai non ci troviamo più davanti ad un ciclo economico classico, che ora dovrebbe essere nuovamente amministrato, con l'aiuto di un esagerato intervento statale keynesiano. Il fatto che lo Stato non posso più sistemare le cose, è reso evidente dall'abbandono degli obiettivi, di per sé modesti, di limitare l'emissione di inquinanti in nome dei posti di lavoro che, tuttavia, continuano a scomparire. Perfino alla Merkel, eletta nel 2007 «cancelliere del clima», ormai non si cura troppo delle buone intenzioni ecologiche. Lo Stato è solo l'organismo aggregante del «lavoro astratto» e della produzione di plusvalore; non può più sfuggire alla logica delle sue premesse. Se deve fallire di fronte alla crisi economica, nel trattare con il limite esterno della natura, lo stesso vale anche per il limite interno dell'economia. Inoltre, la globalizzazione dell'economia imprenditoriale e la costituzione di un capitale mondiale nell'era della Terza Rivoluzione Industriale e dell'economia delle bolle finanziarie, ormai hanno rotto da tempo il quadro formale della regolamentazione statale. Gli apprendisti stregoni della moderna economia voodoo sono arrivati alla frutta, dal momento che. sotto condizioni capitaliste, non ci può più essere alcuna istituzione aggregante a livello mondiale.
La storia del capitalismo è stata la storia della cosiddetta modernizzazione, il cui contenuto è consistito nel predisporre il mondo per i criteri capitalistici, sottomettendolo alla cieca dinamica di uno sviluppo delle forze produttive guidato dalla concorrenza. Lo scomparso «socialismo reale», conosciuto anche come capitalismo di Stato, non ha fatto eccezione. Il suo modo di regolamentazione, specificamente burocratico, basato sulle medesime categorie economiche, era dovuto solamente al problema della «modernizzazione in ritardo», alla periferia del mercato mondiale. Il punto di vista del «conflitto sistemico», che era solo superficiale, è diventato storicamente irrilevante. La fine della «modernizzazione arretrata» è stata solo l'anticipazione della fine della storia della modernizzazione in sé. L'industrializzazione dell'esportazione cinese ormai non ha alcuna base economica nazionale, né prospettiva di sviluppo; si è trattato dell'amalgama dei resti della burocrazia di Stato insieme ad elementi di un brutale capitalismo neoliberista fatto di salari bassi e di minoranza, con l'aiuto di investimenti occidentali, quello che oggi può commemorare il suo successo di breve durata, avvenuto nel fragile contesto dell'economia globale delle bolle finanziarie.
In realtà, il collasso dell'economia del deficit colpisce maggiormente gli stretti segmenti di esportazione dei cosiddetti paesi emergenti; probabilmente con una forza simile a quella che colpisce la società nella Repubblica Federale Tedesca, che fra tutti gli Stati capitalisti è la più unilateralmente orientata all'esportazione. La Cina non può trasformarsi in una «nazione democratica del mercato mondiale», come sperano in molti, poiché le condizioni per farlo stanno scomparendo storicamente; e non esiste la possibilità di tornare al capitalismo di Stato nazionale, il quale era legato al paradigma della «modernizzazione arretrata» di quella che era un'epoca passata.
Non è il «salvataggio» di quel che è insalvabile a diventare inflazionistico, ma la «fine» delle concezioni della storia della modernizzazione. Questo vale anche per il cosiddetto postmodernismo, il cui nome è sempre stato un'etichetta fraudolenta. Il corrispondente modello di pensiero filosofico, estetico e politico, nel mondo accademico e nei movimenti sociali che hanno più simboleggiato la gioventù della classe media, non ha mai abbandonato i fondamenti del sistema politico-economico della modernità, ma lo ha solo nascosto e rimosso. La critica dell'economia politica ha smesso di essere il tema. L'oggettività fortemente negativa delle categorie economiche è stata ridefinita per mezzo di un'«apertura» soggettiva a qualsiasi cosa. «Anything goes» è stata la parola d'ordine. La storia doveva essere virtualmente disponibile. La verità era considerata «producibile» e «negoziabile», come se essa non avesse nelle circostanze una base non negoziabile.
In generale, l'ideologia della «virtualità» (anche in relazione ad una «second life» virtuale su Internet), della «contingenza» e dell'«ambivalenza» ha guadagnato una posizione egemonica. L'«apparenza reale» feticistica del moderno sistema produttore di merci si è trasformata in realtà veramente «immateriale», ivi incluso anche il «lavoro immateriale» del bestseller di Antonio Negri. La base economica era la sfera della circolazione dell'eterna compravendita, mentre il problema della sostanza del «lavoro astratto» appariva obsoleto, solo nel senso che ormai non aveva più senso, nelle relazioni ancora capitaliste. Generalmente, il concetto di «sostanza» soccombeva al verdetto secondo cui era un concetto metafisico superato. Ma questo «anti-sostanzialismo», o «anti-essenzialismo», non vedeva quello che era il carattere realmente metafisico dell'economia del fine in sé capitalista, che è basata sul costante aumento della valorizzazione del lavoro, in quanto base della «crescita» necessaria al sistema, dal quale non si può emancipare. Nel bazar universale del mercato mondiale, questo non è un problema negoziabile.
La base sociale non era formata solo dagli speculatori occasionali e dai piccoli re del debito, ma anche dei downloader, nei rampolli della classe media, senza prospettive ma con ambizioni illusorie, e negli speranzosi eredi delle attività finanziarie fordiste, che stanno ora evaporandosi.
Il pensiero postmoderno, diventato riconoscibile come l'ovvio prodotto del capitalismo virtuale delle bolle finanziarie, già criticato nel prologo al Libro Nero, si vergogna di sé stesso nella dura realtà della crisi, che ora ormai non può più essere rimossa attraverso un qualsiasi ottimismo mediatico professionale. Anche il corrispondente concetto sociologico di «modernizzazione riflessiva» (Ulrich Beck) ha superato la data di scadenza della sua validità, perdendo i suoi presupposti insieme alla caduta dello stato sociale. Il postmodernismo finisce per essere una sorta di pagliacciata o farsa, alla fine della storia della modernizzazione, anziché il suo superamento.
Se la crisi del capitale mondiale non è un fenomeno congiunturale, ma la nuova fine di un'epoca che avviene ad un livello superiore, allora in gioco c'è assai più che i posti di lavoro e il reddito monetario. I limiti del moderno sistema produttore di merci sono anche i limiti della sua ragione, la quale dev'essere storicizzata. Non esiste una ragione trans-storica che affermi il capitalismo. Ogni formazione storica costituisce la sua forma specifica di ragione, che non è altro che una sintesi della percezione del mondo e della relazione con il mondo, basata sul rispettivo modo di riproduzione. La ragione dell'Illuminismo, di cui vive il pensiero moderno e a partire dalla quale è nato il moderno sistema scientifico, costituisce (insieme ai precursori nel protestantesimo e alla filosofia dell'inizio della modernità) quella griglia di base di riflessione e di azione nel mondo, che corrisponde, tanto ontologicamente quanto epistemologicamente ed eticamente, al contesto formale dell'imperativo della valorizzazione capitalistica. Questa ragione sintetizzatrice, in quanto «denaro dello spirito», è diventata storicamente e disperatamente obsoleta, non essendo più in grado di controllare le proprie produzioni.
Non si tratta del fatto di essere solamente un aspetto secondario di questa ragione storicamente limitata che contiene, in maniera diversa dai suoi predecessori patriarcali, una forma specificamente «maschile» di pensiero e di azione. Le categorie politico-economiche del capitale, apparentemente universali e quindi anche sessualmente neutre, e la razionalità delle attività scientifiche ad esse correlate rappresentano, in realtà, solo un «universalismo androcentrico». L'universalità del «lavoro astratto», determinata fin dall'inizio come maschile, e la corrispondente ragione storica, che attraversa tutte le sfere sociali, sono socialmente associate al fatto che oggi sono state finora attribuite alle donne posizioni subalterne, a tutti i livelli di economia, politica, scienza e cultura, e non solo in questi. Allo stesso tempo, sono state delegate alla parte femminile della società quei momenti della riproduzione sociale che non possono essere assorbiti nella logica del «lavoro astratto» e della produzione di plusvalore (attività familiare oppure «lavoro domestico», educazione dei figli, cura e sostegno, «funzioni materne» in generale, ecc.). Questi momenti sono separati dalla socialità ufficiale, non appaiono nel sistema universalistico delle categorie e vengono considerati inferiori, nella misura in cui non possono essere rappresentati sotto forma di denaro. La «relazione di dissociazione sessuale» (Roswitha Scholz) così costituita, vive, insieme alla dinamica capitalista, una storia nella quale viene sempre riconfigurata, senza essere superata nella sua essenza.
Mentre, nei brevi tempi di prosperità postbellica e di credito pubblico in espansione, alcuni di questi campi sociali sono stati trasformati in istituzioni pubbliche del lavoro sociale, di cura e di assistenza, che anche allora venivano occupati in maniera sproporzionata da donne, il capitalismo neoliberista delle bolle finanziarie ha ridotto e smantellato tali settori, in quanto pesanti fattori di costo. Il keynesismo di crisi del capitale finanziario non può ricominciare nuovamente in questo senso, solo perché lo Stato impugna nuovamente lo scettro. Al contrario, sono proprio le istituzioni sociali «deboli» che corrono il rischio di essere completamente svuotate. Anche se le donne hanno raggiunto il livello di istruzione degli uomini, la crisi svalorizza assai rapidamente le loro qualifiche specifiche, nel contesto di uno stato sociale in disintegrazione, rimuovendole dalle funzioni pubbliche retribuite, per tornare a delegare loro la così tanto elogiata «maternità gratuita».
La forza lavoro femminile si trova con le spalle al muro in un modo del tutto nuovo, non solo perché dovrebbe «tornare in cucina», ma anche (soprattutto nel caso delle famiglie monoparentali) perché deve fare la «guadagnatrice di denaro» nel settore dei salari bassi, per non sovraccaricare l'amministrazione della povertà. Dato che la crisi epocale del «lavoro astratto» è anche la crisi della maschilità moderna, ecco che tornano in tutto il mondo, in forma modificata, modelli di comportamento patriarcali militanti, rispetto alle quali anche molte donne si fanno carico di dare appoggio, anche se il doppio ruolo che si pretende da loro possa essere difficilmente praticabile. L'agonia dell'universalismo androcentrico della razza borghese è, non solo dal punto di vista sessuale, assai più che un problema nell'aria rarefatta delle altezze del pensiero filosofico e scientifico. Secondo Marx, si tratta di «forme oggettive di esistenza», cui corrispondono «forme oggettive di pensiero», che sono state internalizzate in un processo storico di addomesticazione capitalistica del «materiale umano», e che, senza riflessione teorica, determinano la coscienza quotidiana. Pertanto, non può esserci emancipazione sociale spontanea dalle imposizioni assurde. Il limite interno delle forme dominanti di esistenza, viene innanzitutto elaborato in quelle che sono le forme corrispondenti di pensiero sociale. Di questo si alimentano sia le illusorie concezioni di soluzione che vanno per la maggiore, che le proiezioni ideologiche di esclusione e di ricerca di capri espiatori. Quanto più drammaticamente si acuisce la situazione economica mondiale, tanto più, nella concorrenza di crisi, viene furiosamente saccheggiato il distruttivo serbatoio ideologico della storia della modernizzazione; a partire dai modelli di interpretazione sessista, se non nazionalista, razzista e antisemita. E non da ultimo, il «centro decente» dimentica ogni superficiale postulato sulla tolleranza, nel momento in cui è esso stesso a non avere più fiato.
Perciò, il Libro Nero si chiude in maniera un po' elegiaca, dal momento che non si vede nessuna forza sociale dalla quale ci si possa aspettare un'emancipazione sociale delle relazioni di cui stiamo parlando. Dieci anni dopo, non è cambiato niente. Tuttavia, il messaggio principale è quello che il capitalismo ha un potere oggettivo di autodistruzione, che si realizzerà se nessuno vorrà farla finita con esso. Ecco quale dovrebbe essere lo scandalo, per un pensiero «critico del capitalismo» che ha sempre preteso di comprovare la continua capacità di rigenerazione del sistema sociale nemico, nella misura in cui non emerge un soggetto di volontà che uccida il drago. È questa la convinzione alla base di una critica sociale che è legata alla storia della modernizzazione, e che non comprende bene né sé stessa né il suo oggetto. Crede nella vita eterna del capitalismo, soprattutto perché si trova essa stessa intrappolata in quelle che sono le categorie politico-economiche del capitalismo e la sua ragione storicamente limitata. La sinistra finora esistente è impotente, quanto lo sono le élite capitaliste, riguardo il limite interno della macchina della valorizzazione. Se nel 1999, la grande crisi del sistema mondiale appariva ancora lontana, ora è diventata empiricamente palpabile. Le somme quantificabili in migliaia di miliardi di aiuti di Stato non sono più in grado di assorbire la depressione globale, a causa dell'effetto ritardato di questa. Di fatto, è del tutto possibile che, dopo una forte recessione, la massa di denaro formale creato dal nulla potrebbe innescare un'economia apparente, riscaldata per mezzo dell'inflazione. Ma la crescita fittizia, che nel prossimo futuro si troverà associata ad un'ancora più rapida svalorizzazione del denaro, non durerà più di un decennio. Sarà certamente necessario un lungo e doloroso processo per riuscire ad abbandonare le «forme oggettive di pensiero» del moderno patriarcato produttore di merce, ed arrivare ad una ragione differente da questa. Se si vuole contenere la catastrofe sociale, una nuova fine di un'epoca richiede allora misure pratiche a breve termine, che devono andare contro la razionalità capitalistica. Se la General Motors può diventare insolvente, questo avviene anche grazie alle grandi imprese di trasporti e alle catene di vendita di generi alimentari. Non è più impensabile che, perfino nei grandi centri, le persone possano trovarsi di fronte gli scaffali dei supermercati vuoti. A causa di mancanza di «sostenibilità finanziaria», potrebbe venire cancellata anche l'assistenza sanitaria, potrebbero venire chiuse luce e acqua, potrebbero essere chiusi gli alloggi a milioni di persone, nonostante il fatto che continuerebbero ad essere disponibili tutte le risorse materiali. Se l'umanità capitalista non vuole condannare sé stessa al destino di Tantalo - a soffrire eternamente fame e sete mentre continua a vedere abbondanti alimenti e bevande che si ritirano per magia dalla loro portata - deve dare inizio ad una trasformazione che liberi la ricchezza concreta dalla sua forma astratta.
- Robert Kurz - Introduzione alla nuova edizione del 2009 del “Libro Nero del Capitalismo”-
fonte: EXIT!
1 commento:
Non vedo l'ora che esca l'edizione italiana di questo interessante libro. Sembrerebbe imminente.
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