Jonathan Israel, uno dei maggiori storici mondiali dell'Illuminismo, ci spiega come le idee radicali dei fondatori americani come Paine, Jefferson, Franklin, Madison e Monroe abbiano impostato il modello per le rivoluzioni democratiche, i movimenti e le costituzioni in Francia, Gran Bretagna, Irlanda, Paesi Bassi, Belgio, Polonia, Grecia, Canada, Haiti, Brasile e America spagnola. Perché la Rivoluzione americana fu un evento sorprendentemente radicale, che non si concluse con la trasformazione e l'indipendenza degli Stati Uniti, ma continuò a riverberare in Europa e nelle Americhe per i successivi tre quarti di secolo. Furono proprio le idee dell'Illuminismo radicale - con la distruzione dei tre pilastri della società europea di ancien régime (monarchia, aristocrazia e autorità religiosa) e la promozione del repubblicanesimo democratico, dell'autogoverno e della libertà - a ispirare le rivoluzioni in molte nazioni, dove i vari leader sposarono i valori democratici americani, seguendo esplicitamente l'esempio proposto dal Nuovo Continente. In che modo le idee espresse dalla Rivoluzione americana ispirarono le rivoluzioni in tutta Europa e nel mondo atlantico tra fine Settecento e Ottocento? Un saggio che ricolloca la storia intellettuale della fondazione degli Stati Uniti nel suo contesto globale: il crogiuolo da cui nacque la modernità democratica.
(dal risvolto di copertina di: «Il grande incendio», di Jonathan Israel. Einaudi)
Nella Rivoluzione americana, lo scontro di due Illuminismi
- di Tiziano Bonazzi -
Nel 1959 lo storico americano Robert R. Palmer pubblicò un libro divenuto un classico, L’era delle rivoluzioni democratiche, 1760-1800, con il quale voleva dimostrare l’esistenza di una serie di movimenti democratici comuni a Europa e Stati Uniti dei quali le rivoluzioni americana e francese sarebbero stati i capisaldi. Palmer intendeva, così, sottrarre la Rivoluzione americana all’isolamento in cui sia europei che americani l’avevano relegata. Nell’individuare una comune matrice democratica atlantica, il volume aveva risvolti legati alla Guerra fredda; ma l’interpretazione ortodossa della Rivoluzione americana durante la Guerra fredda venne fissata da Hannah Arendt nel suo saggio Sulla rivoluzione, del 1963, in cui Rivoluzione americana e francese venivano rigidamente contrapposte. La prima, definita come esclusivamente politica perché si era compiuta in una società già largamente egualitaria, costituiva il modello di libertà a cui tutto l’Occidente non poteva non rifarsi; la seconda era il prototipo dell’incapacità democratica degli europei, il preludio necessario al totalitarismo novecentesco.
La tesi di Hannah Arendt si fondava sulla storiografia americana degli anni Cinquanta, la cosiddetta «scuola del consenso», che vedeva la società americana da sempre costituita dalla classe media, dove i conflitti sociali europei non avevano mai avuto spazio. Nel suo saggio appena uscito da Einaudi, Il grande incendio Come la Rivoluzione americana conquistò il mondo, 1775-1848 (traduzione di Dario Ferrari e Sarah Malfatti, pp. 880, euro 38,00 ) Jonathan Israel, storico delle idee inglese molto noto, che vive ora negli Stati Uniti, riprende la tesi di Palmer e controbatte quella di Arendt riconducendo la Rivoluzione americana al contesto europeo e dimostrando l’importanza che ebbe sia per i radicali europei che per quelli latinoamericani, fino al 1848. Del tutto necessaria, l’opera di Israel incoraggia una revisione in chiave non più ideologica e novecentesca della storia politica statunitense.
L’esempio dei radicali
Le sue tesi sull’Illuminismo e sulla Rivoluzione francese sono state molto discusse, e in particolare lo è la sua teorizzazione del dualismo fra l’Illuminismo moderato e quello da lui difeso, l’Illuminismo radicale, che proclamava l’universalità dei diritti e la necessità di garantirli ai gruppi esclusi, neri, donne, ebrei, istituendo una netta separazione fra stato e chiesa e battendosi per un effettivo pluralismo.
Priestley, Price, Paine, Condorcet, Volney, Raynal, Jefferson, Franklin, Filangieri sono alcuni degli autori che Israel elenca fra i radicali, per contrapporli ai moderati che si rifacevano al governo misto inglese, a Locke, a Montesquieu e a una visione ristretta della rappresentanza. In America John Adams e Hamilton ne furono i principali rappresentanti. Per Israel, entrambi gli Illuminismi nutrirono la Rivoluzione americana e vi si scontrarono non solo idealmente, ma politicamente. Ci fu, quindi, una rivoluzione radicale che ebbe nella Dichiarazione di indipendenza il suo manifesto e che si realizzò, ad esempio, in alcune costituzioni statali, dalla Pennsylvania al Vermont.
La versione moderata, invece – che si impose negli Stati dove le élite erano più forti, come nella Carolina del Sud dominata dai piantatori di tabacco, per poi trovar spazio nella Costituzione del 1787 – pur partendo dagli stessi principi li interpretò in senso restrittivo, per esempio nella difesa pragmatica o di principio della schiavitù. Tuttavia, la Rivoluzione americana, in quanto tale, ispirò ovunque gli oppositori dell’ancien régime anche se per Israel – che su questo punto non è del tutto chiaro – fu quella radicale a servire da esempio. Così avvenne per i Girondini e Condorcet in Francia, per i rivoluzionari dell’America Latina che esplicitamente vi trovarono il modello a cui rifarsi, nonché per gli oppositori della Restaurazione in Germania, in Francia e altrove in Europa, compresa l’Italia.
Il grande affresco tracciato da Israel consente, quindi, di riportare la storia politica della Rivoluzione e della prima fase di vita degli Stati Uniti a un comune contesto euroamericano, che si consumò nel 1848 quando la reazione anti-immigrati e il nazionalismo espansionista presero il sopravvento oltreatlantico, trovando nella guerra di conquista contro il Messico del 1848-49 il momento culminante. In Europa, invece, non solo fallirono le rivoluzioni liberali che in molti casi avevano la Rivoluzione americana e l’Illuminismo radicale come esempi, ma nazionalismo e socialismo sostituirono il richiamo a entrambi.
Per quanto essenziale per una rinnovata analisi dei decenni fra Sette e Ottocento, la massiccia monografia di Israel non può costituire l’unico punto di riferimento. Come anche altri storici del pensiero politico, infatti, Israel ritiene che il pensiero politico sia un sistema di idee dotato di un’autonoma dinamica intellettuale, in gran parte slegata dai movimenti e dagli eventi sociali, che a suo avviso non riescono ad andare oltre il ribellismo e rimandano alle élite intellettuali il compito di dare loro forma e obiettivi. È vero che per Israel lo scontro di idee e la lotta politica e sociale si svolgono contemporaneamente; ma fra essi esiste una gerarchia indiscutibile.
Leggere anche Alan Taylor
Delicato e ampiamente discusso, questo problema non trova tuttavia una soluzione nella prospettiva proposta dallo storico inglese, dalla quale si deduce che tolleranza e secolarizzazione, eventi sociopolitici centrali durante la rivoluzione in New England, Pennsylvania e Virginia, sarebbero il prodotto della filosofia illuminista senza alcun concreto riferimento al contesto in cui si manifestarono. Anche la separazione tra Illuminismo radicale e moderato sembra proporre una battaglia di ideali difficile da capire se riferita a una società americana, in realtà culturalmente assai più complessa. Così come non si comprendono bene le conseguenze concrete di quel dualismo, dal momento che Israel non è interessato alla lotta politica né alle istituzioni, non dedica attenzione al processo costituzionale e non cerca di comprendere i problemi concreti che gli alfieri dei suoi due Illuminismi hanno affrontato, quando crearono dal nulla uno stato capace di difendere la propria sovranità in un mondo atlantico in cui infuriavano i conflitti fra gli imperi.
E, per ultimo, nel criticare la solo parziale separazione di stato e chiesa negli Stati Uniti, Israel trascura di considerare come i principali Padri Fondatori, deisti, abbiano dovuto agire in un contesto in cui le forze popolari erano politicamente decisive e profondamente protestanti. Se, dunque, il saggio di Israel funziona come un ottimo punto di partenza per smettere di vedere negli Stati Uniti un elemento estraneo alla storia dell’Europa fino a quando, nel Novecento, gli europei vi arrivarono da dominatori, occorrerebbe quanto meno bilanciarlo con lo studio di Alan Taylor, Rivoluzioni americane. Una storia continentale (anch’esso pubblicato da Einaudi), tutto centrato sullo scontro sociale che animò l’intera Rivoluzione americana.
- Tiziano Bonazzi - Pubblicato sul Manifesto del 2/12/2018 -
Illuminismo ultrà
- America (1775-1848) La rivoluzione diventa globale -
di Massimiliano Panarari
La Rivoluzione americana, svoltasi prima di quella francese, tra il 1774 e l’83, ha rappresentato non soltanto la «nascita di una nazione», ma un evento di portata autenticamente globale. E un «innesco» fondamentale nell’ambito della diffusione della modernità democratica.
C’è un ritorno di interesse sul tema, testimoniato da volumi come Rivoluzioni americane (Einaudi, pp. 640, € 34) in cui Alan Taylor, «Thomas Jefferson Professor» di Storia all’Università della Virginia, legge la fondazione degli Stati Uniti in modo innovativo sotto il profilo dell’assetto geopolitico e delle relazioni internazionali dell’epoca. Uno dei maggiori storici di questi nostri anni, Jonathan Israel (professore di Storia Moderna all’Institute for Advanced Study dell’Università di Princeton), nel suo ultimo, monumentale, libro Il grande incendio. Come la Rivoluzione americana conquistò il mondo, 1775-1848 (Einaudi, pp. 880, € 38; trad. di Dario Ferrari e Sarah Malfatti), si propone di mostrare come l’universo politico-culturale atlantico sia stato definito in maniera fondativa dall’insurrezione repubblicana delle Tredici colonie contro l’impero di Sua maestà britannica. Leggendola come una pagina fondamentale, culturalmente influenzata in modo molto significativo dal minoritario ma dirompente «Illuminismo radicale», la categoria più nota elaborata nei suoi lavori da Israel, ovvero il filone intellettuale che dallo spinozismo, passando per il libertinismo e i free thinkers, trovò il suo approdo nella componente non moderata (quella panteista, atea, repubblicana e, spesso, appartenente alla massoneria) della cultura illuministica.
Israel sviluppa lungo tutto il volume l’esistenza di una demarcazione – e di una dialettica intensa – tra un Illuminismo moderato e uno radicale in seno alla Rivoluzione americana, contestando e rivedendo la tesi storiografica ampiamente radicata secondo la quale la sollevazione delle colonie d’Oltreatlantico non mirava all’edificazione di una forma nuova di società. E, invece, argomenta lo studioso analizzando il pensiero e le dottrine filosofiche di vari protagonisti di quella stagione, la tendenza democratica e radicale della Rivoluzione americana si riproponeva precisamente la costruzione di un paradigma innovativo di politica e società, fondato sulla ragione e volto alla massimizzazione della felicità umana – come venne giustappunto percepito con nettezza dall’intellighenzia del Vecchio continente che guardava agli avvenimenti del Nuovo.
La dualità dell’Illuminismo americano ricalca così la doppia anima di quello europeo, e permette di parlare, secondo Israel, di un complessivo Illuminismo transatlantico; e, analogamente, anche le dinamiche e le evoluzioni politiche delle Rivoluzioni americana e francese seguono percorsi simili, unificati dalle idee di Condorcet, Brissot, Mercier e Maby, almeno fino alla fase pre-robespierrista e precedente la presa del potere dei montagnardi nel giugno 1793 (alla cui analisi aveva dedicato un altro volume imponente, La Rivoluzione francese, pubblicato nel 2016 sempre per i tipi di Einaudi).
L’impianto di Israel va dunque in direzione contraria a quanto sostenuto da molta storiografia, ma anche da Hannah Arendt e Gertrude Himmelfarb, secondo le quali tra l’Illuminismo francofono e quello angloamericano sussistevano divergenze e diversità strutturali. L’autore de Il grande incendio formula una tassonomia estensiva dell’Illuminismo radicale a partire dai nuclei fondamentali del repubblicanesimo democratico e del rifiuto dell’autorità religiosa, nel nome della rivolta contro il «sistema misto» che salvava il ruolo della monarchia e il primato del potere nobiliare, e contro quelli che Thomas Paine, il leader rivoluzionario più letto in Europa, etichettava come i «modelli corrotti» di governo, ossia la triade della governance dell’Antico regime (corona, aristocrazia e clero).
L’Illuminismo radicale nella versione di Israel radica tanto il perseguimento della soddisfazione individuale che la strutturazione della sfera pubblica nei valori laici; lo studioso inglese inserisce così in questa categoria tutti gli intellettuali e uomini politici che avevano teorizzato la separazione netta tra Stato e Chiesa, la secolarizzazione del potere pubblico e l’eliminazione della teologia e dei finanziamenti agli istituti religiosi dal campo scolastico ed educativo. Diventano quindi a essa riconducibili non soltanto le figure dei pensatori e attori politici atei e materialisti, ma anche quelli deisti e gli unitariani più radicaleggianti come quelli anti-calvinisti.
L’Illuminismo radicale americano risulta così una galassia nella quale rientrano, a vario titolo, Jefferson, Madison, Paine, Franklin (autentica «icona» all’estero), Mason, Rittenhouse, Barlow, Monroe, Young e Allen. La «Rivoluzione atlantica», come mostra per filo e per segno Israel con una ricchezza documentaria impressionante, ha contraddistinto la genesi della democrazia liberal-rappresentativa moderna introducendo i diritti umani e la libertà di espressione e di stampa, cercando di arrestare l’oppressione delle minoranze etniche e provando a produrre un codice internazionale in grado di ridurre gli esiti nefasti della guerra. Vale a dire, promuovendo le libertà repubblicane, dentro e fuori i confini della nazione. Con un effetto di «disseminazione» straordinario sulle vicende successive di Francia, Olanda, Irlanda e dell’America latina, fino all’opera di Gaetano Filangieri.
- Massimiliano Panarari - Pubblicato sulla Stampa del 20/10/2018 -
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