Le avventure della merce - di Anselm Jappe -
Anche se molti ancora si rifiutano di comprendere la logica inesorabile che ha ci ha portato ad uno stato di questo mondo così buio, si diffonde sempre più la convinzione che il capitalismo ha messo l'umanità davanti a dei grandi problemi. Quasi sempre, la prima risposta è la seguente: "Dobbiamo tornare alla politica per dare delle regole al mercato. Dobbiamo ristabilire la democrazia minacciata dal potere delle multinazionale e delle Borse". Ma la politica e la democrazia, sono davvero il contrario dell'economia autonomizzata? Sono davvero esse capaci di riportarla dentro i suoi "giusti limiti"?
La "politica e l' "economia" sono sfere della totalità sociale, sottosistemi, complementari fra di loro. Così come le società pre-capitalistiche non avevano nessuna "economia" nel senso moderno, esse non avevano una politica così come noi la intendiamo. Da quando si è imposto il valore, in quanto forma di realtà sociale, esso ha implicato la nascita di sottosistemi differenziati. Il valore, con la sua pulsione impersonale a crescere in modo tautologico, non è una categoria puramente "economica" alla quale si possa opporre la "politica" in quanto sfera del libero arbitrio, della discussione e della decisione in comune. Tale idea, è stata a lungo uno dei pilastri di tutta la sinistra, al fine di "democratizzare" la vita politica per imporre delle regole all'economia. Ma nella società feticista della merce, la politica è un sottosistema secondario. Essa è nata dal fatto che lo scambio di merci non prevedevano relazioni sociali dirette e, di conseguenza, necessitava una sfera per i rapporti diretti e per la realizzazione dell'interesse universale. Senza istanze politiche, i soggetti del mercato passerebbero immediatamente ad una guerra generale di tutti contro tutti e, naturalmente, nessuno, vorrebbe farsi carico di garantire le infrastrutture.
Gli uomini, nella loro qualità di rappresentanti delle merci, non possono incontrarsi nella loro individualità e dunque non possono incontrarsi al fine di formare una comunità. La logica del valore si basa su dei produttori privati che non hanno legami sociali fra loro, ed è per questo che bisogna produrre un'istanza separata che si occupi dell'aspetto generale. Lo Stato moderno viene dunque creato dalla logica della merce; le due cose sono legate tra loro come due poli inseparabili. Il loro rapporto è cambiato più volte, nel corso della storia del capitalismo, ma è un grave errore lasciarsi coinvolgere dall'attuale polemica dei neoliberisti contro lo Stato (contraddetta anche dallo loro pratica, laddove sono al comando) che vuol farci credere che il capitale sarebbe fondamentalmente avverso allo Stato.
D'altra parte, il marxismo del movimento operaio, e pressoché di tutta la sinistra, ha ha sempre puntato tutto sullo Stato, anche fino al delirio, ritenendolo il contrario del capitalismo. La critica contemporanea del capitalismo neoliberista, evoca spesso un "ritorno dello Stato", unilateralmente identificato con lo Stato-provvidenza dell'era keynesiana. A dire il vero, è stato il capitalismo stesso che ha fatto ricorso, assai massivamente, allo Stato e alla politica durante la fase della sua istallazione (tra il XV e la fine del XVIII secolo), e continua a farlo laddove le categorie capitaliste devono ancora essere introdotte - i paesi arretrati ad est e a sud del mondo durante il XX secolo. Infine, vi ha sempre ricorso dappertutto nelle situazioni di disagio. E' solo nei periodi in cui il mercato sembra marciare sulle proprie gambe, che il capitale vorrebbe ridurre le spese accessorie richieste da uno Stato forte.
La sinistra si è tristemente sbagliata di grosso, attribuendo allo Stato dei poteri sovrani di intervento. Anche perché la politica è sempre di più politica economica. Così come in certe società pre-capitaliste tutto veniva motivato dalla religione, così qualsiasi discussione politica ruota intorno al feticcio dell'economia. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, la differenza fra la destra e la sinistra consisteva essenzialmente nelle loro divergenti ricette di politica economica. La politica, lungi dall'essere esterna o al di sopra della sfera economica, si muove completamente all'interno di questa. E non per la cattiva volontà degli attori politici, ma per una ragione strutturale: la politica non ha alcun mezzo autonomo di intervento. Deve sempre servirsi del denaro, ed ogni decisione che prende dev'essere "finanziata". Quando lo stato cerca di creare il suo proprio denaro e stampa carta moneta, questo denaro si svaluta immediatamente. Il potere statale funziona solamente finché riesce a prelevare denaro dai processi di valorizzazione che hanno successo. Quando questi processi cominciano a rallentare, l'economia limita e soffoca sempre di più lo spazio d'azione della politica. Diviene allora evidente che nella società del valore, la politica si trova in un rapporto di dipendenza diretto con l'economia. Con la sparizione dei suoi mezzi finanziari, lo Stato si riduce alla gestione, sempre più repressiva, della povertà. Alla fine, anche i soldati scappano, se non vengono pagati, e le forze armate diventano proprietà privata dei resti imbarbariti delle istituzioni statali - è quello che è accaduto in numerosi paesi del terzo mondo, ma anche nella vecchia Jugoslavia.
Abbiamo indicato i maggiori elementi della crisi della socializzazione basata sulla forma valore: la società del lavoro si trova ormai senza lavoro. Lo stato nazionale in quanto meccanismo di regolazione è sul punto di scomparire. La crisi ecologica ci dice che, per continuare la creazione di valore, il mondo intero è stato gettato nel calderone della valorizzazione. I rapporti tradizionali fra i due sessi sono stati messi in discussione, dal momento che il lavoro femminile (domestico) in quanto "riserva oscura" della valorizzazione non può più essere integrato nella logica del valore. Questi problemi rimangono fuori dalla portata della politica, la quale comincia a girare a vuoto e degenera, definitivamente, in uno spettacolo pubblicitario che comprende i governi di unità nazionale che gestiscono ormai in tutti i paesi occidentali quella che è l'urgenza continua.
Il problema non risiede nel fatto che la politica non è abbastanza "democratica". La democrazia è l'altra faccia del capitale, non il suo contrario. Il concetto di democrazia in senso forte, presuppone che la società sia composta di soggetti dotati di libero arbitrio. Per avere una tale libertà di decisione, i soggetti dovrebbero trovarsi al di fuori della forma merce e disporre del valore come di un loro oggetto. Ma in una società feticista, non può esistere un simile soggetto autonomo e cosciente. Ne possono esistere solo dei frammenti, in formazione. Il valore non si limita ad essere una forma di produzione; esso è anche una forma di coscienza. Non solo nel senso che ogni modo di produzione produce allo stesso tempo delle forme di coscienza corrispondenti. Ma il valore, come pure le altre forme storiche di feticismo, è qualcosa di più; è una forma a priori in senso kantiano. E' uno schema di cui i soggetti non hanno coscienza, perché esso si presenta come "naturale", e non come storicamente determinato. In altre parole, tutto ciò che i soggetti del valore possono pensare, immaginare, volere o fare si mostra già sotto forma di merce, di denaro, di potere statale, di diritto. Il libero arbitrio non è affatto libero al cospetto né della forma merce né della forma denaro, né delle loro leggi. In una costituzione feticista, non esiste una volontà del soggetto che si possa opporre alla realtà "oggettiva". Dal momento che le leggi del valore si trovano fuori dalla portata del libero arbitrio degli individui, esse sono inaccessibili anche alla volontà politica. In questa situazione, "la democratizzazione non è altro che la sottomissione completa alla logica senza soggetto del denaro". All'interno della democrazia, non sono mai le forme feticiste di base a costituire l'oggetto della "discussione democratica". Esse sono già presupposte a tutte le decisioni, che non possono perciò concernere altro che il modo migliore di servire il feticcio. Nella società delle merci, la democrazia non è "manipolata", "formale", "falsa", "borghese". Essa è la forma più adeguata alla società capitalista, nella quale gli individui hanno completamente interiorizzato la necessità di lavorare e guadagnare soldi. Laddove è ancora indispensabile inculcare agli uomini, a colpi di bastone, la sottomissione al capitale, là il capitalismo si trova ancora in una forma molto imperfetta. Si manca di cogliere l'essenziale se ci si ostina, come ha fatto instancabilmente la sinistra, a mettere in rilievo che i gruppi economici, i media, le chiese, ecc. manipolano gli elettori e trasformano la democrazia in qualcosa di assai differente di quello che sta scritto dentro le Costituzioni - benché, evidentemente, tali manipolazioni esistano. La democrazia è completa quando tutto è soggetto a venire negoziato - salvo i vincoli che derivano dal lavoro e dal denaro. I soggetti per i quali la trasformazione del lavoro in denaro è il fondamento indiscutibile della loro esistenza, decideranno sempre - anche se sono "completamente liberi" di scegliere - a favore di quello che le leggi della merce imporranno sotto forma di "imperativo tecnologico" o di "imperativo del mercato". "Smascherare" i "veri interessi" che si nascondono dietro tali "imperativi" è uno degli sport preferiti della sinistra. Quando invece bisognerebbe piuttosto mettere in discussione il sistema feticcio che produce tali imperativi, che al suo interno sono reali.
Le illusioni "di sinistra" sulla democrazia si sono rivelate particolarmente audaci quando si sono presentate come domanda di "autogestione operaia" delle imprese, quindi come estensione della "democrazia" al processo di produzione. Ma se quello che si deve autogestire, è un'impresa che deve realizzare dei profitti monetari, gli autogestenti non possono fare altro, collettivamente, che quello che fanno tutti i soggetti del mercato: devono fare sopravvivere la loro unità di produzione contro la concorrenza. Il fallimento di tutti i tentativi di autogestione, anche quelli organizzati su grande scala, come in Jugoslavia, non possono essere imputabili solamente al sabotaggio portato avanti dai burocrati (anche se questo ha naturalmente luogo). Ma in assenza di un modo di produzione realmente socializzato, le unità di produzione separata sono condannate, che lo vogliano o meno, a seguire le leggi feticiste della redditività. Nella società di mercato pienamente sviluppata, gli individui, che non possono immaginare una vita al di fuori del lavoro e delle merci, fanno di loro propria iniziativa tutto quello che è necessario per fare avanzare questo sistema, senza bisogno di essere manipolati. In effetti, si nota che esistono sempre più soggetti che riuniscono in sé stessi le categorie logiche del proprietario di mezzi di produzione e del salariato: nel quadro dell'enorme aumento del numero di lavoratori "autonomi", che in alcuni paesi sono già diventati più numerosi dei salariati, questa figura di auto-sfruttato conosce un'enorme diffusione. Tra i salariati che rimangono, molti difendono effettivamente i loro "interessi" e si ammazzano di lavoro per mantenere la "competitività dell'impresa in cui hanno il loro "posto". L' "autogestione operaia" alla fine ha trovato una sua crudele parodia nell'idea di una "democrazia degli azionisti", vale a dire quella di un universo di salariati che, pagati in azioni, diventano, collettivamente, "proprietari delle loro imprese", realizzando così l'associazione, perfettamente riuscita, del capitale e del lavoro. Possiamo in effetti immaginare, almeno sul piano logico, una società capitalista dove la proprietà dei mezzi di produzione è distribuita fra tutti i soggetti, invece di essere concentrata nelle mani di pochi. Il fondamento di tale società riposa sul rapporto di appropriazione privata, non sul numero di proprietari. La "democrazia degli azionisti" non esisterà mai, ma la sola possibilità dimostra che il conflitto tra lavoro e capitale non costituisce affatto il cuore della società capitalista.
- Anselm Jappe, da "Les Aventures de la marchandise", Denoel, 2003, p. 166-172. -
1 commento:
Buorngiorno a tutti, volevo invitarvi all'incontro con ANSELM JAPPE
All'Unione Culturale Franco Antonicelli, Via C.Battisti 4b, Torino
25 gennaio 2014, ore 16:00,
vi aspettiamo.
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