Il fantasma del voto di popolo - di Luciano Canfora -
«Con la vittoria dell'ostruzionismo dopo le elezioni generali del 1900 il liberalismo fu sopraffatto dalla democrazia: sopraffatto a tal segno che questa assorbì quello e le si sostituì, mentre sono termini sostanzialmente antitetici».
Così scriveva Antonio Salandra nel volume di «ricordi e pensieri» edito da Mondadori nel 1928, "La neutralità italiana". Salandra continuava additando Giolitti come «maggior rappresentante» della tendenza democratica, «colpevole» di credere e sostenere «essere i democratici i veri liberali».Non a caso Salandra indicava nell'anno 1900 lo spartiacque, l'anno di svolta che aveva aperto le porte alla deriva in senso democratico, giacché quello fu il momento, nella storia dell'Italia da poco unita, in cui la «destra storica» fu, e per un lungo tratto, travolta a seguito della repressione feroce dei moti di Milano del 1898 e dell'indignazione popolare contro Bava Beccaris, Di Rudinì e consorti. Dopo Zanardelli, pacificatore, fu l'ora di Giolitti e si avviò un'era - quella «giolittiana» appunto - in cui non solo non si rispose più con le fucilate agli scioperanti, ma si cominciò a porre seriamente la questione di allargare significativamente il suffragio in direzione quasi «universale», come poi accadde - escluse rimanendo pur sempre le donne - nel 1912, ad opera appunto di Giolitti.
Nel 1892 aveva ancora diritto al voto solo il 9,4% della popolazione e solo il 56% di tale 9% andò effettivamente a votare. Nel 1912 Giolitti, superando resistenze e perplessità (anche di autorevoli suoi consiglieri come Croce), allargò di molto il suffragio, pur lasciando fuori coloro che, «maggiorenni sotto i 30 anni», non avessero prestato il servizio militare o non corrispondessero a determinate condizioni di censo (Siotto-Pintor, voce «Elezione» dell'Enciclopedia italiana, vol. XIII, del 1932). E il corpo elettorale salì da 3 milioni e 300.000 a 8.700.000 di cui circa due milioni e mezzo di analfabeti. Giolitti intuì che il suffragio allargato si poteva concedere perché non era più un pericolo.
In questa svolta epocale della nostra storia si colloca la riflessione di Gaetano Mosca (1858-1941), docente di Diritto costituzionale, sottosegretario alle colonie con Salandra (1914-1916), senatore del Regno dal 6 ottobre 1919, ammiratore del Di Rudinì. L'elogio che egli ne tesse in uno scritto importante apparso nel «Corriere della Sera» l'8 agosto 1908 è raccolto nel bel volume, da poco in libreria, "Gaetano Mosca e il «Corriere della Sera»", curato egregiamente da Alberto Martinelli per la Fondazione Corriere della Sera. La ricchezza del volume impone di trascegliere qui solo alcuni temi. Quello cruciale dell'allargamento del suffragio campeggia. E Mosca si impegna, con argomenti assiduamente proposti, nel corso degli anni, al grande quotidiano milanese, contro il voto alle donne e contro il suffragio universale. Nel primo caso i suoi argomenti sono talvolta comici, come quando mostra aperture verso le professoresse (cui è difficile opporre l'argomento dell'inconsapevolezza e dell'eventuale analfabetismo) o quando evoca l'influenza dei «parroci» sul voto allargato. E in questo caso l'allarme riguarda l'influenza degli uomini di Chiesa non solo sulle donne, ma anche sugli analfabeti. Contro il suffragio universale (che a un certo punto osserva non essere neanche più tanto desiderato dagli stessi socialisti) i suoi argomenti sono quelli «classici» delle aristocrazie di tutti i tempi. È sarcastico verso Salvemini, che chiama con ironia «il geniale storico pugliese», il quale vorrebbe dare il voto ai contadini analfabeti della Basilicata, della Puglia o della Calabria. L'argomento più pungente che adduce è però quello dell'effettivo assenteismo: anche chi avrebbe diritto al voto non va a votare, non va a richiedere il certificato elettorale. (Si è visto che nel 1892 aveva votato poco più della metà degli aventi diritto).È tema ritornante, anche in tempi di suffragio universale, e in particolare nel tempo presente, che potremmo definire l'età della «stanchezza del suffragio universale». Una tale massiccia rinuncia a esercitare il diritto di voto è, per Mosca, la prova dell'assurdità di voler imporre a masse ancora più grandi l'esercizio del voto. Egli non poteva immaginare che, oltre un secolo dopo l'introduzione in Italia di quel suffragio semi-universale che tanto lo allarmava, si sarebbero sviluppate ingegnerie elettorali più o meno sofisticate, più o meno arbitrarie, miranti a creare de facto , con leggi di tipo maggioritario, una differenza e un diverso valore civile tra voto «utile» e voto «inutile».
Allarmante distinzione contro cui sapientemente si espresse Michele Ainis su questo giornale il 6 febbraio 2013. Le escogitazioni «maggioritarie» miranti a dare il governo in mano ad una minor pars del corpo elettorale possono apparirci oggi come la forma attuale dell'antico sogno «elitistico» di dare il potere effettivo soltanto a una minoranza qualificata. Come ben scrive Martinelli in prefazione, Mosca, con Albertini, guardava al declino dello Stato liberale «col disincantato pessimismo del conservatore». Essi «condividevano una analoga fedeltà all'eredità e al mito della Destra storica». Le aperture riformiste di Giolitti li allarmavano: e ritennero di fare un gran passo quando approvarono (1901) il riconoscimento giuridico dei sindacati.
Le questioni che Mosca affronta, e che ritornano costantemente pur nel cambiamento, spesso apparente, dei contesti storici, possono ridursi a una sola grande difficoltà: la rappresentanza della «volontà generale». Non è perciò forse privo di significato che un esponente importante della sinistra italiana del Novecento, Palmiro Togliatti, per un verso raccomandasse (teste Italo De Feo) la lettura di Gaetano Mosca e per l'altro elogiasse Giolitti, nel celebre saggio a lui intitolato. La questione dei modi di attuazione e di funzionamento del suffragio universale è tuttora aperta.
- Luciano Canfora - Pagina 33 (23 gennaio 2014) - Corriere della Sera -
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