1937-2018 - Morto Mario Vegetti
- di Antonio Carioti -
Raffinato studioso e commentatore di Platone, conosceva come pochi altri anche il versante scientifico della cultura classica. E aveva un carattere piuttosto schivo, non cercava la popolarità e non amava i riflettori. Tuttavia Mario Vegetti, scomparso ieri nella sua casa milanese all’età di 81 anni, era ben consapevole della necessità di far conoscere la civiltà antica al grande pubblico. Diversi suoi libri hanno infatti un carattere didascalico — non a caso sono articolati in lezioni — o d’introduzione alle opere dei grandi filosofi. Concepiva l’università come un luogo aperto al confronto con il territorio, gli dispiaceva che, dopo alcuni tentativi, le istituzioni accademiche avessero rinunciato a essere «protagoniste attive del tessuto cittadino».
Nato a Milano il 4 gennaio 1937, Vegetti era stato alunno del prestigioso collegio Ghislieri di Pavia e si era laureato nell’ateneo di quella città con una tesi su Tucidide, nel 1959. Sempre a Pavia era stato professore ordinario di Storia della filosofia antica per trent’anni, dal 1975 al 2005. Poi aveva lasciato, un po’ deluso per lo scarso dinamismo dell’ambiente accademico, che addebitava non solo ai colleghi, ma anche ai giovani: «Un tempo gli studenti — ricordava — ponevano domande di senso. Oggi non più». Convinzione profondamente radicata di Vegetti era appunto che lo studio del mondo classico fosse fondamentale per aprire le menti. I grandi pensatori greci, sottolineava, avevano sviluppato le proprie riflessioni in un ambiente privo di sacre scritture o di autorità che pretendessero di possedere e imporre dottrine prefissate, quindi avevano potuto avanzare le ipotesi più varie, a volta geniali, a volte strampalate, in completa libertà. Avevano così animato un immenso laboratorio intellettuale non solo in campo filosofico, ma anche scientifico. La medicina, per esempio, aveva compiuto passi enormi attraverso la pratica quotidiana proprio perché non vincolata da regole previste nei libri sacerdotali, come avveniva al contrario nell’Egitto dei faraoni.
A questo rapporto sinergico tra sperimentazione diretta (condotta affondando la lama nella carne di animali e cadaveri) e accumulo del sapere teorico Vegetti aveva dedicato il suo saggio significativamente intitolato Il coltello e lo stilo (il Saggiatore, 1979), prodotto di un’approfondita ricerca sul pensiero scientifico ellenico condotta secondo l’indirizzo di uno dei suoi maestri, il filosofo marxista eretico Ludovico Geymonat, e proseguita poi in diverse altre opere. In seguito Vegetti aveva pubblicato il lavoro altrettanto importante L’etica degli antichi (Laterza, 1989) e si era progressivamente caratterizzato come uno dei più acuti e validi studiosi di Platone a livello internazionale. Aveva curato una monumentale edizione commentata della Repubblica, opera più nota del filosofo greco, in sette volumi usciti tra il 1998 e il 2007 presso l’editore Bibliopolis. Ma aveva realizzato anche saggi rivolti a un pubblico di non specialisti come Quindici lezioni su Platone (Einaudi, 2003), Guida alla lettura della «Repubblica» di Platone (Laterza, 2007), Un paradigma in cielo (Carocci, 2009).
Su Platone, Vegetti si era confrontato con un altro accademico italiano di notevole prestigio, Giovanni Reale, scomparso nel 2014. Quest’ultimo riteneva che la «dottrina non scritta» del grande filosofo greco, di carattere metafisico, fosse l’autentico contenuto del suo insegnamento, mentre i Dialoghi ne sarebbero stati soltanto l’introduzione. Una lettura che non convinceva affatto Vegetti, secondo il quale andava viceversa riconosciuto il «pieno valore filosofico» dei testi platonici. In particolare il suo interesse era attirato dal problema della politica così come era stato affrontato dall’autore della Repubblica.
Da una parte Vegetti, affascinato dalle infinite sfaccettature dell’eredità di Platone, poneva l’accento sulla sua ineludibile polivalenza e sottolineava che quell’insegnamento trasmesso in forma dialogica, attraverso il confronto fra punti di vista differenti, «non può venire ridotto a un sistema univoco di significati». Dall’altra, apprezzava l’afflato ideale che percorre quelle medesime pagine, nelle quali la politica viene «pensata in grande», assegnandole «una capacità di orientamento della vita sociale nella sua complessità economica, militare, etica».
Uomo di sinistra, impegnato socialmente al fianco della moglie Silvia Vegetti Finzi (psicologa di primo piano e firma del «Corriere della Sera»), era consapevole di quanto spinoso sia il nodo della legittimità del potere, su cui si era soffermato con grande finezza di argomentazioni nel libro Chi comanda nella città (Carocci, 2017). Ma riteneva comunque che la politica avesse bisogno di uno slancio utopistico, dovesse nutrirsi di valori, per non diventare miope e conservatrice. E proprio per questo diffidava di Aristotele e della sua tendenza a «naturalizzare» le istituzioni umane storicamente determinate, che a suo avviso finiva per risolversi in una pericolosa giustificazione integrale dell’esistente. Ma certo non sottovalutava il pensatore di Stagira, al quale aveva dedicato il volume Incontro con Aristotele, firmato con Francesco Ademollo (Einaudi, 2016).
Va comunque aggiunto che Vegetti dissentiva da coloro che, ponendo al centro l’opera dei maestri più illustri, svalutano il successivo periodo ellenistico e la ancor più tarda fase imperiale, con la Grecia ormai sottomessa al dominio di Roma. Considerava l’ellenismo «fondamentale per l’etica, per la logica, in fondo anche per la fisica». E guardava con estremo interesse alla dialettica tra il pensiero classico e le nuove religioni di salvezza, in primo luogo il cristianesimo. Nella vasta Storia della filosofia antica da lui diretta con Franco Trabattoni (Carocci, 2016) Platone e Aristotele occupano solo un volume su quattro. Per presentare quell’opera Vegetti aveva partecipato per «la Lettura» del «Corriere» (numero 228 del 10 aprile 2016) a un incontro con alcuni studenti, nel corso del quale aveva riaffermato la sua fiducia nella funzione civile della filosofia. Lo allarmava un dibattito pubblico ridotto a frastuono e a ingannevoli espedienti di marketing. Considerava più che mai urgente «mettere ordine nel modo di pensare».
- Antonio Carioti - Pubblicato sul Corriere del 12/3/2018 -
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