I «figli della guerra» sono i bambini nati da relazioni tra soldati non bianchi e donne italiane alla fine della seconda guerra mondiale. Varie istituzioni, ma anche la gente comune, esibirono fin da subito persistenti vedute e atteggiamenti razzisti nei confronti di questi bambini. I «mulattini», come venivano chiamati in quel periodo, sono l’esempio lampante di come l’Italia democratica si sia sempre percepita bianca, differenziandosi senza dichiararlo apertamente, da chi aveva la pelle di un altro colore. Silvana Patriarca, in questo libro importante, racconta la vicenda di questi bambini, sottolineando l’eredità di fascismo e colonialismo.
Ancora oggi è presente in Italia una concezione dell’italianità che non viene in genere discussa pubblicamente: l’idea che gli italiani siano europei e bianchi. Benché la popolazione sia il risultato di costanti mescolamenti etnici avvenuti nel corso dei secoli e che continuano tuttora, il popolo italiano è stato storicamente costruito come bianco, anche se di una bianchezza un po’ meno bianca di quella che è considerata la norma europea. Per gettar luce su tale immagine di sé, questo libro ricostruisce quelli che furono, nella repubblica fondata dopo la caduta del fascismo, gli atteggiamenti prevalenti verso la «razza» e il colore della pelle. Questa ricostruzione pone al centro le esperienze e le rappresentazioni di quel gruppo di bambini nati nell’immediato dopoguerra dagli incontri tra soldati alleati non bianchi e donne italiane, quei bambini che gli afroamericani chiamavano «brown babies» e che in Italia erano comunemente indicati come «mulattini», un termine con una forte connotazione razziale di tipo biologico. La storia dei «figli della guerra» comincia nella scia immediata degli anni drammatici influenzati dal regime fascista e dal colonialismo. Lo studio delle esperienze dei «brown babies» permette di osservare in che misura furono razzializzati e come la percezione sociale delle loro origini e del loro colore condizionò le loro esistenze. Ciò è fondamentale per gettar luce sul «colore della Repubblica», un aspetto della storia dell’Italia repubblicana che richiede maggiore attenzione da parte degli storici.
(dal risvolto di copertina di: Silvana Patriarca, "Il colore della Repubblica. «Figli della guerra» e razzismo nell'Italia postfascista". 2021, Einaudi Storia pp. 240 € 27,00)
Dopo la guerra “è natu nu criaturu niro niro”
- di Igiaba Scego -
Siamo in una scuola italiana negli anni ’10 del Novecento. In classe vengono distribuite le pagelle. Tutti le aprono pieni di gioia, timore o solo semplice curiosità. Però c’è un bambino che non la apre la sua pagella. E quando gli fanno una domanda mugugna. Poi cambiamo scena, il bambino è in piedi vicino alla sua mamma. La vediamo con la pagella in mano e un sorriso. «Bravo Peppino» dice la mamma lodandolo per i bei voti. E allora che il bambino chiede al fratello «ma anche sulla tua pagella c’è scritto N.N?». Ecco quelle due lettere sono state fonte di sofferenza per molte persone. E tra queste c’erano anche Peppino de Filippo, il bambino che non ha voluto aprire la sua pagella, il fratello Edoardo e la sorella Titina, i famosi De Filippo che tanto hanno dato al teatro e al cinema italiano. La scena è contenuta in quel fantastico affresco sul teatro napoletano che è Qui rido io di Mario Martone sulla vita del drammaturgo e attore Eduardo Scarpetta, padre di molti figli, non tutti riconosciuti, tra i quali appunto i famosi De Filippo. N.N. fino al 1954 indicava proprio figlio/a di padre ignoto, nascite all’epoca considerate illegittime e che bollavano i figli nati da una relazione fuori dal matrimonio consacrato come i figli della vergogna.
Questa scena, in un film corale, barocco e meraviglioso come Qui rido io, si lega idealmente a un libro Il colore della Repubblica di Silvana Patriarca, docente di storia contemporanea presso il dipartimento di storia della Fordham University di New York. Patriarca mette al centro della sua ricerca bambini nati fuori dal matrimonio, che oltre a portare su di sé il peso di uno sguardo ostile, che li considera una vergogna, portano anche sulle spalle un giudizio morale che sfocia nel sessismo e nel razzismo. Patriarca infatti ci parla dei figli della guerra nati dall’unione di donne italiane e padri afro-discendenti (soprattutto afroamericani) arrivati con le truppe a combattere Hitler e Mussolini.
Il saggio è un excursus puntuale, pieno di riferimenti bibliografici e non solo, su queste storie che sono state nascoste, negate, invisibilizzate. Parte dal dolore delle donne Patriarca. Donne che spesso venivano tacciate di essere «segnorine» in vendita al miglior offerente, quando invece molte erano entrate in una relazione di guerra consapevolmente, per amore, per scelta. Donne che venivano aggredite, insultate. Brutalizzate dalla comunità di nascita. Donne che una volta rimaste incinte sono state poste davanti ad una scelta estrema tenersi o sbarazzarsi di quel figlio del proprio ventre visibilmente di un altro colore.
Sono state tante le strade percorse dalle donne. Ma è interessante quando Patriarca si sofferma ad analizzare alcune vite più da vicino. Il personaggio che spicca tra tutte è Silvana Galli (ritratta a pagina 47 con il figlio Giorgio neonato) una donna straordinaria che ha dovuto combattere per suo figlio e per se stessa. Donna che ha aperto all’autrice del volume cuore, ricordi, riflessioni. E poi naturalmente ci sono i figli e le figlie. Le loro vite, la ricerca del padre nero perduto, il bullismo subito a scuola, i pianti soffocati, le angherie e financo le aggressioni perpetrate nei loro confronti.
Sono tante le storie che Patriarca ci mostra nel libro dal famoso James Senese, musicista napoletano, l’uomo che ha rivoluzionato il sound partenopeo fino ad Antonio Campobasso (con cui si apre il volume) il cui libro Nero di Puglia, testo autobiografico, viene considerato dall’autrice il manifesto della condizione di razzismo ed emarginazione vissuti dai figli della guerra. Nel testo di Patriarca ricorre spesso la parola «problema», infatti era questa la parola che purtroppo si usava negli anni ’50 verso questi bambini che per politica, associazioni religiose e famiglie andavano di fatto nascosti. Chi come Don Gnocchi li voleva mandare in Brasile per «il loro bene» e chi in orfanotrofio lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Insieme alle biografie, l’autrice dedica numerose pagine all’immaginario. Questi bambini considerati dalla società italiana come bambini della colpa hanno acceso la fantasia di cineasti e musicisti. Viene ricordata la famosa canzone Tammuriata Nera che trasuda sessismo e razzismo quanto la coloniale Faccetta nera. Ma è nel comparto film che la cosa si fa più interessante. Patriarca esamina Faustina di Luigi Magni e Mulatto di Francesco de Robertis, prodotti che partivano da teoriche buone intenzioni, ma che poi finivano inevitabilmente per rafforzare stereotipi, razzismo e visioni paternaliste. Ma è Il nero di Giovanni Vento (a cui è stato dedicato recentemente un libro da Leonardo de Franceschi Il Nero di Giovanni Vento. Un film e un regista verso l’Italia Plurale) a fare la differenza con la storia di due figli della guerra nella Napoli degli anni sessanta. Film girato con gli stilemi della nouvelle vague francese di fatto compie una rivoluzione nel modo di concepire i due protagonisti, visti per tutto il film non come subalterni, ma come due ragazzi con in mano il loro destino. Due italiani neri che devono affrontare il rifiuto della loro nazione. Il libro di Silvana Patriarca è uno scrigno pieno di tesori, un libro non solo necessario, ma fondamentale per capire non solo la Repubblica nell’immediato Dopoguerra, ma la Repubblica oggi che ancora si ostina a negare la cittadinanza ai figli di migranti. Figli della guerra e figli di migranti legati da un atroce destino. Complimenti a Einaudi storia che dopo Queer di Maya de Leo centra di nuovo il bersaglio con un saggio davvero di pregio.
- Igiaba Scego - Pubblicato su Tuttolibri del 2/10/2021 -
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