In un saggio del 1979 - intitolato "Reificazione e utopia nella cultura di massa" (incluso nel suo libro "Firme del visibile: Hitchcock, Kubrick, Antonioni") - Fredric Jameson mette in atto un'insolita interpretazione di Erich Auerbach, la quale, in particolare, riguarda il primo capitolo di "Mimesis", in cui Auerbach si occupa di attuare una lettura comparata di Omero e del Vecchio Testamento. Jameson appare interessato al commento che Auerbach fa a proposito della costituzione dell'Odissea, vista come se fosse un susseguirsi di scene «immanenti», senza collegamenti «necessari o indispensabili» riferiti a ciò che viene prima o dopo. Una cosa, questa, che parla del modo in cui la scrittura di Omero si intensifica verticalmente, piuttosto che orizzontalmente. Il poema appare «verticale in relazione a sé stesso», scrive Jameson, seguendo Auerbach. Così facendo, in un certo senso, egli riprende il discorso, fatto da Adorno e Horkheimer, di tornare ai Greci (e a Ulisse e a Omero) per discutere del capitalismo e della cultura del presente. Aggiungendo al gesto, però, le intuizioni di Auerbach - che alla fine degli anni '50 era stato un suo collaboratore - facendo uso della riflessione di Auerbach anche a proposito del carattere intensivo e «astorico» del poema omerico, Jameson arriva a pensare al consumo, divenuto superficiale e mercificato, degli artefatti artistici nella cultura di massa. Un contesto nel quale la logica della merce fa sì che tutte queste «scene immanenti» si trasformino in una procedura di obsolescenza programmatica, che trasformano l'esperienza della fruizione estetica in un'esperienza di trasposizione sfrenata e acritica che si muove passando da un artefatto all'altro. Jameson, a tal proposito parla pertanto di «detective stories», e di come queste servano a manipolare, a maneggiare e a controllare dei «fini reificati» all'interno di quello che dopo tutto, alla fine, non è altro che un processo di «consumo di sé stessi»
fonte: Um túnel no fim da luz
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