sabato 10 aprile 2021

I nuovi nomadi

«Dietro Nomadland, il film in assoluto più atteso alla Mostra del Cinema di Venezia, c’è un libro folgorante. Azzardiamo: imprescindibile» Huffington Post
Il libro da cui è tratto l’omonimo film di Chloé Zhao, interpretato e prodotto da Frances McDormand, vincitore del Leone d’Oro alla 77a Mostra del Cinema di Venezia
«Fantastico e con una scrittura meravigliosa… geniale e assolutamente avvincente» The New York Times Book Review
«La potenza di un libro… Nella migliore tradizione del giornalismo immersivo, Bruder annota le sue disavventure guidando e vivendo realmente in un furgone… scrittura viscerale e ossessiva» Booklist, starred review
«Un’importante inchiesta che evoca Steinbeck e gli “hobo”» Libération

Ogni giorno in America, il Paese più ricco del mondo, sempre più persone si trovano a dover scegliere tra pagare l’affitto e mettere il cibo in tavola. Di fronte a questo dilemma impossibile, molti decidono di abbandonare la vita sedentaria per mettersi in viaggio. In un mondo in cui basta un ricovero in ospedale al momento sbagliato per mandare in fumo i risparmi di una vita, in cui la previdenza sociale è praticamente inesistente e il peso dei debiti spinge molti alla disperazione, donne e uomini in età da pensione hanno iniziato a migrare da un lato all’altro del Paese attraverso i mezzi di trasporto più vari, tra un lavoro precario e l’altro. Tra loro Linda May: una nonna di 64 anni, dai capelli grigi, che vive viaggiando su un 28 piedi, e Bob Wells, diventato vero pilastro della comunità dei nomadi dopo anni di sofferenza e fallimenti. Nomadland, nato dall’inchiesta «Dopo la pensione» (vincitrice del Premio Aronson 2015 per il giornalismo sulla giustizia sociale) ci accompagna in un viaggio indimenticabile attraverso la vita, i sogni e le speranze di questi nomadi del terzo millennio, per scoprire che, squarciato il velo illusorio del Sogno Americano, al di là è forse possibile scorgere una nuova realtà, più umana, più solidale, più bella.

(dal risvolto di copertina di: "Nomadland", di Jessica Bruder. Traduzione di: Giada Diano. EDIZIONI CLICHY Pagine 384, 17€)

La terra dei nuovi nomadi
Jessica Bruder ha scritto Nomadland sul popolo disperato che gira gli Usa e vive sui van.
Il film, vincitore di Leone d’Oro e Golden Globes, è favorito agli Oscar. L’abbiamo intervistata

- di STEFANIA ULIVI -

Adesso il suo Halen, il van con cui per tre anni ha percorso quindicimila miglia sulle tracce dei nuovi nomadi americani, è parcheggiato in Nevada, in attesa di tempi più adatti agli spostamenti. Quel lavoro di Jessica Bruder — iniziato come reportage per «Harper’s Magazine» (The End of Retirement) e culminato nel libro Nomadland. Un racconto d’inchiesta (Edizioni Clichy) — è la base su cui poggia lo straordinario successo dell’omonimo film di Chloé Zhao, prodotto e interpretato da Frances McDormand. È il caso cinematografico dell’anno: dopo il Leone d’Oro a Venezia, la storica doppietta di pochi giorni fa ai Golden Globes (miglior film e miglior regia, a quasi quarant’anni dall’unica precedente vincitrice, Barbra Streisand), si presenta da favorito nella corsa agli Oscar. Uno dei tanti rovesci della medaglia del sogno americano, distorto in una distopia sulle speranze perdute di una generazione, i baby boomer, in gran parte anziana, espulsa dal mondo del lavoro senza un sistema di protezione. Una parabola crudele della quale Linda, Swankie, Bob — le voci del libro di Bruder, diventati i volti del film — sono involontari testimonial.

Che cosa l’ha spinta, anni fa, a mettersi in strada sulle loro tracce?

«Sono affascinata dalle sottoculture. Tendiamo a considerare il mondo nella sua interezza, ma è la sintesi di tanti piccoli universi dove le persone trovano il loro modo di vivere. Mi ero fatta l’idea, sul popolo dei van, di persone di una certa età, pensionati con conti in banca che si godevano la natura e il tempo libero, come una specie di vacanza permanente. Ho scoperto che per molti non è affatto una scelta: sono sempre di più gli anziani che non si possono permettere di smettere di lavorare, costretti a ridurre gli standard di vita perché i salari dei lavori non garantiti sono bassi e bloccati mentre il costo delle case cresce. Ho pensato che fosse una storia da raccontare».

Sono gli «houseless», che è cosa diversa dagli «homeless», con cui ha convissuto. Un gruppo sociale in crescita che sfugge alle statistiche. Il 17% dei suoi connazionali non può smettere di lavorare perché non ha pensione. Anche lei, oltre a girare con il suo autocarro, ha lavorato in un centro di raccolta di barbabietole, e poi in un magazzino Amazon. Scrive: «Mi sembra di vagare in un campo di rifugiati post-recessione. In certi  momenti mi sento come se parlassi con dei prigionieri».

«È stata dura entrare in contatto con questa realtà. Più passava il tempo, più interessanti diventavano le storie. Inizialmente ti dicono quello che pensano che tu voglia sentirti dire: ho sempre voluto vivere per strada, cercavo l’avventura, la libertà... Sono convinta che questo elemento ci sia: una liberazione rispetto al periodo precedente, in cui erano devastati dai debiti, dalla paura di perdere tutto. Poi, a mano a mano che vai avanti scopri l’altra faccia: il lavoro perso, la casa pignorata, problemi di salute, magari un divorzio... Basta un ricovero in ospedale per mandare tutto all’aria. L’assenza di sicurezza sociale è crudelmente dolorosa, ne ho viste le conseguenze ovunque lavorando su Nomadland».

Parte del racconto è affidato ad alcune persone in particolare. Come Charlene Swankie, canoista, in strada per oltre dieci anni. O Bob Wells, il fondatore del Rubber Tramp Rendezvous, il raduno annuale a Quartzsite, in Arizona. O Linda May, ultrasessantenne che vive in una jeep di seconda mano e sogna di costruire una dimora ecosostenibile. La sua storia sembra il riassunto dell’evoluzione delle condizioni di lavoro negli ultimi decenni.

«Come l’Italia, gli Stati Uniti hanno una popolazione che sta invecchiando. L’aspettativa naturale sarebbe poter contare su una pensione per poterti godere la vita, il frutto di ciò che hai fatto. Linda ha realizzato che non avrebbe mai avuto questa sicurezza, né di potersi permettere una vita indipendente nella sua casa».

La casa, la proprietà privata, è alla base dell’idea stessa di felicità, soprattutto in un Paese come gli Usa.

«I costi delle case sono insostenibili, il mercato immobiliare cresce indipendentemente dagli incrementi salariali. La società continua a dirti: fai questo, fai quello, accumula, possiedi cose e sarai felice. Una routine permanente, ancora più complicata a causa della pandemia. Molte persone vivevano assegno dopo assegno. Con i soldi che guadagni paghi l’affitto, ma non hai possibilità di risparmiare. Le disparità sono aumentate con il Covid. Più persone in povertà, più sfratti e pignoramenti. In alcuni casi le autorità propongono delle moratorie, ma non sappiamo quando l’economia si riprenderà. Da un lato i proprietari di case hanno ragione, dall’altra l’emergenza abitativa peggiora. C’è chi cerca di dividere le spese con altri. Alcuni finiscono per strada, a dormire in macchina».

La strada però, nell’immaginario, è anche associata alla libertà, un concetto molto americano.

«Sì, è vero. Quest’esperienza mi ha spinto a riflettere su quanto sia complicato da definire come concetto. La libertà è un mito americano. Come puoi essere libero se non puoi vivere? Mi tornano in mente le parole di Janis Joplin in Me and Bobby McG: Freedom’s just another word for nothing left to lose, libertà è solo una parola per “non avere nulla da perdere”. Puoi essere soffiato via come un palloncino. Guardate l’America adesso: per qualcuno libertà significa rifiutarsi di indossare la mascherina».

Qual è stata la sua preoccupazione principale mentre lavorava al libro?

«Innanzitutto, rispettare le mie fonti. Accettare le contraddizioni. Nel mio Paese in questi anni si è urlato molto. Non volevo farlo. Volevo presentare le cose come le ho viste, non in chiave semplificata. C’è molta rabbia a destra e a sinistra, si giudica con l’accetta. Per esempio molti di sinistra mi chiedono: perché non si organizzano? Non è così semplice. Ricordo un racconto di Swankie. Era a un raduno di nomadi, tutti seduti intorno al fuoco. Alcuni di loro erano lì con gli automezzi lucidissimi, forse dei part-time della strada. Le hanno chiesto: dov’è il tuo van? Lei lo ha indicato e loro se ne sono andati. Come dire: non siamo come te, tu non sei una di noi. Persino nella comunità di nomadi ci sono gerarchie, il classismo on the road. Noi e loro anche lì, è triste».

Il libro è stato un grande successo. E Frances McDormand (due Oscar come miglior attrice protagonista per «Fargo» e «Tre manifesti a Ebbing, Missouri») ne ha comprato i diritti, ha chiamato Chloé Zhao a dirigerlo e nel film è la protagonista Fern, personaggio di finzione. Com’è andata con loro?

«Quando ho saputo che il libro era stato opzionato ero molto eccitata, Hollywood normalmente è ossessionata con altre cose, la gioventù e le celebrity soprattutto. Forse le cose stanno cambiando. L’interesse verso il libro mi ha scaldato il cuore. Ma a essere sincera non pensavo che sarebbe diventato un film. Succede spesso che le opere vengano opzionate e non se ne faccia nulla. Mi ero imposta una linea di basse aspettative. Quando è successo veramente, e ho incontrato Chloé, la prima che ho visto di persona dopo i meeting virtuali, ho capito che sarebbe stata perfetta. Puoi parlare con una persona ma il modo migliore per conoscerla è attraverso il suo lavoro. Quando ho visto il suo film precedente, The Rider, mi sono fidata. La sceneggiatura è sua, io risulto come consulting producer».

C’era anche lei alla proiezione — dopo la vittoria del Leone d’Oro e il passaggio al festival di Toronto — organizzata per il «Telluride from Los Angeles» in un drive in allestito a Pasadena. Come trova il film?

«L’ho amato. La cosa più bella per me è vedere il modo in cui Linda, Bob e Swankie si siano lasciati coinvolgere, la loro integrità e forza. Certo, non sono la persona più indicata per un giudizio obiettivo. Ho iniziato a seguire questa vicenda in Nevada nel 2012, ho tanti sentimenti mescolati. Vedere quei paesaggi mi ha fatto riesplodere il desiderio di tornare sulla strada, hanno risvegliato emozioni forti ma anche i momenti di paura. Sono molto fortunata come scrittrice, non a tutti va così bene».

Le sue eroine, Linda e Swankie, Chloé e Frances, lei: il film ha una netta connotazione femminile. È diverso tra i nuovi nomadi essere donna?

«Ne ho incontrate tantissime, una delle cose che più mi ha colpito. Un’amica e collega che ha scritto di questo mondo negli anni Ottanta mi ha fatto notare che allora erano prevalentemente uomini. E all’inizio nel mio libro il personaggio principale era un uomo, poi hanno preso il sopravvento con naturalezza donne forti. Da qui è nato il personaggio di fantasia di Fern, donna complessa e affascinante, sintesi di tante altre reali. In linea di massima, non credo che il genere definisca il lavoro di una persona. È grandioso che una regista firmi il film, sono sottorappresentate. Ma non amo parlare di libri o film di donne. Mi sembra un ghetto».

Pensa che le cose cambieranno con l’amministrazione Biden?

«Vorrei essere ottimista ma purtroppo questa situazione ha radici antiche, io ho iniziato a occuparmene quando era presidente Obama. Ora dobbiamo riprenderci dai danni fatti da Trump, dagli effetti del Covid. Mi spiace, ma non sono molto ottimista»

- Stefania Ulivi - Pubblicato su La Lettura del 7/3/2021 -

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