Druk: Ubriachi di umanità e alcol
- di José Geraldo Couto -
«Bisogna essere sempre ubriachi», ha scritto - com'è noto - Baudelaire in una sua poesia in prosa.
Druk (Un altro giro), di Thomas Vinterberger, mette alla prova quest'idea, giocandola nella fiction e raccontando un esperimento condotto da quattro insegnanti di un liceo danese (il film, che concorre agli Oscar come miglior film straniero e per la regia, può essere visto sulle piattaforme di streaming). Nel corso di una festa di compleanno, uno dei quattro insegnanti, Nikolaj (Magnus Millang), un professore di psicologia, racconta agli altri tre la teoria di un filosofo norvegese, secondo cui gli esseri umani avrebbero nel sangue un deficit di alcol dello 0,05%, e che quindi per poter realizzare pienamente le loro potenzialità, dovrebbero mettersi nell'ottica di integrare quotidianamente tale deficit. Più che una frase di Baudelarie, la tesi somiglia ad una nota boutade di Humprey Bogart: «Con il mondo, il problema è che tutti si trovano sotto di un paio di drink».
Ed ecco che, metà per divertimento, metà per curiosità scientifica, gli amici cominciano a testare l'ipotesi su sé stessi: muniti di etilometri, e ovviamente di nascosto dalla direzione della scuola e dagli studenti. Il loro rendimento in classe registra un visibile miglioramento, soprattutto per l'insegnante di storia, Martin (l'eccezionale Mads Mikkelsen).
Inoltre, la relazione che i quattro hanno con gli studenti comincia ad essere molto più ricca. È come se fosse aumentata la loro sensibilità relativa all'ambiente che li circonda, e questo li spingesse a recuperare la passione per i loro campi di attività (i rimanenti due insegnanti, sono un professore di musica ed uno di educazione fisica). Il problema è che i quattro decidono di aumentare sempre più le loro dosi giornaliere; cosa che finisce per causare, ad alcuni, problemi familiari, e ad altri problemi professionali.
Estetica instabile
Non entrerò nei dettagli della trama, se non per dire che il film affronta bene i pericoli in un lavoro che parte da una simile premessa, vale a dire, il pericolo di cadere in un'apologia dell'alcolismo oppure nel suo opposto: la condanna morale del vizio. Ciascuna storia individuale (non solo quelle dei quattro insegnanti, ma anche di alcuni studenti che nella trama finiscono per acquistare visibilità) è un caso specifico. Ogni individuo reagisce in maniera diversa al consumo di alcol. Questo, nel migliore di casi, potenzia le tendenze - buone o cattive - già esistenti che normalmente vengono smorzate dalle convenzioni quotidiane.
I veri problemi che affliggono i personaggi, sia gli adulti che gli adolescenti, sono le tipiche angosce della nostra società globalizzata: la solitudine, la paura del rifiuto, il senso di inadeguatezza, il timore di non corrispondere alle aspettative, la frustrazione. Pertanto, in una certa misura, bevono tutti. A quanto pare, sembra che la Danimarca sia uno dei paesi con il più alto tasso di consumo alcolico tra gli adolescenti. Ma, apportando alcune piccole modifiche, la stessa storia potrebbe essere raccontata ambientandola in Russia, in Messico o in Brasile.
Da un punto di vista formale, per la prima volta appare pienamente giustificato il ricorso all'uso della macchina da presa a mano, alle inquadrature apparentemente noncuranti, alle «esplosioni» di luce e al montaggio brutale; tutte cose, queste, che hanno caratterizzato i diversi film di Vintenberg fin da tempi in cui, vent'anni fa, ha partecipato al movimento Dogma 95.
Qui, queste modalità servono trasmettere una sensazione di instabilità caratteristica dello stato etilico. Questa estetica volutamente instabile, che è improvvisata solo in apparenza, dal momento che ha di certo richiesto molta preparazione e molte ripetizioni, fa sì che gli attori (tutti formidabili) non abbiano alcun bisogno di fingere i tratti convenzionali dell'ubriacatura, come l'andatura barcollante e la parlata biascicata. È la telecamera che si ubriaca al loro posto. La struttura narrativa è circolare, o meglio, a spirale. Comincia con una sbornia collettiva degli studenti (una gara in cui vince il gruppo che riesce a bere più birra in meno tempo sulla riva di un lago) e finisce con un'altra sbornia che qui non anticipo. Tra l'una e l'altra, ciascuno dei personaggi principali vive esperienze personali non trasferibili, con dei risultati assai diversi, nel bene o nel male.
Competizione e comunanza
Nella prima bevuta, l'atmosfera è concitata, quasi disperata, segnata dalla competizione e dal desiderio di autoaffermazione. La seconda è invece di euforia e di comunanza. Ma non si tratta necessariamente di un finale felice, in quanto qualcuno è caduto per strada; e il protagonista Martin finisce letteralmente per aria. Il suo futuro può essere sia il migliore che il peggiore. Alla fine, come cantano i versi di Caetano Veloso, «la vita non altro che il momento / in cui si rimane / in aria / prima di tuffarsi».
A proposito: questo non conta ai fini della valutazione del film, ma Druk guadagna una maggior densità drammatica a partire dal fatto che si sa che la figlia di Thomas Vinterberg, Ida, che doveva interpretare il ruolo della figlia del protagonista, è morta in un incidente stradale alcuni giorni dopo l'inizio delle riprese. Era stata lei a raccontare al padre delle gare di bevute che si facevano nei licei danesi. Per una settimana, «per non impazzire dal dolore», Vinterberg è stato sostituito sul set dal suo co-sceneggiatore Tobias Lindholm, prima di riprendere a lavorare. Il film è dedicato a lei, ed è stato girato in parte nell'aula della sua classe, insieme ad alcuni dei suoi compagni.
- José Geraldo Couto - Pubblicato il 25/3/2021 sul Blog di cinema dell'Istituto Moreira Salles -
fonte: OutrasPalavras
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