Un viaggio alla ricerca delle radici linguistiche europee, tra la fine del Medioevo e l'inizio dell'età moderna. Dal Mediterraneo all'Inghilterra, dalla penisola iberica al Mar Egeo, o lungo la porosa frontiera che corre a ovest e a sud del mondo germanico, questo libro propone sette storie di donne e di uomini, di ebrei e di cristiani, di mercanti viaggiatori e di persone stanziali che vivono a contatto di più lingue, dentro o sui confini della Romània. Nei documenti che li riguardano, di solito dedicati a vicende private e in genere liberi da qualsiasi preoccupazione letteraria, i volgari italiani, il francese, lo spagnolo, il catalano, il provenzale si mescolano tra loro, oppure incontrano il greco, l'arabo, l'ebraico, l'inglese o il tedesco.
Manoscritti conservati in archivio, in molti casi dimenticati per secoli, aprono cosí una via d’accesso insolita alla filologia romanza, cioè alla storia dei testi e delle lingue discese dal latino che uniscono l’Europa: una storia che spesso si indaga quasi solo attraverso le testimonianze della letteratura, e che pure i documenti della vita quotidiana o del commercio illustrano nel modo piú vivido. Le pagine di questo libro propongono così di spostarsi nel tempo e nello spazio, raggiungendo luoghi ed epoche in cui la pluralità usuale delle lingue e il contatto quotidiano fra culture diverse hanno posto le basi per nuovi scambi, nuovi incontri, nuove destinazioni.
«Questa carta è come mia madre ricevette l’affitto di Padova dopo che mio padre morì». Non sappiamo esattamente quando e dove Guglielma de Niola, vedova di Stefano Venier, scrisse queste parole – e molti altri simili appunti – sulle pergamene, all’epoca ancora arrotolate e forse strette da nastri, che costituivano il suo cospicuo archivio familiare. Il contesto che possiamo immaginare è quello del laborioso riordino a cui la donna si dedicò a Venezia tra gli ultimi anni del Duecento e i primi del Trecento… In veneziano si svolsero certamente le conversazioni di Guglielma con il suo consulente (frate, notaio, o mercante che fosse): ma ancora in quegli scambi, l’anziana vedova Venier doveva forse tradire, nel modo di parlare e nell’accento, una debole traccia della lingua della sua infanzia, cioè il provenzale.
(dal risvolto di copertina di: Lorenzo Tomasin, "Europa romanza. Sette storie linguistiche". Einaudi.)
La lingua dei mercanti parlata in «Romània»
- di Nicola Cardini -
Autunno del Medioevo. Dal latino sono già nati vari idiomi, e il latino, per nulla dissolto in questi, continua a vivere come lingua a sé, antica e moderna a un tempo, sempre pronta ad adattarsi alle circostanze, abbassandosi e innalzandosi. Che ne è di tante lingue? Come si comportano le une con le altre? Dove stanno? Dove vanno?
Anzitutto, agiscono nella bocca dei parlanti. Appena pronunciate, però, spariscono, senza lasciare traccia, perché sono essenzialmente evento sonoro e momento sociale. Poi le troviamo nelle scritture, dove, invece, durano, o almeno si fissano con l’intenzione di avere una qualche durata. Pensiamo allo statuto della scrittura per eccellenza, la letteratura: dove le parole si monumentalizzano al fine di lasciare modelli di pensiero e d’espressione a coloro che saranno.
Attenzione, però: la letteratura non è decalcomania della parola parlata. La letteratura non è resa fedele e immediata dell’oralità. Qualcosa di quella potrà anche arrivare sulla pagina, ma la lingua scritta è altro rispetto alla parola pronunciata o semplicemente pensata. Non è mai spontanea, neppure quando ha l’aria d’esserlo, ma seleziona e riorganizza gli elementi trascelti secondo criteri estetici; e inclina alla regolarità morfologica, mirando fondamentalmente a coincidere con l’idea stessa di lingua nazionale. Pertanto, specie quando si legge un testo in prosa o in versi di un’epoca lontana (il Decameron, il Canzoniere petrarchesco, l’Orlando furioso, il Don Quijote etc.), non si dovrebbe mai presumere di aver sotto gli occhi un ritratto della lingua di allora, ma sarebbe più opportuno pensare di aver tra le mani un’ipotesi di lingua, una specie di “lingua a venire”. E dunque? Dobbiamo rassegnarci al fatto che lo scrivere non sarà mai un dire? Tra le due pratiche non ci sarà mai coincidenza? La letteratura sarà solo e sempre l’eternità di un’irrimediabile inconsistenza?
Per fortuna ci sono i mercanti. Anche loro scrivono, e non poco. Archivi e biblioteche di tutto il continente ne conservano memoriali, epistolari, contratti, atti. Tanto la letteratura si distacca intenzionalmente dalla parola parlata quanto la scrittura mercantile le si avvicina per necessità empirica, e dunque ingloba, mischia, giustappone elementi eterogenei, respingendo norme e codici, e arrivando a spettacolari ibridazioni. Di questa altra tendenza troviamo un suggestivo affresco nel saggio di Lorenzo Tomasin, “Europa romanza”, pubblicato di recente da Einaudi. Scrupoloso filologo e al tempo stesso raffinato, ammirevole organizzatore di notizie, Tomasin sembra plaudere con uguale entusiasmo al metodo della sineddoche che Erich Auerbach portò a perfezione in Mimesis sia a quello analogo degli studiosi di microstoria. Sceglie, dunque, certi casi emblematici, che corrispondono a certe personalità del Tre e del Quattrocento, due donne e quattro uomini (Guglielma Venier, Pietro d’Alamanno, Bondí de Iosef, Bartol de Cavalls, Isabelle Hamerton, Henri de Praroman), tutte in qualche modo esponenti del ceto mercantile, tutte recuperate dall’oscurità, tutte di diversa nazionalità, e, a partire da un campione della loro scrittura, ne fa paradigmi di contaminazione verbale. Quindi, si sposta dalla situazione specifica di ciascuno allo scrutinio di idee più generali: la progressiva emarginazione del latino, l’esportazione del francese e dell’italiano, l’uso delle traduzioni, la nascita dei dizionari.
Di dettaglio in dettaglio, di luogo in luogo, di individuo in individuo, si delinea una società transnazionale in cui la pratica della mescidanza è cospicua e dimostra di riguardare spazi della comunicazione assai più vasti che non indichino i soli reperti esaminati. Vocaboli, modi di dire, calchi, maccaronismi passano da un volgare all’altro e si confondono con il volgare prevalente creando uno spazio composito, che sembra ignorare il concetto stesso di identità linguistica, sia a livello nazionale sia a livello personale. La normatività lessicale e grammaticale, come Tomasin ben sottolinea, è un portato della letteratura. Nasce dalle teorie dei colti e dalle conseguenti campagne di normalizzazione, come il successo dei principi bembiani, in Italia, è lì a provare. La scrittura dei mercanti, al contrario, si rifiuta istintivamente di costringere le lingue entro confini geo-politici. Né si tratta solo di contaminazioni e di interferenze tra idiomi, come attestano i documenti, ma è plausibile che in certi contesti certi individui riuscissero a capirsi pur in mancanza di un codice comune o a esprimersi, con vari gradi di padronanza, nell’idioma straniero dell’interlocutore.
Tomasin indaga soprattutto la Romània, cioè lo spazio storico e geografico in cui si sono formate e affermate (seppur non sempre in modo definitivo) le lingue romanze - dalle varietà dell’italiano (veneziano o toscano) allo spagnolo al provenzale al francese. È però anche interessato all’ambito germanico, sia tedesco sia inglese, di cui offre spaccati illuminanti. Non solo. Spiega che tra mondo neolatino, o romanzo, e mondo germanico esistevano confini assai meno rigidi che non si sia voluto credere in passato, e che il Reno e il Danubio, cui fin dall’antichità si è assegnata la funzione di distinguere nettamente la civiltà romana da quella germanica, valevano più da cerniere che da barriere.
Un ultimo capitolo, irrompendo nell’età moderna, porta il discorso dalla sfera mercantile in quella musicale. Da campioni fanno adesso Orlando di Lasso e Wolfgang Amadeus Mozart. Entrambi rivelano una felice predilezione per il plurilinguismo. Le ragioni, certo, ormai sono diverse, e così le modalità. Eppure, nelle mutate circostanze, una qualche strana continuità è riconoscibile. E altro non è che quella vocazione inclusiva che faceva capolino nei piccoli appunti veneto-provenzaleggianti di Guglielma e, ancora timidamente, ma non perciò senza forza, già costituiva una comunanza e una condivisione culturale e civile prima ancora che linguistica: l’Europa. Proprio questa, l’Europa, l’ottimo libro di Tomasin ci spinge a ripensare e a ritrovare nei barlumi di un’originaria koinè.
- Nicola Cardini - Pubblicato sul Sole del 14/3/2021 -
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