Possono gli animali spiegare la bestialità del potere? In questo saggio, lo storico tedesco Jan Mohnhaupt scopre un capitolo trascurato della storia del nazionalsocialismo, quello degli animali nella vita quotidiana e nell’ideologia della dittatura. Fonti e documenti per lo più inediti raccontano il modo in cui la propaganda utilizzava gli animali per sostenere la superiorità ariana e fomentare l’odio razziale, fra uomini che diventano bestie, bestie assurte a uomini, animali padroni e animali schiavi.
Le aberrazioni naziste vengono analizzate attraverso la lente di una categoria animale: dal lupo come principio totemico ai leoni di Göring, dai gatti «infedeli quanto gli ebrei» fino ai maiali dominatori, dai milioni di cavalli impiegati sul fronte orientale fino ai coleotteri utilizzati come arma bellica. Diari, manuali scolastici, riviste d’epoca mostrano la glorificazione dei bachi da seta, che dovevano sostenere la produzione tessile del Reich, e quella dei cervi, simbolo della primigenia foresta germanica, mentre pidocchi e pulci venivano raffigurati con i colori delle bandiere nemiche.
Questo tema storiografico offre un’originale chiave di lettura che fa emergere aspetti poco conosciuti della persecuzione razziale. Mohnhaupt, inoltre, sfata il mito ancora in voga del nazismo come ideologia «animalista», portando alla luce le sue folli contraddizioni.
In queste pagine, molto intense eppure mai scabrose, si dispiega tutta l’assurdità del potere insieme alle insidie, sempre in agguato, del suo linguaggio. Una riflessione che ci porta fino ai nostri giorni.
(dal risvolto di copertina di: Jan Mohnhaupt, "Bestiario nazista. Gli animali del Terzo Reich", Bollati Boringhieri, €20.)
Tedeschi, fuori i gatti dalle case! Non sono ariani
Dagli orsi ai bachi da seta, uno studioso ripercorre il rapporto quotidiano con gli animai ai tempi del nazismo
- di Francesco Filippi -
A Buchenwald, vicino Weimar, a partire dal 1937 e per tutta la durata della guerra ci sono due recinti di filo spinato: in uno sono rinchiusi i prigionieri del campo di concentramento, che a migliaia muoiono di violenza, fame e la lavoro; nell'altro, che si trova accanto al primo, è racchiuso il giardino zoologico delle SS, in cui sono tenuti gli animali che devono servire da svago ai carcerieri. Orsi, scimmie e uccelli rapaci che vengono accuditi con amore e attenzione: quando la guerra irrigidisce le norme sul razionamento, le già scarse porzioni di cibo destinate ai prigionieri sono utilizzate per sfamare gli animai. Karl Koch, il comandante del campo, si preoccupa molto, fino all'ultimo, del benessere degli ospiti dello zoo di Buchenwald.
Jan Mohnhaupt, nel suo "Bestiario nazista". affronta uno dei temi meno esplorati eppure più interessanti nella grande mole degli studi sul periodo: il particolare rapporto tra l'ideologia hitleriana e il mondo degli animali. Una relazione ambigua, inquinata da pregiudizi pseudoscientifici, leggende nere e contraddizioni paradossali. L'autore sottolinea come per molto tempo il tema nazismo-animali non sia stato tra i favoriti dagli storici per il timore di alimentare una visione in qualche modo «bonaria» del regime tedesco: dalle leggi in difesa degli animali varate negli anni Trenta, all'attenzione per determinati problemi ambientali come la deforestazione passando per l'ormai famosa passione di Hitler per i cani; la diffusa paura in alcuni era quella di poter mettere in luce aspetti in qualche modo positivi di una delle dittature più efferate della storia.
Timori che Mohnhaupt fuga nel suo saggio, compiendo un attento lavoro di ricerca attorno ai molti aspetti che riguardano il rapporto tra l'ideologia e gli animali e analizzando gli atteggiamenti ufficiali ma anche le derive propagandistiche date dai singoli gerarchi e dalle loro manie. Il risultato è un testo puntuale che smonta e ridefinisce i contorni della bufala che dipinge il totalitarismo tedesco come uno strenuo difensore dei diritti degli animali.
Mohnhaupt ripercorre ad esempio gli atteggiamenti dei vertici nazisti riportandoli al loro carattere maniacale: su tutti Adolf Hitler e il rapporto coi cani, in particolare i pastori tedeschi, che egli ama soprattutto per la loro cieca fedeltà e obbedienza. Un attacco geloso e malsano, lontano da quella «cinofilia» che a volte è stata utilizzata per tentare di dare un accento «umano» alla figura del dittatore. Il suo, è un sentimento malato, possessivo, che porta il Führer a minacciare di far fucilare il cane che si concede alle carezze di qualche ospite del suo ritiro montano, il Berghof. Un modo di porsi simile a quello che Hitler ha nei confronti dello stesso popolo tedesco.
E poi c'è Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz. che ha bisogno di lunghe cavalcate con i suoi fidati e coccolati stalloni per scrollarsi di dosso gli orrori a cui assiste durante le giornate passate a sterminare prigionieri. Negli interrogatori di Norimberga, avrà per i suoi cavalli parole di vero affetto, cosa che non riuscirà invece a mostrare per le centinaia di migliaia di persone che avrà ucciso.
Un caso a parte è Hermann Göring, l'eccentrico numero due del regime che assume, tra le altre, la carica di «guardiacaccia del Reich» e crea immense riserve nella Germania orientale destinate al proprio personale divertimento. Per lui gli animali sono soprattutto trofei da mostrare per alimentare la sua aura principesca: arriva a farsi donare cuccioli di leone dagli zoo tedeschi per poterli sfoggiare coi suoi ospiti.
L'analisi di Mohnhaupt non si ferma ai casi singoli, ma offre una panoramica concreta sul rapporto del regime nazista con gli animali necessari allo sforzo bellico. I maiali, ad esempio, il cui allevamento intensivo avrebbe dovuto garantire l'autosufficienza alimentare alla Germania e che poi finiscono macellati a milioni quando le patate che servono a foraggiarli diventano indispensabile per nutrire i tedeschi ridotti alla fame. I bachi da seta, necessari all'industria aeronautica e al cui allevamento intensivo vengono spinte le scuole di mezza Germania. E poi i milioni di animali da tiro impiegati durante le campagne militari della Wehrmacht, mandati a morire di terrori e stenti sui vari fronti di guerra in una vera e propria ecatombe animale.
"Bestiario nazista" getta luce soprattutto su un concetto fondamentale per comprendere questo aspetto del totalitarismo tedesco: quella nazista non è un'ideologia animalista, come qualcuno tenta a volte di affermare, ma è piuttosto un'ideologia animalesca, che eleva a prassi umana la presunta violenza del mondo animale. In un tentativo di giustificare la società tedesca paragonandola alla natura, i nazisti creano tra gli animali una strampalata gerarchia di dignità come la si pretende e impone tra gli esseri umani. Gli insetti infestanti, che vanno sterminati, sono il paragone principale con cui si chiarisce il destino dei nemici dello Stato. Il gatto domestico, visto come una bocca inoperosa nelle città del Reich in guerra. è osteggiato e definito «animale semita» dalla propaganda. perché infido e troppo indipendente. Viene invece esaltato il cane, per la sua fedeltà incondizionata, virtù chiave di tutti i totalitarismi. e per la sua utilità: impiegato per i servizi di guardia nei Lager e addestrato alla ferocia nei confronti dei prigionieri. Su tutti, i pastori tedeschi, i prediletti delle SS, entrano nell'immaginario collettivo: i loro latrati diventano l'inconfondibile sottofondo della violenza della bestie naziste.
Mohmhaupt rivela come quello nazista sia soprattutto un tentativo di giustificazione e mette in luce le contraddizioni di un modello che crede erroneamente di trovare tra gli animali esempi per la società tedesca del tempo. Il risultato, come appare chiaro dalle pagine di "Bestiario nazista", è invece quello di confermare un dato di fatto che i veri amanti degli animali conoscono già: l'unica vera violenza di massa, insensata e gratuita è quella messa in campo a livello non «naturale» ma industriale. è la brutalità tecnologica che solo l'essere umano sa praticare.
- Francesco Filippi - Pubblicato su Tuttolibri del 20/3/2021 -
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