« Non siamo mai stati così liberi come sotto l'occupazione tedesca. Avevamo perduto ogni diritto e prima di tutto quello di parlare; ci insultavano apertamente, ogni giorno, e dovevamo tacere; ci deportavano in massa, come lavoratori, come ebrei, come prigionieri politici; ovunque - sui muri, sui giornali, sugli schermi - ritrovavamo l'immagine immonda e insulsa che i nostri oppressori volevano darci di noi stessi: ma proprio per questo eravamo liberi. Il veleno nazista si insinuava nel profondo dei nostri pensieri e quindi ogni pensiero giusto era una conquista; una polizia onnipotente cercava di costringerci al silenzio e quindi ogni parola diventava preziosa come una dichiarazione di principio; eravamo braccati e quindi in ogni nostro gesto gravava il peso dell'impegno. Le circostanze spesso atroci della nostra lotta ci rendevano finalmente in grado di vivere, senza trucchi e senza veli, questa situazione straziante, insostenibile che chiamiamo la condizione umana »
(dal risvolto di copertina di: Jean-Paul Sartre, "Parigi occupata". Il Melangolo)
Nel cuore della rivolta armato di taccuino
- Membro del Comitato nazionale del fronte per il teatro su invito di Camus racconta l’insurrezione di Parigi -
- di Mario Baudino -
Jean Paul Sartre lascia da parte la teoria e diventa l’illustre cronista della rivolta di Parigi: lo fa nelle giornate fra il 19 e il 23 agosto del ’44 quando, dopo lo sbarco in Normandia, i tedeschi furono costretti a difendersi e di fatto a preparare l’evacuazione della città che Hitler, com’è noto, voleva fosse rasa al suolo. Il quarantenne e già ben noto filosofo - aveva pubblicato in piena occupazione L’essere e il nulla - si lanciò per le strade, possiamo immaginare armato di taccuino, intanto come «resistente» - era membro del Comitato nazionale del fronte per il teatro - ma anche su invito di Albert Camus, caporedattore della rivista Combat. Il testo, raccolto poi nella prima edizione di Situations, e di cui riportiamo a seguire un estratto, è un esempio sorprendente di scrittura in presa diretta, vivacissima, di una narrativa in sintonia con la realtà pulviscolare dei fatti.
Quando la Resistenza proclama l’insurrezione ancora non si sa nulla – ci si limita a sperare e confidare – sui tempi dell’arrivo della Terza Armata americana e sulla divisione blindata del generale Leclerc che secondo gli accordi fra De Gaulle e gli Alleati sarebbe dovuta essere la prima a entrare in Parigi. La situazione è caotica, ma già si sta celebrando una sorta di festa. Si spara, si muore, e la gente continua ad aggirarsi per le strade come se niente fosse, eccitata e fiera di partecipare a un momento storico, di cancellare la vergogna della capitolazione, dell’occupazione, di Vichy. Sartre si comporta esattamente come i parigini. Non combatte, ma gira la città in bicicletta o a piedi, da una parte e dell’altra della Senna, dorme negli hotel, si rifugia in casa di amici, organizza gli attori dei teatro occupato, si fa persino scappare, con molto dispiacere, una spia tedesca.
Vive in una situazione di eccezione e forse di ebbrezza. In qualche modo il filosofo si ritrova come Fabrizio del Dongo a Waterloo, nel cuore della battaglia ma senza poter cogliere il senso globale di ciò che sta accadendo (però a differenza del personaggio di Stendhal eviterà di gridare soddisfatto «finalmente! l’ho visto il fuoco, Ora sono un soldato davvero»). Lui, pur con la sua retorica fiammeggiante, sta aderente al dato empirico; descrive, mette insieme i pezzi di un mosaico a venire. Ricorda, se mai, l’Orwell di Omaggio alla Catalogna, nelle pagine sugli scontri fra anarchici e comunisti a Barcellona. E ancora non sa, né scriverà a cose fatte, che i primi a mettere piede a Parigi, con il generale Leclerc, furono proprio i soldati della Nueve, compagnia formata da veterani delle guerra spagnola.
A lui interessa, com’è giusto, la Francia nel momento in cui supera finalmente la lunga vergogna, tema trasversale non solo nella sua opera ma proprio in questa raccolta di scritti pubblicati dal Melangolo, tutti attinenti l’occupazione, il collaborazionismo, l’antisemitismo e naturalmente la guerra. Negli altri (ma non nel ritratto di Drieu La Rochelle, durissimo, feroce, e implacabile: una condanna umana e storica) rivediamo a tratti il Sartre più ideologico, e in quel momento molto simpatetico con l’Urss. In un testo dove ancora ragiona sulla insurrezione di Parigi, costruisce ad esempio una sorta di sillogismo un po’ fazioso, finendo per dare il merito del successo, seppure indiretto, ai russi: se infatti «non avessero impegnato e poi sconfitto la maggior parte delle divisioni tedesche», gli americani non sarebbero arrivati sulla Senna. Poi fa un piccolo passo indietro e conclude che quanto è accaduto «è stato il frutto dell’azione comune».
Sono affermazioni, queste, tanto per tornare al parallelo con la Spagna, che mandavano in bestia George Orwell. Il quale, a proposito di un importante libro sartriano sull’antisemitismo, Riflessioni sulla questione ebraica, pubblicato nel ’46 e di cui qui leggiamo quello che sarebbe divenuto il primo capitolo, dopo averlo ricevuto scrisse piccato (al suo editore) che considerava il filosofo «un pallone gonfiato». Esagerava, ma il saggio va letto con la dovuta attenzione: a partire dalla tesi forse un po’ schematica che in Francia l’antisemitismo è stato sempre caratteristico della piccola borghesia. Qualche episodio recente, dell’epoca dei gilet gialli, sembra non dargli del tutto torto.
- di Mario Baudino - Pubblicato su Tuttolibri del 30 maggio 2020 -
"Una fisarmonica suona la Traviata e lungo la Senna si spara per la libertà”
- di Jean-Paul Sartre -
Riporto solo quello che ho visto; quello che chiunque, camminando, avrebbe potuto vedere. Oggi parlerò dei civili. Tutto è iniziato come fosse una festa; boulevard Saint-Germain, deserto e svuotato dalle raffiche intermittenti delle mitragliatrici, mantiene ancora oggi una certa aria di tragica solennità. Senza volerlo ci vengono in mente quelle domeniche del passato, domeniche del tempo di pace, quando la folla si accalcava alle fiere, alle manifestazioni sportive e all’improvviso succedeva un incidente. Allora passava un’ondata di agitazione che scuoteva i vestiti chiari; i volti, con ancora i segni della spensieratezza, impallidivano per l’angoscia e si chinavano sotto il sole su un corpo insanguinato. Una festa, ma una festa come tre domeniche di sangue di seguito. Ancora ieri, chi fosse arrivato a Parigi dalla porta di Orléans e avesse percorso i viali più periferici, le strade piccole e grandi del XIV arrondissement, chi fosse sceso, arrivando dalla Borsa, per rue Montorgueil, sarebbe rimasto colpito dal loro aspetto.
La strada, questo teatro
Tra i negozi ermeticamente chiusi, con le saracinesche abbassate, le persone si riuniscono in piccoli gruppi davanti ai portoni. Si avvicinano a una venditrice ambulante, si siedono all’aperto, ai tavolini di un caffè chiuso, leggono e rileggono per la ventesima volta i comunicati della Resistenza. Parlano poco. Il primo giorno si sentivano ancora qua e là i piagnistei delle vecchie inacidite: «Al commissariato hanno strappato la fotografia del Maresciallo. L’ho visto coi miei occhi. Ma signora, si può? Nemmeno un po’ di rispetto per la sua età!». Ma queste sono le persone che si sono rintanate in casa, nei loro appartamenti, non appena sono stati sparati i primi colpi. La folla invece è silenziosa e compatta. Sui volti, tesi, si legge un misto di angoscia, attesa e gioia. Molti sentono così intensamente l’importanza del momento tanto da indossare istintivamente i vestiti più belli. E restano così, immobili, nella strada che si è trasformata, proprio come nel 1789 e nel 1848, nel teatro dei grandi movimenti collettivi e della vita sociale.
Si spara
L’insurrezione non si vede ovunque. A rue de la Gaîté, un uomo suona La Traviata con la fisarmonica, seduto su un seggiolino; la gente si accalca in un bistrot mezzo aperto e beve un bicchiere. Sulle sponde della Senna uomini e donne fanno il bagno, prendono il sole in costume. E tuttavia dappertutto si combatte. Nel quartiere più tranquillo, ogni due o tre minuti, si sente il rumore secco come di un sasso che cade a terra: è una pallottola di fucile. Oppure, all’improvviso, ecco una scarica di mitragliatrice, venuta da non si sa dove. Rumori inspiegabili: non ci sono tedeschi nei dintorni, le F.F.I 3 sono lontane. Nessuno cerca la chiave del mistero. Le persone si guardano e con aria grave dicono: «Si spara», questo è tutto. Altre volte, si vede un piccolissimo lampo tra le foglie di un albero, si sente uno strano rimbalzo da un ramo all’altro: ed ecco una pallottola vagante che cade. Oppure si sente la terra tremare, ed ecco un camion di tedeschi che passa, carico di fucili. Sotto il telone si intravedono degli uomini dal volto tirato, con gli occhi dilatati dalla fatica e dall’angoscia, pronti a sparare sulla folla. Dove vanno? Nessuno lo sa. Lo sguardo li segue un attimo, e subito alcuni dicono: «Ritornano dal fronte, scappano», altri invece: «Vanno ad attaccare la Prefettura». E poi tutti tacciono e guardano le colonne di fumo che in lontananza si levano in alto. Magazzini che bruciano? Palazzi in fiamme? Nessuno lo sa. Nessuno sa niente. Qualcuno sospira: «Forse gli americani stanno per arrivare?», e qualcun altro gli risponde: «Possiamo anche liberare Parigi da soli».
Ostinazione
Di colpo, in fondo alla strada, alcuni uomini attraversano correndo e altri si vanno a nascondere nei palazzi. In un attimo, la strada è deserta. Sta passando un carrarmato, un ammasso di ferraglia arrugginita e dall’aspetto sinistro. Tutti sanno che domenica mattina «loro» hanno sparato sulla folla che stava andando a messa a Saint-Germain-des-Près; che «loro» hanno ferito delle anziane signore senza alcun motivo al carrefour Montparnasse. I carrarmati attraversano la strada vuota, scompaiono e un istante dopo i gruppi di persone si sono già riformati. Quello che colpisce di più è proprio questa tenacia della vita sociale che rinasce ogni volta, che anche nelle ore più tragiche si ricostituisce aggrappandosi ovunque, come l’edera sulla roccia, che pazientemente con i suoi passi ricopre le tracce del sangue ancora fresco. A boulevard Saint-Germain, all’angolo con rue de Seine, ogni due ore vengono uccisi dei civili. Dalla mia finestra ho visto i tedeschi riversarsi per strada a ranghi serrati e dare una scarica di mitragliatrici sui marciapiedi. Non appena spariscono, le infermiere portano via i corpi e la folla rinasce, come per incanto. Non bisogna pensare che sia, quella della folla, un’ottusa ostinazione: per prima cosa si deve mangiare e molte donne sono costrette a fare la coda agli ingressi delle panetterie, ma soprattutto tutti hanno bisogno, in questi momenti di esaltazione e di gioia, di rimmergersi appena possibile nella vita collettiva.
Un camion come un granchio
Ma poi chi vorrebbe restare chiuso in casa quando Parigi si batte per la sua libertà? Il pericolo, del resto, è imprevedibile. Alle tre del pomeriggio è in un posto, alle quattro in un altro: perché cercare di evitarlo? In quest’ostinazione c’è qualcosa di grandioso che conferisce a Parigi la sua fisionomia straordinaria: camminiamo per un centinaio di metri, in una strada qualunque, anche festosa, e poi svoltando l’angolo ci dobbiamo fermare perché si combatte, si sente il fischio delle pallottole, c’è la morte. Ieri sono andato dalla calma rue Montorgueil fino a Les Halle che era praticamente un deserto. In mezzo alla strada c’era un enorme camion ribaltato, come un granchio sul dorso. A due passi da lì, davanti a un’infermeria, due barelle macchiate di sangue e, dalla porta semiaperta, il viso pallido di un’infermiera.
E il silenzio. Era successo «qualcosa», ma ora tutto era finito. Al centro della strada restava solo un ammasso di ferro e il sangue. Di nuovo si vedono le persone andare in tutte le direzioni e cinque minuti più tardi sono tutti intorno al camion capovolto. Ho imboccato una strada a caso. Sul Pont-Neuf si combatteva e sulla passarella del Pont des Arts avevano messo una guardiola da cui un uomo col casco continuava a ripetere: «Presto, presto». Ma all’improvviso, la folla torna indietro: sull’altra sponda si vede una pattuglia tedesca in formazione da combattimento. I resistenti, ben nascosti, iniziano a sparare e i tedeschi rispondono. I civili, senza troppa fretta, scendono sull’argine del fiume e aspettano. Aspettano con pazienza, senza rabbia, solo con un po’ d’angoscia, come aspettano «il pane quotidiano» all’ingresso delle panetterie. Aspettano l’arrivo degli americani.
Destino di Parigi
Dopo pochi istanti, un veicolo carico di tedeschi compare dietro ai soldati che gli fanno segno di partire, ma dato che si mette in moto troppo lentamente, come controvoglia, lo minacciano con i fucili. La folla corre faticosamente, un po’ divertita, un po’ ansiosa. Ha raggiunto il ponte del Carrousel e ha rallentato il passo. A sinistra, il Pont Neuf, su cui si combatteva, e la passerella del Pont des Arts, deserta. A destra, una no man’s land: le Tuileries sbarrate, circondate dal filo spinato, con in lontananza la sagoma verde di un tedesco. Una specie di eternità tragica pesava su ogni singola pietra, la folla si sentiva all’improvviso schiacciata da un destino di piombo.
A quattro zampe
Non appena si era iniziato a combattere sul ponte Neuf, gli spari cominciarono a risuonare anche all’altezza del Pont des Arts. Donne, giovani, vecchi, continuavano a camminare ma abbassandosi un po’, come per precauzione. Subito dopo, però, le pallottole iniziarono a rimbalzare sull’arcata del ponte. Allora, ridendo un po’, le persone si misero a camminare a quattro zampe. C’era solo una strada da superare e poi tutti avrebbero trovato rifugio in rue des Saints Pères. Non erano mai stati così vicini ai combattimenti, si sparava a cinquanta metri da loro e tuttavia il destino, la morte, erano scomparsi. Bastava solo arrivare all’angolo della strada, svoltare, per ritrovare subito la calma: gente in maniche di camicia davanti ai portoni, qualche negozio aperto, la grande e tragica sospensione del tempo dei giorni di sommossa.
- Jean Paul Sartre - scritto da Sartre il 22 agosto 1944, pubblicato dal Melangolo in «Parigi occupata» -
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