Le idee illuministe hanno dato forma alle tematiche delle razze e della supremazia bianca
- Come l'Illuminismo ha creato il pensiero razzista contemporaneo e perché questo non vada sottaciuto -
di Jamelle Boie
L'Illuminismo si trova in pieno revival. Un gruppo di autori centristi e conservatori si richiama al movimento intellettuale del 17° e del 18° secolo; che viene visto come una risposta al nazionalismo ed ai paraocchi etnici della destra, da una parte, ed al relativismo e all'ideologia diversitaria [N.d.T.: "diversitario": persona che, in un partito, non fa parte di nessuna corrente] della sinistra. Fra di loro, Jordan Pederson, psicologo canadese che si ritiene un baluardo contro le forze del «caos» e del «postmodernismo»; Steven Pinker, psicologo cognitivo di Harvard che difende, facendo parte di «Enlightenment Now», l'ottimismo ed il progresso umano contro tutti quelli che «disprezzano gli ideali dell'Illuminismo, della ragione, della scienza, dell'umanismo e del progresso»; oppure anche il filantropo conservatore Jonah Goldberg che, in «Suicide of the West», si pronuncia a favore del capitalismo e del liberalismo degli Illuministi, due forze che egli definisce «miracoli», in quanto hanno creato al prosperità occidentale. Se stiamo ad ascoltarli, la storia dei Lumi scorre liscia e dritta verso il progresso, e le tendenze maggiori che sono la razza ed il colonialismo vengono ignorate; tutt'al più vengono semplicemente ammesse. Separati dal loro contesto culturale e storico, questi «Lumi» agiscono come se fossero una specie di talismano ideologico, dal momento che non hanno niente a che fare con idee controverse, o con la comprensione della storia, quanto piuttosto con l'identità. Si tratta di un canone, il quale viene usato per distinguere quelli che ne sono partigiani a partire dalla loro dedizione a favore del «razionalismo» e del «liberalismo classico». Ma in realtà, mentre adorano l'Illuminismo, questi autori sottovalutano quella che è stata la sua influenza sul mondo moderno. In cuor suo, il movimento contiene un paradosso: le sue idee di libertà umana e di diritti individuali affondano le radici in delle nazioni che, all'inizio dello sterminio delle popolazioni autoctone, tenevano in schiavitù altri esseri umani. Il dominio coloniale e l'espropriazione sarebbero andati di pari passo con la diffusione della «libertà», ed il liberalismo sarebbe emerso insieme a quelli sono i nostri concetti moderni di razza e di razzismo.
Una tassonomia razziale tenace
Non si è trattato di processi accessori, e neppure di semplici resti provenienti dalle precedenti discriminazioni. La razza, così come la concepiamo e la intendiamo al giorno d'oggi - una tassonomia biologica che trasforma le differenze fisiche in relazioni di dominio - è un prodotto dell'Illuminismo. Il razzismo, così come lo concepiamo e lo intendiamo oggi - un ordine socio-politico fondato sulla gerarchizzazione perpetua di gruppi specifici - sarebbe emerso come tentativo di risolvere una contraddizione fondamentale tra il diffondersi della libertà ed il mantenimento della schiavitù. Coloro che intendono adornarsi dell'abito dei Lumi dovrebbero considerare in cosa consista una simile eredità e cosa essa significhi ai fini della nostra comprensione del mondo moderno.
Dire che la «razza» ed il «razzismo» sono dei prodotti dell'Illuminismo non significa certo che gli esseri umani non abbiano mai posseduto schiavi, né che prima del 18° secolo non siano mai stati classificati gli uni rispetto agli altri. Ci sono delle ricerche recenti che mostrano come esistessero delle forme prototipiche e precoci di pensiero razziale moderno (che potremmo designare come razzismo) che esistevano nell'Europa medievale, che poi hanno cominciato ad assumere forme moderne nel 15° e nel 16° secolo. In Spagna, per esempio, si può osservare un passaggio dall'antigiudaismo all'antisemitismo - è l'origine ebraica in sé che diventa motivo di sospetto, e non più solo la pratica della religione ebraica. E come sottolinea lo storico George Fredrickson in "Racism: A Short History", «i pregiudizi e le discriminazioni di una parte dell'Europa nei confronti degli irlandesi da un lato, e dall'altro contro alcune popolazioni slave, hanno prefigurato la dicotomia tra civiltà e barbarie che ha caratterizzato l'espansione imperiale al di fuori del continente europeo». Analogamente, si possono trovare nell'Antichità delle nascenti espressioni di queste idee - in realtà, i primi pensatori moderni hanno attinto proprio a queste fonti per costruire quella che è la nostra nozione di razza.
Ma ci sarà bisogno del pensiero scientifico dei Lumi per poter creare una tassonomia razziale tenace, e ci vorrà l'ideologia di una «codice di colore, in cui il bianco è superiore al nero» con cui ormai abbiamo familiarità. Questo progetto, intrapreso dai maggiori pensatori dell'epoca, richiedeva che si arrivasse a «mettere da parte l'ordine metafisico e teologico delle cose, per preferire una descrizione ed una classificazione più logica che ordinasse l'umanità secondo criteri fisiologici e mentali basati su "fatti" osservabili e su delle prove sperimentali», come scrive lo storico Ivan Hannaford nel suo "Race: The History of an Idea in the West".
Secondo Kant, «i Negri si collocano parecchio più in basso» dei bianchi
Nella sua autorevole tesi del 1776, De generis humani varietate nativa liber ("Della naturale varietà dell'Umanità"), Johann Friedrich Blumenbach postula cinque divisioni dell'umanità a comincare dai «Caucasici». Un quadro che evolverà in teorie di differenza razziale, sviluppato al fine di risolvere la quadratura di quello che era un cerchio concettuale. Se i diritti naturali sono universali - se tutti posseggono la capacità di ragionare - come spiegare allora la schiavitù degi africani o quella dei «selvaggi» nelle Americhe, che non sembrano né agire né ragionare come i bianchi europei?
Risposta: a causa della loro inferiorità biologica, secondo tali classificazioni razziali!
Emmanuel Kant, nella sua opera antropologica traccerà una gerarchia razziale ancora più formidabile. «Nei paesi caldi», scrive, «gli uomini maturano più velocemente sotto tutti gli aspetti, ma arrivano mai a raggiungere la perfezione delle zone temperate. L'umanità ottiene la sua perfezione nella razza dei Bianchi. Già gli Indiani gialli hanno meno talento. I Negri si collocano parecchio più in basso.» Altrove, Kant afferma che i Bianchi «negli affetti e nelle passioni, possiedono tutte le pulsioni della natura, ogni talento, tutte le attitudini alla cultura e alla civiltà, e sono in grado tanto di obbedire prontamente quanto di governare. Essi sono gli unici che avanzano sempre verso la perfezione.» Questa teorizzazione razziale, non può essere semplicemente separata da quella filosofia morale per cui Kant viene acclamato, poiché, come sottolinea Emmanuel Eze, essa rappresenta una parte sostanziale di quella che è stata l'opera del filosofo. In "The Color of Reason: The Idea of ‘Race’ in Kant’s Anthropology", Eze scrive: «La posizione di Kant circa l'importanza del colore della pelle, non solo come codificazione ma anche come prova della codificazione della superiorità o dell'inferiorità razionale, viene chiarita in un commento che egli fa a proposito della capacità di ragionamento da parte di una persona "nera". Nel valutare una dichiarazione enunciata da un africano, Kant la respinge aggiungendo: "Quest'uomo era completamente nero dalla testa ai piedi, e questo dimostra che ciò che ha detto era stupido". Pertanto, non si può sostenere che in Kant il colore della pelle fosse solo una caratteristica fisica. Era piuttosto il marchio di una qualità morale permanente ed immutabile.» Negli anni Novanta, il riesame dell'opera kantiana da parte di Eze susciterà una valanga di ricerche e di discussioni - sia negative che positive. In ogni caso, si può legittimamente sostenere che la teoria razziale di Kant sia importante ai fini della nostra comprensione della razza. Su questo punto, il filosofo Robert Bernasconi non usa mezzi termini: «[Kant] ha fornito la prima definizione scientifica della razza; l'ha difesa quando è stata contestata, ed ha seguito quella che ne è stata la sua adozione da parte dei principali specialisti di varietà umane dell'epoca.»
Locke conferisce ai proprietari «potere ed autorità assoluta» sui loro chiavi
John Locke è anteriore a Kant, ma la sua opera mostra tutta l'influenza del pensiero razziale moderno. In "The Contradictions of Racism: Locke, Slavery and the Two Treatises ", Bernasconi e Anika Maaza Mann presentano questo gigante della filosofia liberale come l'architetto dello schiavismo d'ispirazione razzista che sarebbe stato messo in atto nelle colonie americane a metà del 17° secolo. In un'epoca in cui, la conversione religiosa poteva risparmiare ad un africano o ad un nativo americano la servitù permanente, Locke redige un articolo della "Costituzione fondamentale della Carolina" - il documento che regolamentava la colonia che sarebbe poi diventata la Carolina del Nord e la Carolina del Sud - in cui si afferma che «verrà permesso agli schiavi, così come a tutti gli altri, di praticare la religione che ritengono migliore. Ma questo non esonererà lo schiavo dall'obbedienza civile dovuta al suo padrone». Locke modificherà una clausola della Costituzione per poter conferire ai proprietari «potere e autorità assoluta» (e non più solo «autorità assoluta») sui loro schiavi, dando loro piena discrezionalità di trattarli come vogliono.
È vero che nel suo "Trattato sul Governo", Locke si presenta come un avversario della «schiavitù». Solo che questa «schiavitù» si riferisce a quello che è il dominio di un monarca assoluto. Nel Secondo Trattato, Locke fornisce una giustificazione per la schiavitù in seguito ad una guerra, e facendo uso della stessa retorica del «potere assoluto» conferisce ai proprietari potere di vita e di morte sui loro schiavi. Sebbene i suoi argomenti non coincidano con la schiavitù ereditaria che a quei tempi si stava realizzando tra gli americani, essi servono comunque a giustificarne la pratica. Per Bernasconi e Mann, il Locke del Trattato va letto in relazione al Lock delle Costituzioni fondamentali, e non può essere isolato dal suo ruolo di amministratore coloniale e di investitore nella tratta degli schiavi. Questo Locke, spiegano gli autori, dev'essere comprese a partire dalla sua preoccupazione principale pe «la libertà e la prosperità degli inglesi, indifferente all'idea che tali libertà e prosperità venissero acquisite a spese degli africani».
Un'argomentazione del genere può essere formulata avendo per soggetto anche i nativi americani. Nella sua "Controstoria del Liberalismo", Domenico Losurdo sottolinea come «Ripetutamente il Secondo Trattato fa riferimento al "selvaggio indiano" (wild Indian), che si aggira "protervo e nocivo nelle foreste d’America" ovvero nelle "foreste vergini e incolte praterie dell’America" (TT, II, 26,92, 37)». Per Locke, «Dio ha dato la terra agli uomini in comune: ma, poiché l'ha data a loro anche perché ne traggano i più grandi vantaggi, e per avere le più grandi comodità della vita che ne possono trarre, non possiamo supporre e credere che questo voglia dire che la terra debba rimane sempre in comune e sempre incolta». Visto nel contesto della colonizzazione inglese, questo è un argomento che giustifica il furto. Va notato che questo punto di vista è controverso. Ci sono delle ricerche recenti che rimettono in discussione questa visione di Locke - collocandola in un contesto più ampio che rende il filosofo meno tollerante nei confronti della schiavitù di quanto possa sembrare. Ma dal momento che egli è stato uno dei pensatori più letti del suo tempo, la sua opera di fatto avrebbe influenzato i proprietari di schiavi, compreso anche l'autore della Dichiarazione d'Indipendenza, Thomas Jefferson, e quello della Costituzione, per i quali la schiavitù razziale e l'espropriazione dei popoli indigeni erano compatibili con i diritti naturali e con il governo rappresentativo. Decenni più tardi, John C. Calhoun, della Carolina del Sud, nella sua difesa delle libertà individuali e nei suoi attacchi ai «governi assoluti», che trasformano «i governati» in «schiavi dei governanti», si riferirà a Locke. Naturalmente, la causa difesa da Calhoun era lo schiavismo.
Solo la rivoluzione haitiana ha reso giustizia alle aspirazioni universali dell'Illuminismo
Per Charles Mills, filosofo contemporaneo, questo movimento congiunto di liberalismo e di supremazia bianca - che si tratti del contratto sociale di Locke o della teoria morale di Kant - giustifica l'esistenza di un «contratto razziale» soggiacente e alla base del progetto illuminista. «Il Contratto Razziale stabilisce una politica razziale, uno Stato razziale ed un sistema giuridico razziale in cui lo status dei bianchi e dei non bianchi viene delineato chiaramente, tanto per la legge quanto per la consuetudine. E l'obiettivo di un tale Stato [...] è proprio quello di mantenere e riprodurre tale ordine razziale, garantendo i privilegi e i vantaggi dei cittadini bianchi e mantenendo la subordinazione dei non bianchi». Con il diffondersi nel mondo delle potenze europee, esse usavano e diffondevano i concetti e le concezioni razziali dell'identità individuale - che erano stati concepiti per la prima volta dai pensatori illuministi - al fine di giustificare la brutalità e il dominio come motori della «civiltà». Questo paradosso tra il liberalismo illuminista e il dominio razziale, è emerso ed è stato notato fin dall'inizio. «Voi, americani, fate un gran baccano per ogni piccola violazione immaginari di ciò che considerate come le vostre liberà; e tuttavia non ci sono popoli sulla Terra che siano così tanto nemici della libertà - e allo stesso tempo tiranni assoluti, quando ne avete l'occasione - di quanto lo siete voi stessi», così lo scherniva, nel 1764, un interlocutore inglese di Benjamin Franklin. Nel 1774, in occasione del primo Congresso Continentale Americano, Samuel Johnson, a «nessuna tassa senza una rappresentanza», rispondeva con «Com'è possibile che nelle vostre orecchie gli appelli alla libertà siano più forti quando provengono di mercanti di schiavi». Nel 1776, condannando il ruolo avuto dall'Inghilterra nella tratta degli schiavi, Josiah Tucker scriveva: «Noi [...] che ci vantiamo di essere i tutori della libertà e i difensori dei diritti naturali dell'umanità, noi siamo quelli più impegnati di qualsiasi altra nazione in questo commercio disumano e omicida». E degli scrittori di origine africana, come l'haitiana Pompée Valentin Vastey, hanno sottolineato apertamente l'ipocrisia dei filosofi illuministi. Non c'è dubbio che l'unica rivoluzione illuminista che abbia reso realmente giustizia a quelle che erano le aspirazioni universali dei Lumi sia stata la Rivoluzione haitiana, i cui artefici - come Toussaint Louverture - hanno invocato quei valori per combattere lo schiavismo ed il colonialismo, e stabilire l'autogoverno.
Questa nozione di inferiorità intrinseca di certi esseri umano ha sempre avuto peso nella nostra società
Oggi, quelli che sono i discorsi più popolari sull'Illuminismo ignorano questa contraddizione insieme a quelle che ne sono le sue manifestazioni contemporanee, che si possono vedere nel persistere delle gerarchie razziali in quella che è la più vecchia democrazia del mondo. Alcuni autoproclamatisi difensori degli ideali dell'Illuminismo hanno persino osato ridicolizzare l'idea che ci sia un legame tra illuminismo e le nostre concezioni moderne di razza e di gerarchia razziale, come se non una ricerca in materia neppure esistesse. Una simile scelta non è solo deplorevole, ma è soprattutto ironica: è un tradimento di quelli che sono i principi superiori dei Lumi e della loro glorificazione dei fatti, dell'osservazione, della ragione e della capacità di riflessione. Ed inoltre è anche pericoloso.
Per quel che riguarda la questione della razza e della supremazia bianca, viviamo ancora in un mondo modellato dalle idee dell'Illuminismo. Queste nozioni di quella che sarebbe un'inferiorità inerente a certi esseri umani hanno sempre avuto un certo peso nella nostra società. Ed il liberalismo politico rimane ancora un po' troppo compatibile con simili idee. Il cammino verso un liberalismo veramente universale - e veramente liberatore - richiede che ci si confronti con la sua sinistra eredità. Affrontare il paradosso dell'Illuminismo, significa prendere sul serio i suoi valori; rifiutarsi di farlo, significa preferire l'agiografia alla verità.
- Jamelle Boie - Pubblicato su Slate France il 25/6/2018 -
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