mercoledì 10 giugno 2020

Processo alla pandemia; o al capitalismo?!?

C'èst La Lutte Finale
- di Mike Davis -

Lo scoppio dell'epidemia, che probabilmente costituisce l'Overture di un'era di pestilenze, ha anticipato e ha fatto esplodere l'«imminente recessione» che in quest'ultimo anno è stata al centro delle preoccupazioni della maggior parte degli economisti e degli osservatori finanziari. In nessun altro scenario, tuttavia, l'inevitabile collasso avrebbe potuto avere inizio con una simile sbalorditiva distruzione e perdita di controllo. La crisi ha attaccato le strutture socio-economiche ed i sistemi politici resi profondamente instabili dalla Grande Recessione del 2008-09, aprendo delle corsie preferenziali per un'ulteriore crescita di un nazionalismo estremo e del dominino della sorveglianza universale. C'è già stata l'Europa, che ha assistito al suo primo «colpo di Stato da coronavirus» con l'ungherese Viktor Orban che ha usato la pandemia come una scusa per marginalizzare il Parlamento e governare per decreto; una dittatura in tutto e per tutto, tranne che nel nome. In Israele, Benjamin Netanyahu, Primo Ministro incriminato, ha anche lui invocato la crisi al fine di imbrigliare la Knesset [il Parlamento monocamerale di Israele], e nel contempo scatenava lo Shin Bet, l'equivalente nazionale dell'FBI, per intercettare le telefonate di chiunque, vista come «misura di salute pubblica». Il caso più inquietante, però, è quello dell'India, dove il governo suprematista-induista di Narenda Modi, dopo essere stato con le mani in mano nei primi tre mesi di epidemia, ora usa i musulmani come capro espiatorio e incita ai pogrom, spingendo Arundhati Roy [scrittrice e attivista indiana] a mettere in guardia sul fatto che «la situazione si sta avvicinando al genocidio!» Recentemente, il Fondo Monetario Internazionale ha previsto che la crisi «potrebbe abbattere il PIL globale, riducendolo di 9 mila miliardi di dollari nel prossimi due anni.» E questo era prima che negli Stati Uniti il prezzo del petrolio scendesse sotto lo zero. I 13 paesi dell'OPEC e le altre nazioni produttrici indipendenti di petrolio si trovano a dover affrontare tutta una serie di disastri che vanno dalla recessione turbolenta (Arabia Saudita) ala probabile rovina e fallimento (Angola). Allo stesso tempo, la catastrofica incapacità, da parte dell'amministrazione Trump, ad arginare la pandemia nei primi mesi ha causato un cupo pessimismo tardo-weimariano sul futuro degli Stati Uniti. L'immiserimento di massa sta ritornando su una scala che non si vedeva dal 1933, che vede disoccupato un terzo dei lavoratori e  prevede che entro la fine dell'anno dai 15 ai 20 milioni di americani - soprattutto bambini e minoranze - verranno ad aggiungersi alle liste dei poveri, mentre i ranghi dei non assicurati si gonfieranno fino ad interessare entro giugno 40 milioni di persone, visto che i disoccupati perderanno la copertura assicurativa garantita dal posto di lavoro. Nel loro insieme, i paesi dell'OCSE devono affrontare la prospettiva di anni di stagnazione, di alti livelli di disoccupazione strutturale, dell'estinzione di un quarto o più delle piccole imprese, e la crisi del debito.
Tuttavia, quelli che devono affrontare le possibilità più terrificanti sono i paesi a basso reddito. Oxfam ci avverte sul fatto che la crisi economica potrebbe fare sprofondare nella povertà mezzo miliardo di persone, mentre la FAO, che prima della pandemia ci aveva già messo in guardia sull'avvicinarsi di quella che sarebbe stata la peggiore carestia dai tempi della seconda guerra mondiale, ora stima incredibilmente che entro la fine di quest'anno potrebbero morire di fame fino a 256 milioni di persone. Nel peggiore dei casi, secondo David Beasley, che fa parte del World Food Programme dell'ONU, «potrebbero morire di fame, ogni giorno per un periodo di tre mesi, 300.000 persone. E questo non tiene conto dell'aumento della morte per fame dovuto al Covid-19». La gente sta già lottando per la propria vita.
Rivolte per il cibo - che ci riportano alla mente l'ondata globale di simili proteste che c'è stata nel 2008-09 - ci sono state in tutto il Sudafrica, mentre in Colombia «i residenti dello stato costiero di La Guajira hanno cominciato a bloccare le strade per richiamare l'attenzione sul loro bisogno di cibo». Le zone povere dei paesi ricchi sono in fermento. Roma ha inviato l'esercito (20.000 truppe) nel suo Sud povero - Campania, Calabria e Sicilia - in previsione delle rivolte che ci potrebbero essere quando la gente rimarrà a corto di cibo e di denaro. In una prospettiva globale, si stanno innescando reazioni a catena incontrollate all'interno di quella che appare essere una nebulosa di caos, che alcuni temono possa accelerare l'arrivo di qualcosa che sarà anche peggio della barbarie. L'attuale pandemia su scala globale, espone e allarga le divisioni esistenziali esistenti all'interno e tra le società, e ci ricorda che la sopravvivenza di quello che è il quinto più povero dell'umanità si trova ad essere sempre più in discussione. Ovviamente, una malattia infettiva non consiste solo di un agente patogeno e di quello che è il suo spettro di effetti, bensì qualcosa di simile ad un complesso ecosistema in cui l'evoluzione di un'epidemia viene modellata dai suoi ambiti sociali e naturali, in particolare dalle condizioni generali della sanità pubblica e dalla frequenza del contagio. Il Covid-19 ci sfida a riconoscere  che, da un punto di vista immunologico, ci sono due umanità e due pandemie.
Un'umanità è ben nutrita, ha accesso ad un'assistenza sanitaria competente, e soffre soprattutto di obesità e di patologie croniche. L'altra umanità è, episodicamente o continuamente, malnutrita, ha scarso o inesistente accesso alle cure sanitarie, ed è regolarmente esposta a malattie infettive. In Europa, in Nord America e nell'Asia orientale industriale, la maggior parte della popolazione appartiene alla prima categoria, sebbene la povertà ed il razzismo creino dei ghetti immunologici - che negli USA colpiscono fino al 25% della popolazione - nei quali la sanità personale si trova a metà strada si trova a metà strada rispetto al Terzo Mondo. Nella seconda umanità, che si trova per lo più nel Sud del mondo ed è composta da circa 2 miliardi di persone, la maggior parte della popolazione è immuno-compromessa a causa della malnutrizione, della diffusa contaminazione fecale, e dall'alto tasso di malattie infettive e parassitarie. Perciò, i corpi delle persone povere offrono al SARS-CoV-2 un più ricco banchetto, e nella misura in cui si diffonde attraverso le baraccopoli dell'Africa e dell'India, la mortalità tra le persone sotto i 50 anni può salire vertiginosamente. In altre parole, il massacro è appena cominciato. È ancora impossibile avere qualcosa che sia più di una visione assai limitata di quelli che sono i contorni globali di questo cataclisma biologico ed economico, in cui gli sconvolgimenti che hanno luogo nella biosfera interagiscono con gli abissi di disuguaglianza de capitalismo. Molti vorrebbero descriverla come se fosse la crisi finale dell'era neoliberista della produzione capitalistica globalizzata, cominciata con l'elezione di Margaret Thatcher nel 1979, e di Ronald Reagan un anno dopo. Ma se quella che sta annunciando è la prossima fase del capitalismo, allora si tratta probabilmente dell'età di ferro di Esiodo, quella in cui «gli dei abbandonano l'umanità» e in cui «non ci sarà alcun aiuto contro il male».
Nella parte successiva del testo, guarderò alla macro-dinamica della crisi da 4 diversi punti di vista:
1) - Nel caso del Nord America e dell'Unione Europea, cosa spiega il rapido collasso delle istituzioni preposte a monitorare e a reagire al verificarsi dell'epidemia, collasso che ha coinciso con un deficit radicale della cooperazione internazionale e del reciproco aiuto? Il nazionalismo economico ha sconfitto il capitalismo trans-nazionale?
2) - Un miliardo e mezzo di abitanti delle baraccopoli sono mortalmente minacciati sia dalla pandemia che dalla catastrofe economica, nella misura in cui l'economia africana e quella dell'Asia del sud cominciano ad implodere. Una nuova crisi del debito - su scala molto più ampia rispetto a quella degli anni Ottanta - porrà per sempre fine ad un futuro, per loro?
3) - Attualmente, la Cina è il fulcro logistico della battaglia mondiale contro il Covid-19. Ma può essere il motore in grado di tirare fuori dalla recessione l'economia globale, come ha fatto nel 2008-09? O sarà proprio essa stessa, con il suo sprofondare nella recessione, a definire quella che sarà un'epoca di stagnazione, e probabilmente di guerra?
4) - Con poche eccezioni (Norvegia e Portogallo), i partiti socialdemocratici e i movimenti progressisti hanno segnatamente fallito nel rispondere a quelli che sono i bisogni dell'umanità povera in questo mortale periodo. Il virus del «prima io» sembra che abbia un tasso di contagio molto più alto dello stesso coronavirus. Inoltre, impostare e concepire la sopravvivenza umana in termini fondamentalmente nazionalistici, sebbene accompagnata da untuose evocazioni di interessi comuni globali, equivale ad accettare una triage [N.d.T.: In un ospedale, la scelta, tra più pazienti, di quelli maggiormente bisognosi di cure] della popolazione terrestre. Un genuino internazionalismo è in grado di acquistare un nuovo impulso nelle lotte di oggi e nelle politiche della sinistra? Quali sono le necessarie forme organizzative, e quali sono le risorse necessarie per arrivare ad un simile obiettivo?

Errore di Sistema
Nonostante i piani di intervento preparati da tempo, le continue simulazioni, ed un sistema internazionale di allarme rapido, in Europa occidentale e negli Stati Uniti la pandemia è stata inarrestabile, poiché è stata in grado di sfruttare la principali vulnerabilità politiche dei sistemi sanitari pubblici nazionali ed internazionali. La Grande Recessione del 2008-09, per le istituzioni sanitarie di tutto il mondo, è stata un enorme shock fiscale, e i tagli alla sanità che sono stati attuati nella maggior parte dei paesi, sono poi rimasti e sono stati razionalizzati e visti come «necessaria austerità», sia dai governi di destra che da quelli di centro-sinistra. È stata questa la principale condizione preesistente, insieme al fallimento delle leadership, che ha pregiudicato la risposta al Covid-19 nelle nazioni ad alto reddito. Solo un mese prima che in Cina venisse annunciato lo scoppio dell'epidemia, decine di migliaia di operatori sanitari si sono riversati nelle strade di tutta Europa chiedendo forti aumenti per i budget sanitari. «Dopo un decennio di austerità», aveva avvertito l'European Public Service Union, composta da 8 milioni di membri, «i sistemi sanitari pubblici si trovano ora ad un punto di rottura, e gli operatori sanitari non sono più in grado di sopportare il peso di essere sottopagati, insufficienti e privi di risorse.» In alcuni casi, come in quello del National Health Service britannico, il sotto-finanziamento è stato parte di una più ampia strategia di destra di privatizzazione dei servizi sanitari. Nel frattempo, nel 2009, negli Stati Uniti l'amministrazione Obama aveva fatto degli importanti primi passi verso la copertura universale, ma l'Affordable Care Act continua ad essere ancora sotto l'incessante assedio da parte della destra. Ovunque abbiano ottenuto il potere, inoltre, i repubblicani si sono rifiutati di restituire i finanziamenti ai dipartimenti di sanità pubblica locali e statali, lasciando il settore con 60.000 dipendenti in meno rispetto al 2007. Queste erronee misure di austerità, e gli attacchi ideologicamente motivati al settore pubblico, che hanno compromesso la sicurezza della sanità pubblica nelle nazioni ricche, hanno eroso anche l'infrastruttura globale di prevenzione delle malattie tradizionalmente finanziata. Entro due mesi da quelli che sono stati i primi casi segnalati fuori dalla Cina, le organizzazioni chiave di quella che è la rete internazionale di sentinelle della pandemia e dei primi soccorritori - l'Organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS), il Centers for Disease Control and Prevention (CDC) degli USA ed il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie - hanno sofferto gravi fallimenti operativi, o sono stati emarginati dalle politiche nazionaliste dei governi membri.
L'OMS è stata per anni una sorta di guscio vuoto, reso debole da una cronica mancanza di fondi che lo hanno costretto a cercare l'80% dei suoi finanziamenti attraverso negoziati individuali con un pugno di paesi ricchi, con i giganti delle aziende farmaceutiche e con pochi mega-organizzazioni filantropiche come la Gates Foundation; e tutti questi hanno un potere eccessivo nel determinare quali sono le priorità. Per fare un esempio, nel 2005, durante la crisi dell'influenza aviaria si rifiutò di appoggiare la richiesta dell'India di produrre farmaci generici antivirali fondamentali - difendendo invece i brevetti e i profitti di Big Pharma in cambio di una piccola fornitura di farmaci. Dieci anni dopo, ha fallito nell'organizzare una rapida risposta all'epidemia di Ebola in Africa occidentale, un errore disastroso che ha lasciato all'amministrazione Obama il compito di organizzare all'ultimo momento uno sforzo di salvataggio. E lo scorso anno si è inchinata a Pechino ed ha riconosciuto l'efficacia della medicina tradizionale cinese: una decisione che ha sconcertato molti scienziati insieme a molti attivisti per i diritti civili.
Dalla conferma della pandemia, il direttore generale Tedros Ghebreyesus è andato continuamente a mendicare sui gradini dei governi, sia di Pechino che di Washington, elogiando contemporaneamente Xi e Trump. L'elezione di Ghebreyesus, avvenuta nel 2017, promossa da Addis Abeba e da Pechino, è stata la prima grande dimostrazione del crescente allineamento dell'Unione Africana alla politica estera cinese. Ma le speranze secondo cui questo avrebbe potuto tranquillizzare Washington, e mettere l'OMS al posto di guida della risposta internazionale all'epidemia sono state brutalmente infrante dopo che gli «odiatori della Cina» insieme ai nazionalisti economici che si trovano nel campo di Trump, guidati da Steve Bannon e Peter Navarro, hanno colto al volo l'occasione per bollare l'organizzazione come serva del Partito comunista cinese. Il Presidente, che all'inizio aveva elogiato tanto Xi quanto Ghebreyesus, alla fine ha trovato irresistibile l'OMS come capro espiatorio, e ha tagliato i finanziamenti americani (un quarto del budget dell'OMS), e lo ha fatto proprio nel momento in cui il suo lavoro era più essenziale. La decisione repubblicana di suonare i tamburi di guerra contro la Cina e contro la sua «responsabilità» per la pandemia, anziché abbracciare la cooperazione scientifica insieme ad una campagna di aiuti multilaterali, è un pericoloso e lugubre presagio della lunga battaglia che ci aspetta. Intanto, il Centers for Disease Control and Prevention (CDC) statunitense si è trovato sotto assalto già fin dall'inaugurazione di Trump, perdendo una grossa fetta del proprio budget, insieme ai suoi principali ricercatori e agenti internazionali sul campo. Nel 2018, la sua voce all'interno della Casa Bianca, il National Security Council’s Directorate for Global Health Security - un «dream team» pandemico messo insieme da Obama - venne sciolto e suoi esperti licenziati dall'allora consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, John Bolton. Lo scorso anno, appena tre mesi prima che la Cina segnalasse il focolaio di epidemia a Wuhan, l'amministrazione Trump aveva cancellato i finanziamenti  per il «Emerging Pandemic Threats PREDICT», un elogiato sistema di prima allerta istituito dall'Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale (USAID) per lavorare in tandem con i progetti all'estero del CDC. Poi, a gennaio, quando alla fine è arrivata la notizia che Covid-19 si trovava alle nostre porte, il CDC ha deciso di sviluppare i propri test anziché quelli messi a punto dai ricercatori tedeschi per l'OMS. E mentre centinai di migliaia di questi test venivano spediti in tutto il mondo, il CDC scopriva che la sua diagnostica era difettosa e forniva risultati falsi a causa di una contaminazione verificatasi nel processo produttivo. (Successivamente, la Food and Drug Administration (FDA) statunitense avrebbe riferito che questo errore della CDC era dovuto al fatto che non aveva seguito quelli che erano i suoi protocolli standard). Per tutto il mese di febbraio, periodo in cui dei test approfonditi avrebbero potuto prevenire il decollo esponenziale del contagio, il CDC ha armeggiato alla cieca mentre i suoi esperti lavoravano per riparare il test. Inoltre, quella che era la grande rete scientifica di oltreoceano del CDC, ha sempre svolto un ruolo importante a fianco dell'OMS nel corso delle campagne di vaccinazione e dell'insorgere di malattie. Ora, secondo un importante consulente dell'OMS, nella battaglia globale contro il Covid-19 è diventata «una non-entità». «Era un'organizzazione altamente professionale, di fiducia, e praticamente se ne sono andati via», ha aggiunto. «Per la salute globale. questa è una tragedia». Analogamente, a seguito della debacle riguardante i test, ha perso anche quello che era il suo tradizionale ruolo nazionale di comando del coordinamento della risposta alle malattie, e questo anche perché uno dei suoi funzionari, a febbraio, ha contraddetto le affermazioni di Trump a proposito del fatto che era «tutto sotto controllo». (Robert Redfield, il direttore, membro della chiesa dei cristiani-rinati, passa gran parte del suo tempo in un ruolo terziario di collegamento con la base religiosa di Trump.)
Il testimone, invece, è passato a quelli che sono i parenti e i leccapiedi di Trump: il vicepresidente Pence, il genero Jared Kushner, il "coordinatore" alla risposta  Deborah Birx, il presidente del Coronavirus Task Force, Alex Azar (il segretario alla sanità che si trova ora sotto minaccia di licenziamento), e il vice di Azar, Michael Caputo. Tutti questi se ne sono andati in giro come se fossero i Keystone Kops, ciascuno di loro sostenendo di essere al comando. Solo Birx è un medico, mentre la qualifica principale di Azar è il suo curriculum come lobbista capo della Eli Lilly and Company, successivamente promosso a capo delle operazioni di quest'azienda negli Stati Uniti. Caputo, invece, è un attivista della campagna repubblicana, noto sostenitore di teorie cospirative e protetto dal pregiudicato Roger Stone. La sua principale competenza sembra essere la sua abilità nel riuscire a spacciare notizie alla stampa. Dopo aver ignorato i ripetuti avvertimenti secondo i quali la Strategic National Stockpile di forniture mediche era sul punto di esaurirsi, Kushner e gli altri hanno alzato una cortina fumogena di false affermazioni secondo le quali il governo federale non si sarebbe mai assunto l'obbligo di essere il primo soccorritore. Tutto ciò serve a far sembrare razionale la «dottrina Trump» - improvvisata in maniera spontanea - che vuole costringere gli Stati e i governi locali a competere fra di loro per le forniture mediche provenienti dall'industria privata e dalla Cina. Perciò Trump ha avvertito i governatori: «Il governo federale non dovrebbe comprare grandi quantità di materiale per poi spedirlo. Com'è noto, non siamo una ditta di spedizioni.»
Il primo ministro preferito di Trump, Boris Johnson, a sua volta nei primi mesi si è concentrato sulla minaccia costituita dal Covid-19 per i profitti, e non per la vita. Il suo governo si è opposto a qualsiasi misura - distanziamento sociale, chiusura delle scuole, confinamento nelle case, e così via - che potesse danneggiare l'economia. Mentre l'OMS metteva in guardia contro la pandemia emergente, Johnson faceva esplodere i suoi fuochi d'artificio che celebravano la Brexit e si prendeva gioco di chi chiedeva che si desse inizio ai test sul virus. «Si comincia a sentire in giro una bizzarra retorica autarchica,» aveva detto, «quando si alzano barriere e quando c'è il rischio che nuove malattie, come il coronavirus, scatenino il panico ed il desiderio di una segregazione del mercato che va oltre ciò che è razionale dal punto di vista medico, arrivando fino al punto di provocare reale e non necessari danni economici». Il suo atteggiamento disinvolto - ha evitato di partecipare ad almeno 5 riunioni di emergenza di gabinetto in cui gli esperti riferivano sull'epidemia - è stato emulato dall'opinione pubblica britannica, con le poche critiche provenienti da un Labour Part senza leader. Johnson e la sua eminenza grigia, Dominic Cummings, ritenevano che la minaccia del virus venisse esagerata e che per salvaguardare d'economia si doveva far sì che il virus si autodistruggesse. Secondo il Sunday Times, Cummings avrebbe detto ad una riunione privata a marzo che gli obiettivi del governo erano «l'immunità di gregge, proteggere l'economia e pazienza se questo avrebbe significato la morte di qualche pensionato». Questo atteggiamento spietato veniva sottolineato dalla decisione del governo di consentire il Chelthenam Festival - tre giorni cui hanno partecipato più di 250.000 persone - di andare avanti fino al 10 marzo. Nel giro di una settimana, ci sono stati centinaia di spettatori che hanno segnalato sintomi di contagio. Simultaneamente, gli ospedali stavano cominciando a rendersi conto della mancanza di preparazione a livello nazionale, dal momento che mascherine facciali e ventilatori stavano cominciando a mancare. Una fonte anonima che si trovava ad un livello alto del governo, avrebbe detto più tardi al Times: «Nessuno dei piani che avevamo è stato attivato a febbraio. Quasi nessun dipartimento governativo è riuscito ad attuare in maniera corretta quelli che erano i suoi piani contro la pandemia. È stata un'enorme ragnatela di fallimenti, tutte le tessere del Domino sono crollate». In questo modo sono caduti e sono stati messi fuori gioco per due settimane anche Johnson e Cummings, vittime del Covid.
Le risposte date dal Consiglio Europeo e dagli Stati membri dell'UE alla pandemia non sono state meno disorganizzate e spietate di quelle degli Stati Uniti e della Gran Bretagna (anche la mobilitazione in ritardo del Giappone appartiene alla medesima categoria). Per due mesi, i leader dell'Unione Europea - sostenuti dal Koch Center tedesco e dall'European Center for Disease Prevention and Control (ECDC) – hanno detto che per l'Europa la minaccia era solamente «bassa e moderata». Ci sono stati pochi test all'inizio, e di conseguenza ci sono state poche statistiche per poter valutare il volume e la velocità del contagio. I ministri delle sanità europee, riuniti a Bruxelles il 13 febbraio, sono stati informati dal direttore dell'ECDC che l'Europa disponeva di adeguate capacità di laboratorio e che la strategia di contenimento messa in atto dalla UE stava funzionando. Per di più, la «grande preoccupazione in Europa», secondo un'indagine di "Politico", «riguardava gli effetti secondari prodotti da un rallentamento dell'economia cinese» - e non la mortalità di massa. Dieci giorni dopo, è arrivata la stagione del carnevale, con gli sciatori riversatisi in montagna. Nella affollate stazioni sciistiche austriache e italiane, il Covid-19 è stato diffuso da individui che erano di ritorno dall'Asia orientale. Ben presto ha fatto seguito quello che è stata l'esplosione del focolaio italiano con il suo terribile tributo di morte pagato dai più vecchi. Sebbene i singoli Stati dell'Unione Europea mantenessero il controllo dei loro sistemi sanitari, esisteva un «Meccanismo di protezione civile della UE» che prevedeva l'aiuto reciproco ed il coordinamento in caso di gravi disastri, tra i quali erano incluse «gravi minacce per la salute a livello internazionale». Il 28 febbraio gli italiani attivavano le loro misure. Secondo un resoconto di "Politico", «per i responsabili che stavano monitorando la risposta alla crisi, le ammissioni di essere in difficoltà, provenienti da Roma, erano sconcertanti. Ancora di più, però, era la reazione degli altri 26 paesi europei: il silenzio. Con le capitali che ora cominciavano a farsi prendere dal panico a causa della propria vulnerabilità, nessuno si faceva avanti per aiutare».
Solamente un paese, la Cina, ha offerto immediatamente assistenza ed ha inviato rapidamente degli esperti medici ed un piano di rifornimento. Nel frattempo, i commissari della UE si sono accorti in ritardo, così come aveva fatto il Regno Unito, di una grave e non dichiarata carenza di dispositivi di protezione individuale; la maggior parte dei paesi aveva esaurito le scorte a causa della falsa ipotesi che i produttori avrebbero facilmente soddisfatto la domanda in aumento. Il 3 marzo, la Francia bloccava l'esportazione di mascherine e di ventilatori e sigillava le frontiere. Il suo esempio veniva rapidamente seguito dalla Germania e da gran parte del Nord Europa. Il famoso spazio comune di viaggio della UE veniva abolito senza che ci fosse alcuna discussione diplomatica. L'ECDC, con riluttanza alzava il livello di minaccia «da moderato ad alto», e la burocrazia di Bruxelles creava alla fine un team di emergenza di risposta al coronavirus. Nel frattempo, i ministri della sanità di diversi paesi, arrabbiati, si lamentavano per la mancanza di comunicazione o di consultazione da parte delle nazioni sorelli: avevano dovuto rivolgersi ai media per sapere cosa stavano facendo gli Stati Uniti. L'Italia si arrabbiava, e il 10 marzo il suo rappresentante permanente pubblicava un comunicato infuriato in cui denunciava l'«egoismo» che aveva «portato all'adozione di una logica perdente di vicino mendicante» e paragonava i leader dell'UE a quelli che nel 1914 «come sonnambuli» camminavano verso la distruzione dell'Europa. L'Italia chiedeva la creazione di una linea di credito europea per poter salvare le piccole e medie imprese dalla chiusura definitiva; successivamente la Spagna, il secondo epicentro di epidemia, si alleava con Roma per chiedere l'emissione di «Corona Bond». Immediatamente, Amsterdam e Berlino si opponevano alla proposta, dichiarando che si aspettavano che Italia e Spagna vivessero con le stesse razioni di fame che avevano imposto precedentemente alla Grecia. Questo aprirebbe la strada ad un'«Italexit», nel caso che la Lega di Matteo Salvini dovesse tornare al potere e chiedere un referendum sull'adesione dell'Italia alla UE. Naturalmente, la disgregazione dell'Europa nel corso della pandemia aggrava ulteriormente il danno causato dalla crociata di Trump contro quelle che sono le istituzioni e le tradizioni fondamentali dell'Alleanza Atlantica: allo stesso modo in cui ora può essere immaginata una UE più piccola e meno potente, anche la disintegrazione della NATO, per quanto improbabile nel prossimo futuro, diventa più che una chimera russa. L'ONU, nel frattempo, non è altro che l'ennesima istituzione vuota. «Un Segretario Generale delle Nazioni Unite oralmente frustrato, Antonio Guterries,» scrive il Los Angeles Times, «durante la crisi sanitaria, ha visto ampiamente ignorati tutti i suoi appelli ad un maggior coordinamento globale - e tra questi anche quelli ad un cessate il fuoco globale nei conflitti regionali, ad un allentamento delle sanzioni contro i paesi assediati dalla pandemia come l'Iran ed il Venezuela. oltre alla proposta di un fondo multimiliardario per degli aiuti umanitari di emergenza.» Con l'Assemblea Generale dell'ONU paralizzata e con l'OMS e le sue agenzie sorelle incapaci di svolgere il ruolo di guida, non sono rimasti altro che i gemelli nati a Bretton Woods - Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale - a svolgere il ruolo di nucleo istituzionale di supporto alla globalizzazione economica. Con il deteriorarsi delle finanze dell'OMS, la Banca Mondiale - che con i suoi regimi di aggiustamento strutturale, negli anni '80 e '90, aveva devastato i bilanci della sanità pubblica nei paesi poveri - è diventata, ironicamente, il leader della sanità mondiale. Ma l'ironia è solo parziale; dopo tutto, i prestiti per la Salute fatti dalla Banca avevano superato il budget totale dell'OMS già nel 1990, e da allora la sua influenza sulla spesa sanitaria internazionale non ha fatto altro che aumentare. Se l'OMS sopravvivrà alla crisi (che sarebbe come dire, se Biden vince le elezioni presidenziali e ripristina i finanziamenti statunitensi), è probabile che l'agenzia diventi un mero satellite della Banca, con la sicurezza sanitari collettiva subordinata alle altre priorità della Banca. Si immagini un mondo in cui il primario sia anche l'esattore del recupero crediti.

Il destino dell'umanità povera
Nell'introduzione a questo testo, ho sostenuto che ci sono state due differenti pandemie di Covid-19; e l'impatto del virus sulle fasce di età più giovani potrebbe essere radicalmente diverso sia nei paesi poveri che sui gruppi ad alta povertà. La storia dell'influenza spagnola spiega perché potrebbe essere così. La pandemia del 1918-19, come molti sanno, è il più grande singolo evento di mortalità in tutta la storia umana, e si stima che abbia ucciso dall'1 al 2% dell'umanità. In Nord America ed in Europa occidentale, l'originale H1N1 è stato più mortale per i giovani adulti. Ciò è stato solitamente spiegato a partire dal loro sistema immunitario relativamente più forte, che reagiva in maniera eccessiva all'infezione, attaccando così le cellule polmonari e causando la polmonite virale e lo shock settico. Più recentemente, tuttavia, alcuni epidemiologi hanno teorizzato che gli adulti più anziani potrebbero avere avuto una «memoria immunitaria» proveniente da una precedente epidemia che c'era stata negli anni '90 dell'800. In ogni caso, l'influenza aveva trovato una nicchia privilegiata nei campi militari e nelle trincee dei campi di battaglia, dove aveva falciato i giovani soldati a centinaia di migliaia. E tutto questo divenne un fattore fondamentale in quella che era allora la battaglia degli imperi. Il collasso di quella che fu la grande offensiva tedesca di primavera del 1918, e quindi l'esito della guerra, è stato attribuito al fatto che gli Alleati, a differenza del loro nemico, avevano potuto rimpinguare le loro truppe malate con le nuove truppe americane.
Ma la pandemia nei paesi più poveri ebbe un profilo diverso. Raramente si considera che quasi il 60% della mortalità globale (cioè, parliamo di almeno 20 milioni di morti) si verificò nel Punjab, a Bombay ed in altre parti dell'India occidentale, dove le esportazioni di grano verso la Gran Bretagna, insieme alle brutali pratiche di requisizione, coincisero con una grave siccità. La conseguente carestia portò milioni di poveri sul baratro della fame. Essi divennero vittime della sinistra sinergia tra la malnutrizione - che aveva soppresso la loro risposta immunitaria all'infezione ed aveva prodotto una proliferazione batterica - e la polmonite virale. Nel caso analogo dell'Iran occupato dalla Russia e dall'Inghilterra - anni ed anni di siccità, di colera e di carestia, seguiti da una diffusa epidemia di malaria - si è verificata la morte di qualcosa tra il 10 ed il 20% della popolazione, vale a dire almeno un milione di persone. In entrambi i casi la mortalità è stata più ampiamente distribuita su tutto lo spettro demografico di quanto sia avvenuto in Europa.
Questa storia - soprattutto le conseguenze delle interazioni tra malnutrizione ed infezioni già esistenti - dovrebbe metterci in guardia sul come trattare con cautela tutte quelle continue assicurazioni  che - visto che la popolazione urbana dell'Africa subsahariana è la più giovane del mondo (con gli over 65 che costituiscono solo il 3% della popolazione, contro il 23% in Italia ed il 15% negli Stati Uniti) - la sua mortalità verrebbe ad essere proporzionalmente inferiore. Assai dubbia è anche l'idea, sostenuta da Trump, che con un clima più caldo la pandemia si attenuerà. La seconda, e più letale ondata dell'influenza spagnola ebbe inizio a metà estate. Più probabilmente, come ha avvertito "Science" il 15 marzo, l'Africa è «una bomba ad orologeria».
Oltre al mal-nutrimento, il combustibile per alimentare una simile esplosione virale è l'alto numero di persone con un sistema immunitario paralizzato. L'HIV-AIDS ha già ucciso 36 milioni di africani dell'ultima generazione, e i ricercatori stimano che oggi ci siano 24 milioni di casi in più. Questo in aggiunta a 3 milioni o più persone con la «peste bianca» (la tubercolosi). 350 milioni di africani soffrono di malnutrizione cronica, ed il numero di bambini piccoli la cui crescita è stata rallentata dalla fame, dal 2000 è aumentato di milioni. Il distanziamento sociale, nei mega-slum come Kibera in Kenya o Khayelitsha in Sudafrica, è un'ovvia impossibilità, e più della metà degli africani non ha accesso all'acqua pulita e ai servizi igienici di base. «Acqua pulita e sapone,» secondo l'ONU, «mancano a tal punto che nel 2015 solo il 15% degli africani subsahariani ha accesso ai servizi igienici di base, come il lavaggio delle mani». Inoltre. cinque delle sei nazioni con la peggiore assistenza sanitaria del mondo si trovano in Africa, compresa quella più popolosa: la Nigeria. Nel contempo, il Kenya, un paese con 50 milioni di abitanti noto perché esporta eccellenti infermieri e medici, ha esattamente 130 posti letto in terapia intensiva e 200 infermieri per affrontare il Covid-19. Il Sudan, con una popolazione paragonabile a quella del Kenya ha solo 30 letti. Dieci paesi posseggono un solo ventilatore, e in tutta l'Africa c'è una forte carenza di ossigeno per il suo utilizzo in casi gravi. Come ha detto Aljazeera ad un alto funzionario dell'ONU: «Non c'è alcuna curva da appiattire quando non esiste alcuna assistenza sanitaria.» Naturalmente queste condizioni esistono anche altrove: insieme all'Etiopia, alla Nigeria ed al Congo, l'India ed il Pakistan sono responsabili della metà dei decessi di bambini a livello globale. Gaza, Haiti, la Bolivia, il Guatemala, Papua-Nuova Guinea, e Micronesia, insieme alla maggior parte dei campi profughi nel mondo, sono fosse comuni in attesa di essere riempite. Chi sono gli alleati dei loro poveri? Per quanto riguarda gli Stati Uniti, e con ben poche proteste da parte dei Democratici - la cui recente svolta progressista è stata compromessa da una sorprendente assenza di preoccupazione per le questioni legate alla disuguaglianza a livello globale - Washington ha abbandonato qualsiasi pretesa di una leadership umanitaria, mentre prosegue il frenetico lavoro sul muro al confine col Messico. A quanto pare, "America First" significa "Africa Last". Trump, che aveva già sottratto forniture mediche destinate alla Germania e ad altri paesi, ha recentemente ordinato all'US Agency for International AID (USAID) di vietare alle ONG dei paesi più poveri di utilizzare i suoi aiuti per l'acquisto di mascherine facciali e di altri dispositivi di protezione, dei quali c'è disperatamente bisogno. A quanto pare, egli intende accaparrarsi quanto più possibile di quella che è l'offerta globale, ignorando ogni richiesta di usare la legislazione esistente per incrementare la produzione. Da quando ha avuto inizio la pandemia, ha tagliato anche gli aiuti medici allo Yemen ed ha aggravato l'embargo su Cuba e Iran. Nel frattempo, l'Europa ha scaricato sulle piccole ONG la responsabilità primaria di occuparsi della salute di decine di migliaia di rifugiati nei fetidi campi profughi. All'inizio della crisi, Macron - disperatamente alla ricerca di salvare il decadente impero neocoloniale francese in Africa - ha mobilitato una piccola tranche di aiuti europei per dotare i paesi africani di apparecchiature per i test. Ma nel momento in cui il Covd-19 ha fatto la sua comparsa all'ombra della Torre Eiffel, la sua attenzione si è bruscamente spostata sul fronte interno. (Ha tuttavia continuato a sostenere una moratoria sul pagamento del debito africano). La successiva "crisi di solidarietà" all'interni della UE ha messo del tutto in ombra i tiepidi sforzi dei suoi membri per coordinare gli aiuti internazionali.
Fino a oggi, solo quattro nazioni si sono veramente precipitate dalla parte dei miserabili della terra. Tre di esso sono piccole. I medici di Cuba, come sempre, sono i primi ad arrivare sulla linea del fronte di qualsiasi pericolosa epidemia - come nei recenti casi di colera di Ebola - e le loro squadre di specialisti sono già al lavoro per combattere il Covid-19 in 18 paesi, tra i quali la Giamaica, Haiti, Italia, Togo, Angola e persino Andorra. La Norvegia, il paese scandinavo che è stato tra i meno colpiti dalle recenti ondate di sciovinismo nazionale, è stata la prima in Europa a rispondere alle richieste provenienti da Addis Abeba e Pretoria che chiedevano uno sforzo a 360° per salvare l'Africa. L'Irlanda, che aveva già nazionalizzato tutti i suoi ospedali, ha immediatamente quadruplicato il suo contributo finanziario all'OMS, dopo che Trump aveva tagliato i finanziamenti americani. (Anche la Russia ha messo i suoi piedi a bagno nelle acque umanitarie, ma si è concentrata soprattutto sui problematici negoziati con l'Arabia Saudita, al fine di costruire una rete di sicurezza per le esportazioni di petrolio e gas). Ma è la Cina, con i suoi enormi rifornimenti di risorse e attrezzature sanitarie, e con la sua esperienza accumulata nella lotta contro le influenze ed il coronavirus, che sta fornendo gli aiuti più significativi ai paesi assediati in tutto il mondo. La sua capacità di farlo  può essere misurata a partire dal fatto che, fin dall'inizio, dai primi di febbraio, ha ampliato la sua produzione di mascherine protettive da 10 milioni al giorno a circa 116 milioni nel giro di quattro settimane, e sta rapidamente rimettendo in moto la produzione per diventare l'arsenale mondiale in quella che è la battaglia contro il nuovo virus. A partire dai primi di aprile. aveva già inviato oltreoceano quasi 4 miliardi di mascherine e 2,8 milioni di kit per i test. Il suo aggressivo tentativo di guidare il mondo in quella che è la pianificazione della lotta contro il Covid-19, alimentato dal suo successo nella soppressione dell'epidemia originale a Wuhan, ha delle importanti implicazioni geopolitiche.
Negli ultimi vent'anni, Pechino ha acquisito un enorme peso economico globale, diventando, per esempio, il più grande partner commerciale della Germania, del Brasile, dell'Australia, dell'Indonesia, e di molti altri paesi. Ma il suo solido potere economico ha superato di gran lunga il suo potere più morbido e persuasivo - vale a dire, la sua influenza a partire dal fatto di essere un ammirato modello sistemico per tutto il resto del mondo. La sua «Belt-and-Road Initiative» ["La nuova via della seta"], lanciata nel 2013 e finanziata in gran parte per mezzo di prestiti fatti a 70 paesi diversi, è uno dei motivi principali per cui il rapporto debito/PIL in quelli che sono i cosiddetti «mercati emergenti ed economie in via di sviluppo» è aumentato del 58%, raggiungendo nell'ultimo decennio il 168%. In particolare nell'Africa subsahariana, dove i prestiti e gli investimenti infrastrutturali della Cina l'hanno resa il maggior creditore, è cresciuto il risentimento popolare contro quella che molti ritengono essere semplicemente una nuova, e potenzialmente paralizzante, forma di neo-colonialismo. La risposta di Pechino al Covid-19, tuttavia, offre alla Cina la possibilità di rivendicare lo scettro della leadership mondiale. Per un comune contadino liberiano o per una madre keniota - oppure, del resto, per un anziano italiano chiuso nel suo appartamento - ciò che ora conta non è certo più la vecchia mitologia di una America generosa, o quella di un'Europa coraggiosamente unita, bensì le mascherine, le medicine ed i ventilatori. A questo punto, porteranno tutti la scritta: «made in China». Ma le mascherine facciali sono una cosa, e debiti di miliardi di dollari sono un'altra cosa. Nei cieli dell'Africa e delle altre regioni povere, gli avvoltoi - vale a dire le banche straniere, così come il temuto FMI - volteggiano sui previsti cadaveri delle tesorerie nazionali e dei bilanci pubblici. Dal 2014, con il crollo del prezzo delle materie prime, il debito è stato alimentato per mezzo di steroidi iniettati nell'Africa subsahariana, in gran parte presi in prestito per finanziare progetti infrastrutturali, come dighe, ferrovie, autostrade e porti. La Cina è stata il maggior finanziatore bilaterale del continente (una media di 10 miliardi l'anno), con l'Angola come maggior beneficiario, seguito da Etiopia e Kenya. Nelle transizioni africane, la garanzia più importante sono i guadagni petroliferi. I paesi che si sono pesantemente indebitati quando il greggio era sopra il 100 dollari il barile, ora ne ricevono meno di un decimo, e sono costretti a dedicare al rimborso del debito tutti i loro proventi petroliferi. In ogni caso, le banche straniere hanno ormai chiuso i battenti ai paesi subsahariani; ma sebbene i prestiti smettono di essere concessi, il debito nazionale continua a crescere a causa del rafforzamento del dollaro e della debolezza della valuta locale. Tutto questo è una formula per una depressione economica ed un'implosione del debito che finirà per distruggere le economie della maggior parte dei paesi e lascerà sulla sua scia una spesa ancora minore per la sanità, per l'assistenza alimentare, e per l'istruzione. In più - quasi a dimostrare che tutte le grandi crisi dell'umanità sono interconnesse - il cambiamento climatico, sotto forma di quella che si annuncia come un'epica siccità, ha già inferto dei pesanti colpi all'agricoltura in Africa. A marzo, il Sudafrica ha dichiarato un'emergenza nazionale, a causa del fatto che la siccità è tornata a punire i suoi agricoltori, mentre i campi dell'Africa orientale sono stati messi a soqquadro dalla più grande invasione di locuste in un secolo. Siccità, debiti e malattie sono la trilogia temuta da tutti gli africani.

La missione impossibile della Cina
A differenza delle economie atlantiche, e della maggior parte di quelle latino-americane, i paesi dell'Africa orientale, incluso il Vietnam, ma non il Giappone, hanno gestito l'epidemia con ammirevole successo, dimostrando di avere una formidabile capacità statale di agire, in maniera razionale e con un'azione decisiva. Tutte le loro popolazioni hanno una copertura sanitaria nazionale. I due casi più notevoli sono Taiwan ed il Vietnam. A causa della sua vicinanza alla terraferma, della sua densità urbana e del gran numero di cittadini anziani Taiwan sembrava essere destinata a diventare un'altra Wuhan. Ma alla fine di aprile aveva registrato meno di dieci decessi, ed aveva evitato il blocco e la chiusura di massa. Ciò che è accaduto non è un mistero: Taiwan ha costruito il sistema sanitario pubblico n° 1 al mondo, che a dicembre ha risposto immediatamente alle voci circa un'epidemia di qualcosa di assai simile alla SARS. Quando Taipei ha fatto l'inventario delle sue scorte mediche e si è resa conto che le mascherine si sarebbero ben presto esaurite, il suo Central Epidemic Command Center ha ordinato ai militari di subentrare nella produzione. In meno di 3 settimane, la produzione giornaliera è stata incrementata da 2 a 10 milioni di unità. E, a differenza della Repubblica Popolare Cinese e di Singapore, questo risultato è stato ottenuto a partire da una democrazia funzionante, senza dover fare affidamento ad un potere autoritario centrale, o alla repressione di massa.
Quella del Vietnam è una storia ancora più straordinaria. Per quanto sia più povero degli altri, il Pasteur Institutes di Ho Chi Minh City vanta quelli che sono alcuni dei più quotati specialisti mondiali in malattie epidemiche, nonché una rete nazionale di stazioni sanitarie a livello comunale che sono addestrate a rispondere alle emergenze. Questa combinazione di competenze e di mobilitazione a livello di base, ha permesso di affrontare con successo l'arrivo dell'influenza aviaria e della SARS all'inizio degli anni 2000. A differenza della Cina, ha anche un ammirevole primato riguardo la trasparenza medica, la segnalazione immediata di focolai di infezione, e una stretta collaborazione con l'OMS. Eppure, tuttavia, in questo momento l'unica esperienza alternativa che conti davvero sulla scena mondiale è il successo avuto dalla Cina nel sopprimere l'epidemia e diventare il primo a spegnere l'incendio in altri paesi in difficoltà. (Meno noto all'opinione pubblica mondiale, il ruolo cruciale avuto dalla protesta di massa nel costringere all'azione il regime autoritario di Xi.) Il segretario generale Xi Jinping, ovviamente, promuove quella che è la propria storia facendo pressione per mezzo di un bel po' di argomenti: i destinatari del prestito cinese e del loro aiuto medico come Erdogan in Turchia e Fernandez in Argentina devono cantare le sue lodi. Ed ora che Trump ha abdicato al trono umanitario, c'è solamente un potere che ha le capacità manageriali e le risorse per potersi sedere su quel trono. Per la prima volta, Pechino si trova praticamente da sola al timone di una crisi mondiale, testando la sua azione contro l'assenza di azione da parte di Washington e dell'Unione Europea.
Nel 17° secolo, una pandemia di peste fu particolarmente devastante per l'Italia e – secondo alcuni storici - accelerò la transizione, da un'economia europea incentrata sul Mediterraneo, ad un'economia dominata dai Paesi Bassi e dall'Inghilterra. Si è tentati dall'affermare che, similmente, anche il Covid-19 stia accelerando il passaggio dal dominio americano a quello cinese. Ma l'analogia appare debole dal momento che esagera la stabilità dell'economia cinese, così come la sua capacità di fare uscire il mondo da una profonda recessione. Il successo della Cina nel diventare il centro della catena del valore del sistema solare - e, di conseguenza, la più grande nazione manifatturiera e commerciale della terra - costituisce anche il suo tallone di Achille, in quanto l'odierno crollo del commercio mondiale minaccia, nel corso di una lunga recessione, di portare ad una parziale destabilizzazione della produzione. Sebbene la Cina abbia fatto degli enormi passi avanti nello sviluppo delle industrie basate sulla scienza e sui servizi tecnologici, l'esportazione di quelli che sono i beni intermedi e di consumo - dai mobili da giardino agli smartphone - rimane la sua principale pagnotta e fonte di valuta estera. La perdita permanente di una significativa parte del mercato delle esportazioni, dovuta sia alla diminuzione della domanda globale che (e/o) al rimpatrio degli investimenti produttivi, porrebbe il Consiglio di Stato di fronte a quello che ha sempre temuto di più: un esercito di disoccupati arrabbiati, forte di decine di milioni di persone. La leadership, naturalmente, è da tempo consapevole della necessità di ridurre la dipendenza dalle esportazioni, di aumentare i salari e potenziare il proprio mercato interno. Ma la transizione si è rivelata estremamente difficile, e gli investimenti - la seconda grande ruota motrice dell'economia cinese - hanno colmato il divario. Sebbene alcuni ammiratori, evocando gli altri tassi di crescita generati negli anni '50 e '60 dai consumi durevoli e dall'edilizia residenziale dei consumatori europei e americani, si riferiscano all'attuale periodo come se fosse l'«età dell'oro» cinese, la realtà è diversa. Ad essere stato eccezionale nella rivoluzione urbano-industriale cinese, non è il suo abbracciare il modello economico basato sull'esportazione, comune agli altri paesi asiatici, ma piuttosto i suoi tassi di investimento in infrastrutture e costruzioni urbane straordinariamente elevati. Tutto questo è stato finanziato da una sostenuta depressione della percentuale di manodopera rispetto al PIL. Nessuna grande economia dinamica, in tempo di pace, ha mai riservato una quota così grande agli investimenti, o una quota così piccola ai consumi. Durante la crisi del 2008-09, Pechino ha contrastato il crollo della domanda di esportazioni per mezzo di un enorme pacchetto di stimoli che hanno pompato prestiti finalizzati allo sviluppo delle infrastrutture e alla costruzione di abitazioni, fornendo supporto vitale alle imprese statali in difficoltà. Nel 2012, il rapporto investimenti/PIL è salito al 48%, per poi scendere ad uno stabile 45%. (Al contrario, gli americani consumavano il 70% del reddito nazionale, investendo solamente il 15%). «La portata e la velocità del boom degli investimenti in Cina», ha scritto un team di economisti dell'Università di Oxford, «è sbalorditiva. Nel 2014 la Cina spende 4,6 mila miliardi, pari al 24,8% di quelli che sono gli investimenti totali mondiali; il doppio del PIL dell'India». Anche il prestito che ha finanziato l'incentivo, è stato sbalorditivo. «Tra il 2000 ed il 2014, il debito totale della Cina è passato da 2,1 mila miliardi di dollari a 28,2 mila miliardi, ai prezzi attuali - un incremento di 26,1 mila miliardi, superiore al PIL di Stati Uniti, Giappone e Germania messi insieme».
L'incentivo post-2008 è andato a beneficio anche dei principali produttori di componenti in Asia orientale e sud-orientale - così come alla Germania, da cui la Cina importa macchinari e macchine utensili. Diversamente, la ripresa globale dalla Grande Recessione sarebbe stata incomparabilmente più difficoltosa. Ma il prezzo da pagare è stata l'instabilità strutturale ed un debito in continua espansione. Ciò è stato candidamente riconosciuto, in diverse occasioni, dai leader del paese. Nel 2009, al World Economic Forum, il premier Wen Jiabao, un fautore dell'innalzamento del tenore di vita nelle campagne, ha dichiarato che «la ripresa economica della Cina è instabile, squilibrata e non ancora solida». L'anno successivo, il vice premier Li Keqiang (diventato premier alla fine del 2012) ha ribadito che la spinta agli investimenti ha creato una «struttura economica irrazionale» ed «è sempre più evidente uno sviluppo scoordinato ed insostenibile». Xi Jinping, nella sua ascesa a Segretario Generale del Partito, e poi Presidente, è stato responsabile di diverse importanti riforme, ma la «Belt and Road Initiative» - finanziata dalla Asian Infrastructure Investment Bank, sponsorizzata dalla Cina - è stato un ritorno alla crescita trainata dalle costruzioni, ora su scala internazionale. Due anni fa, una ricerca sulle prospettive future della Cina, condotta dalla Banca Centrale Europea, ha trovato tutti i classici segnali di sovra-investimento, e la conseguente cattiva allocazione delle risorse: un grave eccesso di capacità nell'industria di base, una spesa infrastrutturale che eccede la domanda potenziale, eccesso speculativo di costruzione di case, a pressi inaccessibili per le maggior parte delle famiglie, inutile conversione di terreni agricoli in territorio urbano, la spesa per la salute pubblica e per l'istruzione deplorevolmente inadeguata, e un sistema bancario statale che gestisce il debito che può essere descritto solo come un gioco di prestigio. Il motore degli investimenti, nel frattempo, ansima. «Il tasso di incremento dell'output di capitale», spiega lo studio della BCE, «suggerisce che l'impulso alla crescita economica, da parte dei nuovi investimenti, sta diminuendo». In altri termini, gli investimenti non stanno portando la produttività complessiva ai livelli attesi, e la cattiva gestione della spesa in capitale fisso sta esercitando un effetto negativo sul PIL. Perciò, l'incredibile macchina della crescita di Pechino «si sta avvicinando ad una svolta. La caduta della crescita della produttività, e la diminuzione dei profitti implicano che la Cina sta raggiungendo i limiti di quello che è il "vecchio" modello di crescita dell'accumulazione di fabbrica. Continuare a spingere contro questi limiti, facendo affidamento su investimenti ancora maggiori, non farà altro che peggiorare gli squilibri esistenti e minacciare la sostenibilità della crescita a medio termine». È questo il motivo per cui è impossibile che la Cina possa ripetere le sue imprese post 2008. Assai più probabile di un recupero guidato da Cina, è une depressione a guida cinese. Questo garantirebbe una paralisi sincronizzata della crescita in quelli che sono tutti e tre i grandi blocchi economici dell'economia mondiale - Nord America, Unione Europea, ed Asia orientale - senza che sia nessuno in grado di avviare una ripresa attraverso un'azione unilaterale. La partnership bilaterale, che potrebbe in teoria frenare il collasso è un piano di spesa coordinato tra Stati Uniti e Cina, ma la loro relazione, tralasciando la politica, è quella più debole strutturalmente o - se si preferisce - quella più «squilibrata» di tutta l'economia mondiale. È un'attrazione tra opposti: gli Stati Uniti consumano troppo, la Cina produce troppo; Washington continua a far crescere quello che è un deficit commerciale sempre più enorme, mentre poi la Cina restituisce il debito per permettere agli americano di continuare la loro squilibrata baldoria. L'estrema destra populista americana vede solo un lato di questo scambio: i costi occupazionali della delocalizzazione della catena di valore ed il bilancio commerciale negativo degli Stati Uniti. Ignora, oppure semplicemente non si rende conto del reciproco ruolo svolto dalla Cina come principale acquirente del debito nazionale statunitense, e sembra credere, fantasiosamente, che una guerra economica contro il principale creditore di Washington verrebbe ad essere relativamente poco costosa, dal momento che essa restituirebbe, riportandoli negli USA dall'Africa orientale, milioni di posti di lavoro. In realtà, le catene di prodotti più scompaginabili sono quelle che vanno dall'alto verso il basso ed arrivano fino al distributore finale e ai rivenditori, come Walmart e Target, il cui inventario di prodotti importati consiste di prodotti di consumo a basso costo e di prodotti elettronici. Diversamente dalle catene di valore guidate dal prodotto (come ad esempio General Motors e i suoi fornitori di componenti), la maggior parte delle linee di prodotti di consumo sono facilmente automatizzabili - preferibilmente dall'altra parte del confine col Messico - di modo che il rimpatrio degli investimenti non significherà il ritorno di posti di lavoro precedentemente perduti, o di una nuova primavera per la manifattura statunitense. Eppure continua ad essere questa l'illusione che ha rafforzato la base repubblicana nel Midwest americano.
I due principali partiti politici americani hanno cominciato ad agitarsi a partire dallo shock del 2008, e da allora si sono messi alla ricerca di un ritorno su larga scala del nemico esterno, sebbene ne cercassero uno che fosse meno sfuggente ed inafferrabile di al-Queda o ISIS. I gusti di Hillary Clinton erano rivolti ad una nuova guerra fredda con la Russia; Trump invece scelse la Cina. Prima, nel 2017, la guerra commerciale, ed ora il Pericolo Giallo del Covid. Ora, il suo comitato per la rielezione sta testando sul mercato, come slogan della campagna, «la Cina deve pagare per la pandemia!». (Secondo un recente sondaggio, un quarto degli americani, il pubblico di Fox News, è convinto che il coronavirus sia stato creato in un laboratorio cinese di ricerche per la guerra biologica, e che sia stato rilasciato deliberatamente contro gli Stati Uniti). La crisi consente ai nazionalisti economici che marciano sotto la bandiera nera di Steve Bannon (recentemente tornato a far parte del Consiglio di Sicurezza Nazionale) di mobilitarsi per un «rigido disaccoppiamento» delle due economie, mentre altri vogliono punire la Cina confiscando elettronicamente i mille miliardi e rotti di dollari che detiene in buoni del tesoro USA (secondo il diritto internazionale, un atto di guerra). Per quanto un'amministrazione Biden attenuerebbe la retorica bellicosa, all'interno del Partito Democratico ci sono delle potenti forze che sostengono una linea dura nei confronti di Pechino, su un doppio fronte economico e militare. Finora, la Cina non ha brandito la minaccia di ritorsioni finanziarie. Innanzitutto, per paura di perdere quello che è il suo più grande mercato di esportazione; in secondo luogo, perché il rafforzamento del dollaro durante la crisi fa aumentare il valore delle sue riserve. Ma se il commercio con gli Stati Uniti continua a deteriorarsi, e la catena chiave del valore appare instabile, i freni nei confronti dell'aggressione a Pechino si allenteranno. Ciò aggiungerebbe un enorme, seppur incalcolabile, dose di caos alle esistenti turbolenza geo-economiche. Allora, ogni regime capitalista, ed ogni regime capitalista di stato si metterebbe alla ricerca, non solo di capri espiatori, ma anche di nemici mortali per poter giustificare il fatto che la rabbia populista venga incoronata dalle testate nucleari. In sostanza, dobbiamo porci due domande inedite riguardo il futuro dell'ordine mondiale neoliberale. Per prima cosa, se la globalizzazione capitalistica sia diventata biologicamente insostenibile. La risposta, ovviamente, dipende dal fatto che la cooperazione internazionale ad alto livello e la massiccia spesa per la sanità pubblica siano, o meno, prospettive realistiche. Ho paura che non lo siano. In secondo luogo, dobbiamo chiederci se le infrastrutture logistiche e finanziarie della globalizzazione siano sostenibili in un'era post-egemonica. In altri termini, se possono funzionare senza essere sottoscritte attraverso una fusione di sovranità monetaria e di leadership globale che si realizzi in un'unica super-potenza disposta ad agire come gestore del mercato mondiale. Esiste un precedente da tenere a mente: la frammentazione regionale del commercio mondiale durante gli anni '30, quando gli Stati Uniti dominanti abdicarono al proprio ruolo di creditore rispetto all'Europa e si rivolsero al proprio interno, alla ricerca di una soluzione alla Depressione. La semi-autarchia servì a riorientar le potenze imperialiste europee verso la modernizzazione dello sfruttamento delle loro colonie tropicali, mentre la Germania si orientava verso la conquista del grano ucraino ed il petrolio del Caspio, con conseguenze catastrofiche per tutta l'umanità. Sono assai pochi gli economisti e gli esperti di politica estera che riescono ad immaginare un mondo in rapida de-globalizzazione e in rapido riarmo. Ma secondo la medesima logica, c'è qualcuno fra loro che possa convincere l'opinione pubblica che stanno per tornare i verdi anni quando il Dow Jones chiudeva sopra i 28.000 punti e i lieti giorni dei carnevali a Davos?

In cerca di solidarietà
Il periodo cupo che comincia a delinearsi rapidamente all'orizzonte, ben presto metterà sotto accusa il capitalismo, in quanto è una minaccia per la sopravvivenza umana. Un procuratore gli imputerebbe almeno quattro capi d'accusa. Il primo, quello per cui, in quanto sistema mondiale, non è in grado di generare redditi e futuro sociale per la maggior parte dell'umanità. Il secondo, è che non può de-carbonizzare l'economia, o fare in maniera da adeguare le società più povere in modo che possano sopportare le estreme conseguenze del riscaldamento globale, cui esse hanno ben poco contribuito. Terzo, non è in grado di garantire né la sicurezza alimentare né risorse idriche sostenibili. E quarto, impedisce che i rivoluzionari progressi biologici si traducano in sanità pubblica. Si tratta di crisi convergenti, inseparabili l'una dall'altra, e devono essere viste nel loro complessivo intreccio, e non come tematiche separate. Per dirla con un linguaggio più classico, il capitalismo finanziarizzato odierno è diventato un ostacolo assoluto allo sviluppo delle forze produttive necessarie alla sopravvivenza della nostra specie. Michel Aglietta, uno dei più rispettati economisti d'Europa, argomenta in modo simile. Recentemente, ha scritto che ci sono tre pericolose idee erronee che governano la maggior parte del discorso ufficiale sulla pandemia. La prima è l'idea secondo cui dovremmo lasciar perdere qualsiasi azione volta ad impedire il cambiamento climatico e la distruzione dell'habitat, per concentrarci sulla minaccia virale. Ciò ignora fino a che punto il fenomeno delle malattie emergenti sia profondamente connesso al cambiamento climatico, all'agricoltura industriale e all'allevamento del bestiame, così come alla crescente distruzione della biodiversità, soprattutto quella delle foreste tropicali. «In ultima analisi, le malattie e il clima sono guidati da dinamiche simili, anche se le temporalità sono diverse. Sono entrambi processi che si evolvono sotto una radicale incertezza, la quale in un qualche punto di svolta sconosciuto può sfuggire al controllo».  Il secondo errore, consiste in una sottovalutazione del ruolo che ha il debito interno ed internazionale, il quale dal 2009 è cresciuto quasi senza controllo, accelerando ed ampliando il potenziale dell'attuale crollo. «Ciò che ha più caratterizzato l'ultimo decennio», sostiene, «è stata la globalizzazione della logica [della finanziarizzazione]». La pandemia, in ultima analisi, finirà per produrre un panico finanziario - una domanda incessante di liquidità - che a sua volta porterà al disinvestimento nell'economia reale, ora ostacolata da un'enorme sovraccapacità. La catena di produzione industriale ed il commercio di beni intermedi, sostiene, sono particolarmente vulnerabili. L'illusione più pericolosa, tuttavia, è quella nazionalista: che una depressione globale possa essere evitata attraverso una semplice somma di risposte nazionali, indipendenti e scoordinate tra loro. «L'unico futuro possibile è quello di un "Green Global New Deal "... Dobbiamo estirpare il punto di vista neoliberista che subordina tutto al feticcio del "mercato" senza riconoscere la sua dipendenza dalla natura. I mercati trasformano i beni comuni in mali comuni. Come è avvenuto con il New Deal, il Global Green New Deal (GGND) richiede la leadership del potere pubblico su quello privato». Gli «assi strutturali» del GGND devono essere la conversione dell'industria al green power, un movimento che va verso le città a basse emissioni di carbonio ed un enorme sforzo globale per ripristinare l'habitat e l'agricoltura sostenibile. Per poter realizzare tutto questo, l'investimento pubblico deve liberarsi dalla «tragedia degli orizzonti», la logica piratesca a breve termine dei mercati finanziari. «La trasformazione della struttura dell'economia produttiva richiede una pianificazione strategica». Aglietta - io credo - ha ragione nel dire che il neoliberismo ha aperto il vaso di Pandora; e che solo una cooperazione planetaria della portata di un GGND possa assicurare una sopravvivenza comune. Si può anche applaudire alla sua insistenza sul fatto che abbiamo bisogno di guardare alla nuova era attraverso le lenti dell'ecologia politica, riconoscendo che oramai tutto è una questione ambientale. Ma per aggirare qualsiasi discussione sui problemi, egli fa uso di eufemismi, come  "la democratizzazione del potere economico". L'attuale emergenza ci spinge ben oltre il punto in cui possiamo inquadrarla come se fosse una questione di legge anti-trust, di una regolamentazioni più severa, o di inserimento dei lavoratori nei consigli di amministrazione delle imprese. Il presupposto ineludibile per una «leadership pubblica dell'economia» è la proprietà sociale dei settori strategici come la produzione farmaceutica, i combustibili fossili (per riqualificare i lavoratori e chiudere pozzi e miniere), le grandi banche, le infrastrutture digitali da cui dipende la vita nel 21° secolo (banda larga, cloud, motori di ricerca e social media). In altri termini, il ritorno del progetto socialista rivoluzionario.
Dico «rivoluzionario» perché perfino nel blocco dell'OCSE il potere popolare dovrà fare sempre più i conti con le capacità repressive dello Stato di sorveglianza alleato alla politica antidemocratica del populismo autoritario. Sotto molte forme, la violenza sociale è destinata a diventare comune, con l'eruzione di vulcani di disperazione in tutto il mondo. In alcuni casi - per esempio, laddove governi di nazionalisti estremisti hanno avuto maggior successo nel dirottare la rabbia verso le potenze straniere o verso le minoranze locali, come in India o in Polonia - i regimi di destra possono diventare apertamente neofascisti. In altri paesi, come il Messico, dove i governi progressisti hanno infranto delle promesse chiave, i risultati politici rimangono imprevedibili. Ma negli Stati Uniti, come in Brasile, il vento soffia forte a sinistra. In retrospettiva, gli storici, presumo, giudicheranno che lo sviluppo più sorprendente nell'America del primo 21° secolo non è dovuto a Trump, ma all'improvviso emergere di un movimento ampio e multirazziale che identifica sé stesso come socialista. Negli anni '20, gli operatori sanitari radicalizzati (17 milioni di loro) potrebbe giocare quello stesso ruolo che allora ebbero gli autotrasportatori degli anni '30. Sul campo di battaglia globale, perciò, per una nuova sinistra, le opportunità e i pericoli sono probabilmente distribuiti equamente. Ma in un paese o in un altro, le vittorie socialiste, in assenza di un nuovo internazionalismo, non porteranno ad alcun GGND. L'erosione della solidarietà internazionale, è probabilmente più evidente proprio nella nuova sinistra americana; per esempio, nei dibattiti delle primarie democratiche, né Sanders né Warren hanno parlato di povertà globale o delle catastrofica interazione tra siccità e guerra nel Sahel e nella Mezzaluna Fertile. Sebbene un «Green New Deal» sia la bandiera di combattimento del movimento progressista, assai raramente questo concetto viene definito in modo da includere fondi per adattarlo al cambiamento climatico destinati ai paesi poveri, o per un Piano Marshall per quelle nazioni che sono state distrutte ed impoverite a causa della guerra infinita in Medio Oriente. Si sono delle volte in cui, il punto di vista della sinistra si avvicina pericolosamente ad una versione di America First. È solo per mezzo di una campagna attiva e persistente che possiamo gettare nuove fondamenta per una solidarietà internazionale. Nel momento in cui la pandemia sta bruciando tutta l'Africa e l'Asia meridionale, i movimenti socialisti e verdi in Nord America ed in Europa devono unirsi ai gruppi religiosi e umanitari per avanzare le seguenti richieste:
1 - La riattivazione del principio, sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, secondo cui la salute è un diritto universale.
2 - Un massiccio sforzo di soccorso internazionale per evitare che in Africa ed in altre regioni povere muoiano milioni di persone a causa degli effetti combinati delle malattie e della fame.
3 - Che vengano investiti miliardi di dollari in più in linee di produzione di vaccini in modo da assicurare un'adeguata fornitura all'intera razza umana.  Tutti i paesi devono avere uguale diritto alle crescenti scorte di vaccini e di farmaci antivirali. C'è un grande pericolo che i paesi ricchi si accaparrino le scorte.
Nel nostro mondo a rischio, una visione rivoluzionaria non esclude la ricerca di una collaborazione con tutti quelli che abbracciano valori umanistici fondamentali. Nel momento attuale, infatti, ci sono solo due leader mondiali che invocano costantemente la necessità della solidarietà umana: uno è il Dalai Lama, e l'altro è il tifoso di calcio argentino che vive in un'enorme casa a Roma. Dovremmo ricordarci del fatto che tutti i grandi rivoluzionari - Thomas Paine, Georges Jacques Danton, Giuseppe Garibaldi, Karl Marx, Rosa Luxemburg, Lenin, Lev Trockij e il Che - hanno concepito la propria missione non semplicemente come l'emancipazione della classe operaia, ma come la liberazione di tutta l'umanità.

Mike Davis - Pubblicato il 30 aprile 2020 -

fonte: Progressive International

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