A chi appartiene la mia vita? Il suicidio – scrive Walter Benjamin nei suoi Passages – è “la quintessenza della modernità“. In effetti, dopo che per secoli il tentativo di togliersi la vita è stato considerato un peccato o l’espressione di una malattia psichica, e in alcuni paesi è stato addirittura sanzionato penalmente, nel XX secolo si è assistito a un profondo rivolgimento, che ha contribuito a far emergere una nuova cultura del morire. Chi si toglie la vita non vuole più solo cancellarla ma anche, in qualche modo, appropriarsene e darle un nuovo significato in virtù di un gesto che l’espressione utilizzata per il titolo tedesco del libro, Das Leben nehmen (“togliersi la vita”, ma anche “prendersi la vita”), con la sua ambiguità, trasmette immediatamente.
A chi appartiene la mia vita? è il vivo e profondo racconto della complessa storia del suicidio nella modernità. Ne esamina le radici culturali attraverso diari, film e opere d’arte, per giungere a un’inquietante diagnosi: viviamo in un’epoca sempre più affascinata dal suicidio.
(dal risvolto di copertina di: Thomas Macho, "A chi appartiene la mia vita? Il suicidio nella modernità". Meltemi)
Stasera mi butto
- di Donatella Di Cesare -
Il suicidio sembra ancora ammantato da una coltre di silenzio, sebbene affiori sempre più frequentemente nell’arte, nella letteratura, nella cronaca. Prova a squarciare il velo Thomas Macho, filosofo austriaco, quasi sconosciuto al pubblico italiano e molto noto invece nella cultura di lingua tedesca. Già in un volume sulle metafore della morte Macho aveva toccato la questione della «libera morte», come si dice in tedesco con due termini Selbstmord e Freitod, che rinviano entrambi alla decisione autonoma. Per la nuova opera, che in italiano si intitola A chi appartiene la mia vita?. Macho ha scelto il più neutrale Suizid, quasi per indicare la posizione a cui l'autore aspira nell'esaminare un tema delicato e scabroso.
Vale la pena sottolineare che questa storia culturale del suicidio, che si concentra sulla modernità, senza trascurare tuttavia le epoche passate, è una raccolta impressionante di documenti , testimonianze, riflessioni. Non c'è argomento che non venga considerato: dal culto cristiano dei martiria alle spettacolari azioni dei Jihadisti, mentre lo sguardo si estende al rituale del seppuku giapponese o al saui, crudele rogo delle vedove indiane. Si può dire senz'altro che questo volume è oggi la ricerca più ampia e approfondita del suicidio, destinata perciò a sostituire quelle precedenti, come la Storia della morte in Occidente di Philippe Ariès. Insignito del premio «Sigmund Freud», la più importante onorificenza tedesca per la saggistica, il libro è scritto magistralmente, con una prosa leggera e accattivante, che aiuta e facilita il lettore.
In tredici capitoli, legati da un filo sistematico più che cronologico, Macho ripercorre la storia culturale del suicidio sotto molteplici aspetti, politico, giuridico, medico-scientifico, psicanalitico, filosofico. L'idea di fondo è che sotto uno stesso termine si celino fenomeni diversi. Tabuizzato nell'antichità, giudicato un peccato nel cristianesimo (sebbene sconfini con il martirio), ritenuto un reato, precluso o apertamente proibito nel medioevo, il suicidio irrompe nella modernità, di cui riassume e rilancia i caratteri. Il motto del libro è non per caso la frase di Walter Benjamin «Il suicidio appare così come la quintessenza della modernità». Autore di solito prudente, Macho va oltre indicando nel suicidio addirittura il leitmotiv, il filo interpretativo per leggere la modernità, quell'epoca che dal Werther di Goethe giunge fino alla morte social.
Si può non concordare con questa lettura, ma è tuttavia innegabile che nella modernità muta il rapporto con il proprio sé, con la vita e, necessariamente, con la morte, che non viene più vista come un evento naturale, un destino ineluttabile da accettare passivamente. Il valore della libertà, intesa come autonomia del soggetto, ha ripercussioni sulla fine della vita. Si fa largo la convinzione che sia legittimo prendere nelle proprie mani anche la morte, che per questo diventa sempre più programmabile, calcolabile, esito di un progetto oculato.
Con Michel Foucault si potrebbe parlare di una «tecnica del sé». Il soggetto è al contempo autore e opera, giocatore e posta in gioco, carnefice e vittima, liberatore e liberato. Fino a che punto, però, l'autore, che prometteva una certa neutralità, non vede in ciò un passo in avanti, un segno di civiltà? Scrive Macho: «L'idea che io appartenga a me stesso, che la mia vita mi appartenga, si incarna oggi soprattutto nella richiesta paradossale che la mia morte mi appartenga. La mia morte diventa il mio progetto, a cui i stesso do forma, e che non voglio affidare a una qualche istituzione o alla famiglia». Basti pensare all'eutanasia istituzionalizzata ormai in diversi paesi e alle diffuse tecniche di suicidio assistito - dove c'è da chiedersi se il termine «suicidio» sia appropriato o se non si tratti piuttosto di una «fine» pilotata, resa più soft dal progresso della medicina.
Non sfugge a Thomas Macho l'ambivalenza di questo processo, che finisce, com'è noto, per fare della medicina un'arte del morire piuttosto che del vivere. D'altronde Macho si concentra su quel che è accaduto dal 1945 a oggi, un'età in cui, pur giudicato una patologia, dovuta a depressione o ad altre cause psicofisiche, il suicidio si è diffuso in modo esponenziale assumendo, nella cultura secolarizzata, un ruolo politico impensabile nei secoli precedenti. Di qui le pagine dedicate a quella sorta di «grande suicidio di massa» che è stato il nazionalsocialismo.
Macho distingue così tre epoche critiche verso il suicidio ed epoche, come la nostra, che ne sono affascinate. Che sia la vita dopo una catastrofe climatica o dopo la diffusione di un virus letale, viviamo in un mondo che, tentato dalla narrazione apocalittica, sogna ormai di vivere in diretta il proprio tramonto. E a stento celiamo l'orgoglio di essere l'unica specie vivente che, congiungendo suicidio di massa e tecnica del sé, possa osare infine l'autocancellazione.
- Donatella Di Cesare - Pubblicato sulla Stampa del 30/1/2021 -
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