giovedì 4 febbraio 2021

Autodistruzione

Alcuni punti essenziali della critica del valore
- di Anselm Jappe -

Il sistema capitalista è entrato in una grave crisi. Questa crisi non è solamente ciclica, bensì finale: non stiamo parlando di un collasso imminente, ma della disintegrazione di un sistema plurisecolare. Non si tratta della profezia di un evento futuro, ma della constatazione di un processo divenuto visibile alla fine degli anni '70 e le cui radici affondano nell'origine stessa del capitalismo. Ciò a cui stiamo assistendo, non è il passaggio ad un altro regime di accumulazione (come è avvenuto con il fordismo), e non si stratta neppure dell'avvento di nuove tecnologie (come nel caso dell'automobile), né ci troviamo di fronte al dislocamento del centro di gravità verso altre regioni del mondo; ma siamo a fare i conti con l'esaurimento di quella che è la sorgente stessa del capitalismo: la trasformazione del lavoro vivente in valore.
Le categorie fondamentali del capitalismo – così come sono state analizzate da Marx nella sua critica dell'economia politica - sono il lavoro astratto e il valore, la merce e il denaro, le quali si riassumono nel concetto di «feticismo della merce». Una critica morale, che si dovesse basare sulla denuncia dell'«avidità», non coglierebbe qual è l'essenziale della questione.
Non si tratta di essere marxisti o post-marxisti, o di interpretare l'opera di Marx, oppure di completarla con nuovi contributi teorici. È necessario ammettere che esiste una differenza tra il Marx «esoterico» e il Marx «essoterico», tra il nucleo concettuale e lo sviluppo storico, tra l'essenza e il fenomeno. Marx non è affatto «superato», come dicono i critici borghesi. Anche se dovessimo limitarci soprattutto alla critica dell'economia politica e - dal suo interno - alla teoria del valore e del lavoro astratto, ciò costituirebbe comunque il più importante contributo per poter comprendere il mondo in cui viviamo. Un uso emancipatore della teoria di Marx non vuol dire «superarla», o completarla con altre teorie , e non significa nemmeno tentare di ristabilire il «vero» Marx da prendere sempre alla lettera, ma si tratta soprattutto di pensare il mondo attuale con gli strumenti che lui ci ha lasciato a nostra disposizione. Bisogna sviluppare quelle che sono state le sue intuizioni fondamentali, a volte perfino contro la lettera dei suoi testi stessi.
Le categorie di base del capitalismo non sono né neutre né sovra-storiche. Le loro conseguenze sono disastrose: il dominio dell'astratto sul concreto (e pertanto la loro inversione), il feticismo della merce, il rendersi autonomi dei processi sociali dalla volontà umana consapevole, l'uomo dominato dalle sue stesse creazioni. Il capitalismo è inseparabile dalla grande industria, e valore e tecnologia procedono insieme; sono due forme di determinismo e di feticismo. Inoltre, queste categorie sono soggette a una dinamica storica che le rende sempre più distruttive, ma che rende anche possibile il loro superamento. Di fatto, il valore si esaurisce. Fin dal suo inizio, più di duecento anni fa, la logica capitalistica tende a «segare il ramo su cui sta seduta», poiché la concorrenza spinge ogni singolo capitale a impiegare tecnologie che sostituiscono il lavoro vivente: questo dà un vantaggio immediato al singolo capitale in questione, ma allo stesso tempo diminuisce anche la produzione di valore, di plusvalore e di profitto su scala globale, mettendo così in difficoltà la riproduzione del sistema. I diversi meccanismi di compensazione, l'ultimo dei quali è stato il fordismo, si sono definitivamente esauriti. La «terziarizzazione» non salverà il capitalismo: poiché bisogna tener conto della differenza esistente tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo (di capitale, è ovvio!).
All'inizio degli anni '70, è stato raggiunto un triplo (se non quadruplo) punto di rottura: economico (visibile nell'abbandono della convertibilità del dollaro in oro con la fine del gold standard), ecologico (visibile nella pubblicazione del rapporto sui limiti dello sviluppo del Club di Roma), energetico (visibile nel "primo shock petrolifero"); a quali si aggiungono i cambiamenti di mentalità e delle forme di vita del periodo del post-1968 («modernità liquida», «terzo spirito del capitalismo»). In questo modo, la società mercantile ha cominciato ad andare a sbattere contro i suoi stessi limiti, tanto esterni quanto interni.
In questa crisi permanente di accumulazione - che indica una crescente difficoltà a realizzare profitti - i mercati finanziari (il capitale fittizio) si sono trasformati nella fonte principale di lucro, permettendo di consumare i futuri guadagni non ancora realizzati. In realtà, il boom globale della finanza è l'effetto, e non la causa, della crisi della valorizzazione del capitale. Gli attuali profitti realizzati da alcuni attori economici non dimostrano in alcun modo che il sistema in quanto tale si trovi in buono stato. La torta diventa ogni giorno sempre più piccola, anche se ne vengono tagliate fette sempre più grandi. Né la Cina, né altri «paesi emergenti» salveranno il capitalismo, nonostante lo sfruttamento selvaggio di cui sono teatro.
Quel che bisogna criticare, nell'analisi del capitalismo, è la centralità del concetto di «lotta di classe». Il ruolo delle classi, è più una conseguenza della funzione che esse hanno nell'accumulazione del valore, visto come un processo anonimo; non sono le classi a trovarsi all'origine di una tale processo. A rendere il capitalismo storicamente unico, non è certo l'ingiustizia sociale, essa esisteva già molto prima.  Sono stati il lavoro astratto e il denaro, a creare una società del tutto nuova, nella quale gli attori, anche quelli "dominanti", sono essenzialmente solo gli esecutori di una logica che li travalica; una constatazione, questa, che tuttavia non esonera alcune figure da quelle che sono le loro responsabilità.
Il ruolo storico del movimento operaio si è andato a costituire, soprattutto, al di là delle intenzioni proclamate, e che consistevano nell'integrazione del proletariato. Ciò, nel corso della lunga fase di ascesa della società capitalistica, si è rivelato effettivamente possibile, ma oggi non lo è più. Si deve ritornare ad una critica della produzione, e non limitarsi solamente a riferirsi alla distribuzione egualitaria delle categorie presupposte (denaro, valore, lavoro). Al giorno d'oggi, la questione del lavoro astratto non è più "astratta", ma è direttamente percettibile.
L'Unione Sovietica è stata essenzialmente una forma di «modernizzazione di convergenza» (attraverso un'autarchia). Lo stesso vale per i movimenti rivoluzionari della "periferia" e per quei paesi in cui essi potrebbero governare. Il suo fallimento, dopo il 1980, è causa di diversi conflitti attuali.
Il trionfo del capitalismo è anche il suo fallimento. Il valore non crea una società sostenibile - sebbene ingiusta - ma distrugge quelle che sono le sue stesse basi in tutti i settori. Ma più che continuare a cercare un «soggetto rivoluzionario», ciò che deve essere superato è il «soggetto automatico» (Marx) su cui si fonda la società mercantile.
Assieme allo sfruttamento - che continua a esistere, e arriva a farlo perfino in proporzioni gigantesche - è in atto la creazione di un'umanità "superflua", se non addirittura un'«umanità spazzatura», che è diventata il principale problema posto dal capitalismo. Il capitale non ha più bisogno dell'umanità, e finisce per auto-divorarsi. Questa situazione costituisce un terreno favorevole all'emancipazione, ma anche alla barbarie. Più che una dicotomia Nord-Sud, ci troviamo di fronte ad un «apartheid globale», con dei muri che, in ogni paese, in ogni città circondano delle isole di ricchezza.
L'impotenza degli Stati di fronte al capitale mondiale non è solo un problema di cattiva volontà, ma è piuttosto il risultato del carattere strutturalmente subordinato dello Stato e della politica alla sfera del valore.
Nel contesto capitalistico, la crisi ecologica è insuperabile, anche considerando la «decrescita» o, peggio ancora, il «capitalismo verde» e lo «sviluppo sostenibile». Finché perdurerà la società mercantile, l'aumento della produttività farà sì che una massa sempre crescente di oggetti materiali - la cui produzione consuma risorse reali - rappresenti una massa sempre più piccola di valore che è espressione della parte astratta del lavoro (e nella logica del capitale conta solo la produzione di valore). Pertanto, essenzialmente, il capitalismo è inevitabilmente produttivistica, vale a dire, orientato alla produzione per la produzione.
Altresì, noi stiamo vivendo anche una crisi antropologica, una crisi di civiltà, nonché una crisi della soggettività. È in atto una perdita di immaginario, soprattutto di quell'immaginario che nasce durante l'infanzia. Il narcisismo è diventato la forma psichica dominante. È questo un fenomeno mondiale: una Playstation la si può trovare tanto in una capanna in mezzo alla foresta quanto in un loft di New York. Di fronte alla regressione e alla decivilizzazione promossa dal capitale, dobbiamo decolonizzare l'immaginario e reinventare la felicità.
La società capitalistica, basata sul lavoro e sul valore, è anche una società patriarcale; e lo è fin nella sua essenza, e non solo per caso. Storicamente, la produzione di valore è un affare maschile. Infatti, non tutte le attività creano valore attraverso gli scambi commerciali. Le attività cosiddette "riproduttive" che vengono realizzate soprattutto nella sfera domestica, in genere vengono attribuite alle donne. Queste attività sono indispensabili alla produzione di valore, ma in sé non producono valore. Esse svolgono un ruolo indispensabile, ma ausiliario, nella società del valore. Società che consiste sia nella sfera del valore che nella sfera del non valore, e cioè nell'insieme delle due sfere. Ma la sfera del non valore non è una sfera "libera", o non alienata, ma tutt'altro. Tale sfera del non valore gode dello status di "non soggetto" (e per molto tempo è stato così anche a livello giuridico), dal momento che queste attività non vengono considerate come "lavoro" (per quanto utili esse siano) e non compaiono sul mercato.
Ad aver inventato una tale separazione tra la sfera privata, domestica, e la sfera pubblica del lavoro non è stato il capitalismo. Ma l'ha molto accentuata. Essa è nata - nonostante tutte le rivendicazioni universaliste espresse attraverso l'Illuminismo - sotto forma del dominio degli uomini bianchi occidentali, ed ha continuato ad essere basata su una logica di esclusione: una logica di separazione tra, da una parte, la produzione di valore, il lavoro che lo crea e le qualità umane che vi contribuiscono (soprattutto la disciplina interiorizzata e lo spirito di concorrenza individuale) e, dall'altro lato, ciò che di tutto questo non fa parte. Nel corso degli ultimi decenni, una parte degli esclusi - in special modo le donne - è stata "integrata" in maniera particolare, e ha così potuto raggiungere lo status di "soggetto"; ma ciò solo quando ha dimostrato di aver acquisito e interiorizzato le "qualità" degli uomini bianchi occidentali. In genere, il prezzo di una simile integrazione consiste in una doppia alienazione (famiglia e lavoro per le donne). Allo stesso tempo, analogamente, sono state create nuove forme di esclusione, soprattutto in tempo di crisi. Non si tratta però di richiedere l'«inclusione»  degli esclusi nella sfera del lavoro, del denaro e in quella che è la sfera del soggetto, ma di farla finita una volta per tutte con una società nella quale solo la partecipazione al mercato dà il diritto ad essere un «soggetto». Il patriarcato - non più di quanto lo sia il razzismo - non è una sopravvivenza anacronistica nel contesto di un capitalismo che tenderebbe invece all'uguaglianza di fronte al denaro.
Attualmente, il populismo costituisce un grande pericolo. Ad essere criticata è unicamente la sfera finanziaria, e in questa critica vengono mescolati elementi della destra e della sinistra, evocando così talvolta l'«anticapitalismo» distorto dei fascisti. Il capitalismo dev'essere combattuto in blocco, e non solo nella sua fase neoliberista. Un ritorno al keynesismo e allo stato sociale non è né desiderabile né possibile. Vale la pena di lottare per «integrarsi» un una società dominante (ottenere diritti, migliorare la propria condizione materiale); oppure questo è semplicemente impossibile?
Occorre evitare l'ingannevole entusiasmo di queste persone che, assommando tutte le attuali forme di contestazione, partendo da questo arrivano a dedurre l'esistenza di una rivoluzione già in atto. Alcune di queste forme corrono il rischio di venire recuperate ai fini di una difesa dell'ordine costituito, mentre altre possono portare alla barbarie. È il capitalismo stesso a realizzare la propria abolizione, quella del denaro, del lavoro, ecc. ; ma essa dipende dall'agire cosciente, consapevole che ciò che verrà dopo non sia anche peggiore. È necessario superare la dicotomia esistente tra riforma e rivoluzione; ma ciò va fatto in nome del radicalismo, dal momento che il riformismo non è in alcun modo "realista". E si presta assai spesso a rivolgere troppa attenzione a quella che sono le forme della contestazione (violenza/non-violenza, ecc.), anziché interessarsi al suo contenuto.
L'abolizione del denaro e del valore, della merce e del lavoro, dello Stato e del mercato, deve avvenire immediatamente; non come programma «massimalista» né come utopia, ma come unica forma di «realismo». Non basta liberarsi della «classe dei capitalisti», ci si deve liberare della relazione sociale capitalistica (una relazione che coinvolge tutto e tutti, qualsiasi sia il ruolo sociale di ciascuno). Diventa pertanto difficile poter tracciare chiaramente una linea di demarcazione tra «noi e loro», o arrivare perfino a dire che «noi siamo il 99%», come spesso hanno fatto i «movimenti di piazza». E questo problema può presentarsi comunque, nelle differenti regioni del mondo, in dei modi assai diversi.
Non si tratta in nessun modo di realizzare una qualche forma di autogestione dell'alienazione capitalista. L'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione non sarebbe sufficiente. Al limite, la subordinazione del contenuto della vita sociale alla forma valore e all'accumulazione verrebbe attuata a partire da una «classe dominante» e si svolgerebbe nel contesto di una forma «democratica», senza per questo essere meno distruttiva. Il problema non dipende né dalla struttura tecnica in quanto tale né da una modernità considerata insuperabile, ma da quel «soggetto automatico» che è il valore.
Esistono modi diversi di intendere l'«abolizione del lavoro». Concepire la sua abolizione attraverso delle tecnologie ci fa correre il rischio di rafforzare la tecnolatria ambientale. Anziché ridurre semplicemente il tempo di lavoro, o limitarsi a fare un «elogio della pigrizia», si tratta di superare e andare oltre la distinzione stessa tra il «lavoro» e le altre attività. Circa questo punto, le culture non capitalistiche sono ricche di insegnamenti. Ma non c'è alcun modello del passato da riprodurre in quanto tale, non c'è alcuna saggezza ancestrale che ci guida, nessuna spontaneità del popolo che possa sicuramente salvarci. Ma per il fatto stesso che per lunghi periodi tutta l'umanità - e buona parte dell'umanità, fino a poco tempo fa - abbia vissuto senza le categorie capitalistiche, dimostra che, quanto meno, tali categorie non hanno niente di naturale, e che è possibile vivere senza di esse.

- Anselm Jappe -  Pubblicato il 31/1/2021 su ensaios e textos libertários -

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