Ritrovo un brano tratto da "L'impero dei segni", un libro di Roland Barthes del 1970. Un libro che è un ibrido tra un diario di viaggio, un trattato di semiologia e un libro illustrato. Ed altro ancora.
Si tratta del passaggio in cui egli commenta l'haiku; dove l'haiku viene visto sia come forma che come vuoto di forma, come l'attuazione di una «effrazione del senso»:
« Forse è per questo che si ripete due volte, come un'eco: non dire che una volta sola questa parola squisita, significherebbe attribuire un senso alla sorpresa, allo spunto, alla repentinità della perfezione; ripeterla più volte, sarebbe suggerire che il senso deve essere svelato, cioè simulare la profondità; tra le due possibilità, né singolare né profondo, l'eco non fa che porre un rigo sotto la nullità del senso. » (p. 88).
Edward Said, nel suo "Il mondo, il testo e il critico", recupera dal famoso passaggio de "Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte" la formula hegeliana originaria:
« Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi avvenimenti e i grandi personaggi della storia mondiale si presentano, per così dire, due volte », scrive Marx, e prosegue: « Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia; la seconda volta come farsa ».
Pur non sfuggendo all'imperativo della ripetizione - argomenta Said, a partire da Marx - non è solo possibile, ma è necessario intervenire criticamente sul significato ( estetico, dispersivo, politico ) di una tale ripetizione, dalla quale ne consegue la rilevanza centrale giocata dalla relazione con il linguaggio, il quale costituisce lo strumento di intervento per eccellenza.
Più vicina alla prospettiva zen contemplata da Barthes, appare invece la situazione che viene prospettata da Samuel Beckett; in particolare quella da lui inscenata per la prima volta nel mese di gennaio del 1953, in "Aspettando Godot" (la cui scrittura aveva avuto luogo nel periodo che va da ottobre del 1948 a gennaio del 1949).
La frase di Barthes a proposito dell'eco e della nullità del senso dell'haiku, mi ha fatto pensare a quello che scrisse sul "The Irish Times" il critico teatrale Vivian Mercier il 18 febbraio 1953:
[Beckett] « ha realizzato un'impossibilità teorica; una rappresentazione teatrale nella quale non accade nulla, e che tuttavia tiene il pubblico incollato alle sedie. Per di più, dal momento che il secondo atto costiuisce una replica sottilmente differente rispetto al primo, egli è riuscito a scrivere un'opera in cui non succede nulla, per due volte ».
fonte: Um túnel no fim da luz
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