giovedì 24 ottobre 2019

Questa confusa guerra

Biji Kritik Rojava: critica radicale e solidarietà contro la barbarie delle guerre di riordinamento globale
- L'utopia è importante; così come è importante la critica radicale della realtà così com'è -
di Rachel Pach

Prologo: questo testo è stato scritto nello specifico contesto del 2016, quando i Comitati di solidarietà con Rojava avevano cominciato a nascere in tutto il mondo e a sollevare la questione nel circuito militante di Internet, dove erano in corso e infuriavano i dibattiti su Rojava, sia rivoluzionari che non. Questa è allo stesso tempo sia una risposta a tutto questo, ma anche un'autocritica, dettata dalla paura di fare un'apologia spettacolare di una guerra che si svolgeva altrove, e riflette la ricerca di un altro senso possibile per la solidarietà internazionale.

«Solo la violenza di chi è vivo è rivoluzionaria» (Raoul Vaneigem. "Per un'Internazionale del genere umano".)

Uno: comprendere Rojava al di là dello spettacolo
Spinta dalla tradizione della pratica militante e funzionando basilarmente come ufficio di propaganda del programma politico di Rojava, viene istituita in tutto il mondo quella che è una rete internazionale di comitati di solidarietà alla resistenza curda. Chi scrive questo testo, nell'ultimo anno (2016), ha partecipato attivamente ad uno di questi comitati, spinta da motivazioni che attraversano un vasto territorio di idee: quelle di un'articolazione politica internazionalista; di un'organizzazione della vita quotidiana attraverso le assemblee di base, di quartiere, comuni; di una posizione delle donne, viste non solo sul fronte della lotta, ma anche su quello sociale, in Medio Oriente; una storia di decenni di guerriglia sulle montagne; quelle della sopravvivenza delle popolazioni native sotto gli imperi di ogni età; del coltivare lingue proibite e danze intorno al fuoco; quelle dei miti dell'antica Mesopotamia; quelle della storia eroica della sinistra in Turchia; della resistenza ai nuovi volti del fascismo; di una democrazia senza Stato che nasce da uno Stato distrutto dalla guerra civile; del concetto secondo cui in questo tempo presente, in cui tutto dappertutto sembra essere diretto verso le rovine, c'è, in una qualche parte del mondo, una rivoluzione in corso.
Ma il Rojava è una zona di guerra, circondata dappertutto, e su larga scala può essere conosciuta solo attraverso accesso remoto via Web. Ragion per cui, si presenta al pianeta come un luogo presente-assente nel dominio globale delle immagini diffuse: Internet. Pagine e profili online mettono in circolazione un profluvio di foto di ragazze vestite in uniforme che impugnano i loro  kalashnikov e portano sciarpe e capelli intrecciati, di fotomontaggi dove paesaggi montagnosi e contrasti di colori vengono sovrapposti al ritratto sorridente di Abdullah Öcalan, di video di combattenti peshmerga che mostrano, ostentandoli, i corpi dei miliziani dell'Isis, di reportage di ogni tipo, volantini, manifestazioni pubbliche di sostegno... la cosiddetta rivoluzione curda viene lanciata per mezzo di condivisioni il cui contenuto assai spesso è privo di qualsiasi discernimento. Tale diffusione avviene soprattutto attraverso un lavoro di propaganda militante, o addirittura dilettante, che mostra più il repertorio di una fascinazione estetica e di una fede politica, anziché la realtà del territorio, che così si presenta ai nostri occhi avvolta in una nuvola di mistificazione. Tuttavia, non tutto quel che circola sia necessariamente rozzo, e come avviene con qualsiasi altro accesso ad una realtà distante, capire il Rojava richiede un'attenta indagine. E persino quelle che sono le immagini più insolite rivelano qualcosa di rilevante circa la guerra in questa nostra epoca: rivelano come, nell'era del capitale fittizio, sia internet ad essere diventata la base materiale della guerra in Siria. Una tale speculazione virtuale sulla tragedia non sono produce dei pesanti contenuti per il mercato dei dati via web (surriscalda l'economia dei clic), ma è anche responsabile del coinvolgimento di buona parte dei contingenti presenti sul campo, e di attrarre investimenti da tutte le parti. Lo spettacolo del collasso elevato a livello hard. Sia come sia, in qualche modo, Rojava esiste. E appare al mondo come la rappresentazione di un altro avamposto possibile di fronte allo stato di emergenza in cui esso si viene oggi a trovare. Rivoluzionario o meno (è questo il tema degli ampi dibattiti che si svolgono sulle pagine politiche), stiamo parlando di un processo di formazione sociale e territoriale storico che non ha precedenti e che emerge in quello che è l'epicentro di una guerra mondiale del nostro tempo. È chiaro che, tra il combattere dei nemici reali sul campo di battaglia e l'attaccare  la totalità dello Stato o le sue astrazioni concrete del capitale, esiste tutta una serie infinita di conflitti. Anche la solidarietà internazionale, così come le critiche fatte da entità straniere, contengono delle contraddizioni. Nel limite di questo testo, tessuto a partire dagli affetti e dagli attriti vissuti all'interno della militanza anarchica di São Paulo, la difesa che qui ne viene fatta è quella per cui le utopie hanno la loro importanza; così come ha importanza la critica radicale della realtà così com'è.

Due: non fatevi ingannare dalla geopolitica
La nascita storica di Rojava come regione autonoma (autoproclamatasi Federazione del Nord della Siria)ci parla di una territorialità formatasi nella e dalla guerra. Ma non una guerra qualsiasi (senza voler ridurre «qualsiasi guerra» ad una «guerra qualsiasi»), ma la protagonista delle guerre di riordinamento mondiale di questa nostra epoca - la guerra civile in Siria. Far partire l'analisi da questo presupposto, sulla base della fase attuale dello sviluppo capitalistico, genera subito attrito con varie prospettive sulla situazione, soprattutto perché va a sabotare delle concezioni classiche circa l'imperialismo e la rivoluzione.
A cominciare dal rifiutare il modo più comune di decifrare una guerra, personificando gli Stati come se fossero dei «soggetti» volontari e con pieni poteri: come dei giocatori sul tabellone di un wargame. Vista in tal modo, la nozione di violenza si personifica nelle figure di Assad, Putin, Obama, Erdogan, Öcalan, e gli eventi sembrano tradursi nella volontà e negli atteggiamenti delle varie identità politiche identificate per mezzo di sigle (ISIS/PKK/AKP/YPJ/YPG/PYD/ecc).  È ovvio che la guerra abbia una sua strategia statale, e che i capi di Stato, i partiti, le organizzazioni , svolgano quelli che sono i loro ruoli nel gioco, insieme a tutto il teatro diplomatico coinvolto ed ai negoziati fatti sottobanco. Ma non tutto opera su questa scala fatta di cartine e grafici geopolitici: esiste una logica astratta e diverse contingenze concreta che muovono il processo. La scienza politica che analizza e organizza le pratiche politiche in generale non si muovono sul terreno della critica del valore e della vita quotidiana. E sono precisamente questi i fronti di questa analisi.

Tre: la guerra al tempo del capitale fittizio
Le condizioni di guerra, del resto, non sono una costante trans-storica: non esiste una base, un fondamento antropologico, in grado di comprendere cosa ci sia di concreto a spingere ad ucciderci in massa l'un l'altro. Ogni guerra è determinata, in particolare, dalle strutture sociali date in ciascun luogo ed in ciascuna epoca, legate allo sviluppo generale della società. Pertanto, le guerre odierne non seguono gli schemi di quelle tra gli imperi della prima metà del 20° secolo, né delle guerre regionali tra Stati dipendenti dalle superpotenze della seconda metà, né quelli dei secoli precedenti, ma, piuttosto, hanno a che fare con quelle che sono le circostanze generali della nostra epoca - segnata dalla crollo del World Trade Center [vale a dire, le torri gemelle, l'11 settembre 2001], attaccato da attori invisibili (la maschera del terrorismo), che è stato l'atto inaugurale del 21° secolo.
C'è una rottura sostanziale tra le guerre di prima e quelle di oggi. Se fino quasi alla fine del 20° secolo le guerre operavano come motore, e forza trainante dell'imperialismo, per l'espansione forzata dei confini ed il dominio coloniale dei territori, incorporando tutto e tutti all'interno del sistema globale produttore di merci, questo stesso processo violento continua ancora - dal momento che la modernizzazione è irreversibile - solo che ora funziona a rovescio. Dal momento che ha forzato la socializzazione capitalista (basata sul lavoro astratto) fino a quelli che erano gli ultimi angoli del pianeta, ora il capitale globale entra in crisi di valorizzazione (vale a dire, collassa) e lascia immense zone nella desolazione economica. E che cosa avviene, in questi luoghi, delle relazioni sociali mediate dal denaro, e che ora si trovano in un deserto finanziario? Stati collassati, spostamenti e migrazioni forzate, guerra civile. Con l'avanzare accelerato della terza rivoluzione industriale, e con la stratosferica speculazione e le crisi di iper-accumulazione, il potere mondiale non opera più al fine di incorporare «risorse» per la riproduzione allargata del capitale, poiché tale capacità come previsto si è esaurita. Le nuove guerre esplodono quindi per escludere quelli che sono gli eccedenti per il sistema, dal momento che ciò che conta e interessa per il riordinamento dell'ordine mondiale capitalista è la distruzione delle strutture e lo sterminio di persone la cui esistenza, dal punto di vista della valorizzazione capitalista, rappresenta un ostacolo. Mentre il capitale finanziario transnazionale accumulato da alcuni «agenti» permette la barbarie, la posizione delle vecchie potenze mondiali è quella di permettere, all'inizio, che «si ammazzino fra di loro» e arriva perfino a fornire forze ed armi per farlo, come se si trattasse di una «guerra normale» di manutenzione dello status quo. Ma nello scatenare la più grande «crisi umanitaria dai tempi della seconda guerra mondiale» (riportata dai media come se in questa società anche la «vita normale» non fosse «crisi umanitaria»), bisogna anche che gestiscano i resti della catastrofe che hanno prodotto altrove. Pertanto, dal controllo della barbarie, si passa alla barbarie del controllo: reazioni nazionaliste, radicalizzazione del razzismo, aumento della polizia, inasprimento del controllo dei confini, peggioramento delle condizioni di vita, genocidio. Non c'è da stupirsi che la situazione venga vista come attuazione del fascismo - ma il punto è che il fascismo non opera più sulla base dell'espansione dell'economia nazionale, dal momento che i dominati non possono essere più sfruttati in maniera produttiva. A differenza di quanto avveniva in altre epoche, le migrazioni di massa non sono più dovute alla mobilitazione del lavoro (come nella storia degli schiavizzati, dei proletarizzati, perfino di quelli che andavano ad imborghesirsi altrove), ma dall'imperativo della mobilitazione per la tragedia - e questo lo si può notare a partire dalle narrazioni delle saghe personali sull'abbandono di tutto quello che si possedeva, sull'attraversamento di mari e di deserti, che avvengono non per il «posto di lavoro», ma per la disperazione di poter continuare ad esistere. Coloro che, in questo orizzonte, riescono ad essere sfruttati dal lavoro appaiono come se avessero avuto fortuna. Ognuna di queste tragedie particolari viene quantificata dagli Stati come costo di gestione della popolazione. Nel fascismo del capitale fittizio, i rifugiati vengono trattati come merci umane da smerciare in un mercato globale in crisi. Le «soluzioni politiche» sembrano sempre provvisorie, così come le misure improvvisate diventano permanenti. I governi estendono l'eterno stato di emergenza: ormai non possono promettere altro che la parcellizzazione della catastrofe a credito e con gli interessi.

Quattro: economia politica, modelli in guerra
La guerra civile in Siria esprime radicalmente quelli che sono i contenuti di questo tipo specifico di guerra del collasso della modernizzazione. È stata innescata da una ribellione popolare avvenuta in un contesto di crisi politica ed economica, schiacciata da un governo che aveva attaccato la sua stessa popolazione proprio perché non era in grado di difendere la sua amministrazione dalla struttura statale. Vista sul campo, assomiglia più ad un caos generalizzato di centinaia di milizie si affrontano in quelle che sono delle coalizioni mutevoli, formate da piccolo poteri armati (di ordine vario: i comandanti possono essere sceicchi, gangster, borghesi, capi tribù, leader di una comunità... i combattenti, per lo più, proletari), sostenuti dal capitale finanziario straniero (magnati del petrolio, imprenditori nel settore delle armi, c'è una pluralità enorme di investitori interessati), e che, pertanto, non sono solo nemici sul fronte, ma sono anche imprese concorrenti nella disputa per gli investimenti. Se all'inizio del «conflitto» una sola pallottola di AK-47 poteva costare fino a due dollari, quanto può costare ora questa guerra, cinque anni dopo? C'è un punto fondamentale per poter comprendere la guerra nel capitalismo: per gli «accordi di pace», non sono i morti quelli che contano. Controllare militarmente delle aree implica assumere la gestione dei luoghi che si vanno ad occupare. In quelle che sono le regioni autonome relativamente allo Stato (sia che si tratti di zone ribelli, Rojava o il Califfato), i gruppi armati hanno il loro braccio politico ( o forse è all'inverso? ), giacché in queste condizioni l'ordine sociale esiste solo in quanto possesso della violenza. Non per niente, le prime istituzioni civile che si erano costituite nelle aeree auto-amministrate sono state la Polizia e la Giustizia. Ma sul piano dei bisogni radicali, tocca in generale alla popolazione preoccuparsi della manutenzione della propria vita. È qui che si stabilisce l'autogestione della sopravvivenza in una società in rovina.
Il confederalismo democratico - un modello autogestionario che corrisponde allo statuto rivoluzionario di Rojava, che fondamentalmente organizza la società a dei livelli a scalare, partendo dalla base, e che esige la massima rappresentatività della popolazione nelle sfere specializzate della politica - fornisce ad una società che si trova in condizioni critiche di riproduzione (con una capacità produttiva praticamente rovinata e priva di ogni vecchia struttura statale) non solo quello che è un funzionamento relativamente efficiente per la manutenzione del territorio ma riorganizza anche in maniera abbastanza significativa l'ordine sociale esistente. È anche evidente che dappertutto, dove ha luogo la guerra, l'ordine sociale esistente si riorganizza necessariamente in maniera concreta. Ma, a differenza del modo barbaro (coma aggettivare diversamente l'amministrazione di Daesh?) in cui viene stabilita la gestione del territorio in altre parti della Siria, il modello in vigore a Rojava è stato assemblato dal Partito sulla base di quello che è stato un vasto repertorio gestionale della sinistra nell'ultimo secolo, componendo in un unico meccanismo una miscellanea di elementi dell'anarchismo e del socialismo, ma anche della socialdemocrazia e del vecchio ordine feudale, e con una forte influenza del movimento femminista occidentale, e incorporandole nuove ondate capitaliste, come l'«economia solidale», oltre a tentare di introdurre delle tecniche ecologiche per la produzione in generale, e questo mentre si brucia petrolio per produrre energia elettrica e provvedere così alle necessità di base della popolazione. Per coloro che adorano l'unanimità della prassi di sinistra, tutto ciò suona come se fosse un modello quasi utopico, che viene inteso come un idillio ideologico. A quei teorici della critica che segnalano coraggiosamente in Internet le incongruenze tra il «progetto libertario» di Rojava e le sue «pratiche autoritarie», bisogna dire loro subito che questo attrito tra un modello di società e l'esistenza contraddittoria di una capacità di socializzare beh... questo non è un problema esclusivo dei  «mali rivoluzionari curdi»: ma della Politica, nel senso di una sfera specializzata nell'amministrare il quotidiano. Il vero problema della macchina democratica non statale installata a Rojava è alla base di questo, e non sono specificità del suo «buono» o del suo «cattivo» funzionamento, e che non si tratta di contraddizioni incondizionate. In ogni caso, le critiche al processo concreto sono necessarie, ma devono essere prudenti e considerare le contingenze. Già nel campo dell'Economia, bisogna dire ai critici che la dichiarazione di autonomia di un territorio non significa la sua autonomia dal pianeta. Dato il grado di devastazione delle strutture fisiche del territorio, è necessario negoziare degli scambi in modo da garantire il rifornimenti minimi alla popolazione, e in questo mondo non esiste scambio che possa essere fatto senza la mediazione del denaro. Il fatto che Rojava si trovi ad essere seduta su un bacino petrolifero, può essere visto come come un fortuna da alcuni e come una disgrazia per altri, ma ciò che importa è: commerciano perché ne hanno bisogno. Circa il mantenimento della proprietà privata, un altro topos che gli analisti stranieri di Rojava discutono continuamente, è noto che si tratta di una questione che viene discussa nei consigli, ed è, inoltre, una discussione elementare che dev'essere fatta non solo dal punto di vista delle teorie socialiste, ma perché si ripercuote immediatamente in quelle che sono le determinazioni pratiche della vita. Ma è anche importante ricordare che, nel limite dell'analisi, tutti i modelli locali che appaiono come alternative, come il cooperativismo per esempio, sono categoricamente capitalistiche. Perciò, per ribadire agli esperti critici della rivoluzione l'ovvio: in un contesto isolato è impossibile abolire la forma merce - ma questo non c'era neanche nel programma di Rojava.

Cinque: le storie della vittoria curda
Certamente, le vittorie delle forze curde (l'impressionante battaglia di Kobane), e la conseguente conquista territoriale in nome dell'auto-dichiarata Federazione del Nord della Siria, hanno a che vedere con la storia dell'organizzazione politica militare del PKK e con l'esperienza di decenni di guerriglia contro gli eserciti di tutti gli Stati nazionali che dominano il Kurdistan; vale a dire, un repertorio strategico abbastanza avanzato, se si considera la congiuntura di questa confusa guerra. È chiaro altresì che il successo delle sue campagne non è dovuto solo ad una «cultura curda di intelligenza bellica», né tantomeno alle vecchie armi sovietiche recuperate dall'Afghanistan, ma piuttosto al forte sostegno degli Usa e all'appoggio degli altri paesi al PYD/YPG/YPJ  [Unità di Protezione Popolare]. Denunciare come incoerente una tale posizione tattica e diplomatica, e in contrasto con una «lotta realmente rivoluzionaria», è una critica comune nei confronti delle milizie popolari curde, fatta da chi non è a conoscenza di quale sia il quadro di bisogni reali estremi in cui possa essere resa possibile una difesa in quel contesto. La perversione consiste nel pretendere dall'Altro - che al limite combatte per la sua sopravvivenza - opponga resistenza alla guerra a partire da una posizione libera da contraddizioni. È ovvio che sia fondamentale richiamare l'attenzione sulle esecuzioni e sulle coercizioni, storicamente promosse dal movimento curdo, perché portano alle luce quella che è l'incoerenza rispetto ai principi etici, e demolisce pubblicamente l'ideologia delle dichiarazioni in proposito. Ma le insistenti accuse di violazione dei diritti umani che vengono rivolte ai partiti socialisti curdi, per lo più non dialettizzano quella che è la violenza inerente ad un processo sociale che viene gestito sotto l'ordine mondiale dello Stato, del Capitale e del Patriarcato, ma piuttosto affermano l'ideologia borghese della non violenza, la quale conferma tale ordine globale, rivendicandone il suo codice morale.

Sei: essenzialismo e status rivoluzionario
Senza voler scaricare su Rojava tutto il peso teorico, che sia socialista utopico o scientifico, del termine "rivoluzionario", si consente quanto meno di vedere tale processo come relativo alla società di classe: nel senso dell'organizzazione della società civile che va verso il consolidamento di un nuovo tipo di struttura sociale generale, che tuttavia non è stato prestabilito. In quanto momento storico, il processo di formazione muove la società virtualmente, indicando quelle che possono essere diverse possibili forme di organizzazione che, vivendo, possono istituirsi o meno. Se può sembrare impossibile che possa esistere un territorio senza confini rigidi, o un'architettura politica senza Stato, ciò avviene perché la forma Stato ha attraversato storicamente un processo di divisione in classi e si è consolidata in quanto forma assoluta della società moderna. Ma con la modernizzazione al collasso, vediamo che sta emergendo qualcosa di nuovo. Nel Rojava, così come in molte altre territorialità contemporanee, quella che è l'auto-organizzazione sociale in una porzione di territorio  non destituisce immediatamente l'esistenza dello Stato che lo domina, ma prescinde da esso in quanto meccanismo organizzativo. Questo non punta necessariamente al superamento storico dello Stato, e ancor meno fa riferimento ad una «Zona Autonoma Temporanea»; si tratta, innanzitutto e soprattutto, di un'altra formazione sociale resa possibile a partire dalla plasticità dell'ordine mondiale in crisi, e dagli imperativi di riordinamento del sistema capitalistico globale. In ogni caso, la condizione follemente negativa di un processo di formazione sociale condotto sotto la barbarie, può destituire solo quella che è l'idea positivista dell'esistenza di un soggetto storico rivoluzionario. La consapevolezza che la storia viene fatta da un corpo sociale organizzato (che qui comprende e tocca una miriade di forme e di identità possibili), il quale domina coscientemente (sia attraverso la «vera teoria sociale» o attraverso l'«accumulo di esperienze», che attraverso la militanza reclamata) un processo sociale in corso, proiettando su di esso il suo divenire come se fosse un «programma»... quest'idea si è dimostrata un'illusione, soprattutto nell'ultimo secolo, quando si sono verificati da tutte le parti dei veri e propri scontri, senza che tuttavia si sia arrivati solo a delle «mezze rivoluzioni» (avvii di miglioramenti reali limitati ad alcuni determinati ambiti della vita sociale - « partout des révolutionnaires, mais la Révolution nulle part.» (Internazionale Situazionista - I.S. n°10, 1965). Ciò dimostra solo fino a che punto le teorie e le prassi politiche in generale non sfuggano alla vecchia metafisica del soggetto della Ragione illuminista, quella stessa che ha fondato lo Stato moderno e che da secoli anima il capitalismo, ora più che mai sotto i vessilli dell'«amministrazione» e della «gestione sociale» («pianificazione» ed «urbanismo» inclusi). A questo punto, si può ammettere che tutto il dibattito sullo status, vero o falso, della rivoluzione di Rojava, che si svolge tra gli anarco-apologeti e critici cinico-marxisti prosegue sul piano del pensiero cartesiano, e reitera quella che è un'idea feticista della rivoluzione. E in fin dei conti, questo si dimostra essere anche un falso problema: perché le formulazioni astratte di cosa sia o non sia rivoluzione non considerano le implicazioni concrete di ciò che essa rappresenta per coloro che muovono (contraddittoriamente) il processo.
In "Guerra e Pace nel Kurdistan", Öcalan elabora una tesi dell'identità curda, e lo fa con un ethos essenzialmente rivoluzionario. Essa si basa sul lavoro accademico svolto negli anni '70 da intellettuali di sinistra turchi compromessi con la costruzione politica di un'identità nazionale curda ai fini della fondazione nella regione di uno Stato socialista, e sostiene che l'etnia curda sarebbe autoctona della Mesopotamia e discenderebbe dalla prima civilizzazione, responsabile della rivoluzione neolitica; inoltre, va fatta attenzione al determinismo geografico, secondo cui per la conformazione del loro territorio (sulla catena montuosa Zagros-Taurus), i curdi (etimologicamente i Kurtis, i popoli montani) sarebbero essenzialmente dei guerriglieri. Adesso, anche la Jinealogia, la scienza specifica delle donne sviluppata negli ultimi decenni dalle accademie delle donne curde, viene stabilita naturalizzando il potere che queste hanno acquisito nella società nel corso di una storia di lotta assai dura. Se oggi le donne occupano ruoli centrali nella formazione sociale di Rojava, ciò non è senz'altro dovuto ad una «natura femminile», né alla richiesta proveniente da un leader illuminato, ma in quanto esso sono state armate dalle necessità della guerra, guadagnando forza nelle rivolte popolari che hanno costretto ad una loro maggior partecipazione nel corso del processo, come protagoniste delle lotta contro le loro stesse oppressioni. Vale a dire, per quanto quell'ontologia possa servire come discorso ideologico, è lo «spirito rivoluzionario» curdo, quello che ci parla della storia della resistenza di queste popolazioni. Si tratta, in fin dei conti, dei modi di sopravvivenza che sono stati tramandati di generazione in generazione, nel corso di secoli di guerra e di dominio. La cosmogonia di un popolo costruita intorno ad un'identità rivoluzionaria, fa sì che i morti del passato riaccendano la speranza nei vivi, quando questi si trovano in pericolo. Pertanto, la rappresentazione di Rojava come rivoluzione può anche essere ideologica, ma è reale. È reale perché si dipana da una realtà storica nello stesso tempo in cui ora determina questa realtà. La speranza e la disperazione non sono solo virtuali: mobilitano l'azione. La rivoluzione, in quanto rappresentazione come dell'altra società possibile imprime senso al processo sociale vissuto ora; spinge la comunità, ciascuna in particolare, a produrre attivamente la propria storia - anche se non domina del tutto il processo sociale che ha messo in moto.

Sette: il possibile significato della solidarietà
Nelle note preparatorie alle tesi sul concetto di storia, scritte nel momento del trionfo del fascismo, Benjamin scriveva: «Marx afferma che le rivoluzioni sono le locomotive della storia. Ma forse a volte non è proprio così. È possibile che le rivoluzioni siano, per l'umanità, che viaggia su quel treno, il gesto di tirare il freno di emergenza». Se l'unico progresso logico possibile è quello dell'espansione esponenziale della barbarie, la rivoluzione che possiamo trovare a Rovaja consiste precisamente nella lotta contro questo progresso, vista come il tentativo di ampliare il campo del possibile spingendolo verso un altro divenire.
Mentre la violenza del capitale al collasso progredisce su scala globale , quel che conta nella solidarietà internazionale alle lotte radicali per la sopravvivenza non consiste nel difendere un determinato modello politico, ma nel muoversi in direzione dell'incontrarsi l'un l'altro; senza pretendere dall'altro un ruolo eroico o senza accusarlo moralmente per le sue contraddizioni. Il movimento di solidarietà avviene, funziona nel senso che riesce a comprendere sotto quali condizioni si trovano le nostre sorelle e i nostri fratelli, e riesce a cercare insieme a loro quella violenza che possa essere in grado di combattere la vera violenza, che è la totalità capitalistica. È per questo che dobbiamo supportare la rivoluzione come se fosse una rappresentazione che si muove nel campo del possibile - in modo che ci spinga a muoverci, perché non siamo morti. O come canta lo slogan Rojavista: « Berxwedan Jiyan ê » ! ( « La resistenza è vita » !

- Rachel Pach - Originariamente pubblicato in spagnolo sul #1 da revista 2&3 DORM -

BIBLIOGRAFIA:

Adresse aux révolutionnaires d’Algérie et de tous les pays (Argel, juillet 1965) – Internationale Situationniste, numéro 10. Mars, 1966.
Califat & Barbarie: En attendant Raqqa – Tristan Leoni, DDT21. Julho 2016.
Crédito à morte: a decomposição do capitalismo e suas críticas – Anselm Jappe, 2012.
Cristóvão Colombo Forever? Para a crítica das atuais teorias da colonização no contexto do colapso da modernização – Roswitha Scholz, Revista EXIT! nº 13. Julho 2016.
Guerra e paz no Curdistão: perspectivas para uma solução política da questão curda – Abdullah Öcalan
La présence et l’absence: Contribuition à la théorie des représentations – Henri Lefebvre, 1980.
Por una internacional del género humano – Raoul Vaneigem, 1999.
Rojava Revolution: Reshaping masculinity – Rahila Gupta, 9/5/2016.
Sobre o conceito da história – Walter Benjamin, 1940.
Weltordnungskrieg: A guerra de ordenamento mundial, o fim da soberania e as mutações do imperialismo na era da globalização – Robert Kurz, Crônicas do capitalismo em declínio (2003-2012).

fonte: PassaPalavra

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