domenica 20 ottobre 2019

Fotografando gli Zombi

Allarme globale sul debito delle imprese
- di Arnaud Leparmentier, Marie Charrel, Julien Bouissou e Simon Leplâtre -

Per alcuni, sarà questo ad aprire la prossima crisi. Per altri, il fenomeno mostra soprattutto l'accumularsi di fragilità nel contesto dell'economia mondiale. A partire dalla tempesta finanziaria del 2008, nella maggior parte dei continenti, il debito delle imprese non ha mai smesso di gonfiarsi e crescere, destando la preoccupazione delle grandi istituzioni internazionali.
Nel suo ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria, pubblicato mercoledì 16 ottobre, anche il Fondo Monetario Internazionale (FMI) lancia l'allarme e avverte: «Nel caso di un brusco rallentamento delle attività, nel peggiore degli scenari, il 40% del debito delle imprese nelle 8 più grandi economie, vale a dire 19.000 miliardi di dollari [17.000 miliardi di euro] sarebbero esposti ad un rischio di default, superiore al livello registrato durante l'ultima crisi finanziaria». E tutto questo per una buona ragione: secondo l'Istituto della Finanza Internazionale (IFI) - un'organizzazione che riunisce le più grandi istituzioni finanziarie -, nel corso del primo trimestre, il debito totale delle imprese (escluso il settore finanziario) è arrivato a culminare fino al 91,4% del Prodotto Interno Lordo (PIL) mondiale, registrando un aumento di 20 punti in venti anni. E tale debito risulta ormai essere superiore a quello dei governi (87,2% del PIL, e cresciuto di 30 punti dal 2000), e a quello delle famiglie (59,4%, cresciuto di 16 punti).
Ovviamente, la situazione cambia da paese in paese, ma anche a seconda della solidità della regolamentazione che disciplina i prestiti, dello stato di salute delle imprese interessate, della valuta in cui il loro credito è stato sottoscritto, ed il canale attraverso il quale si indebitano: banche, mercati obbligazionari, fondi di investimento...

Operazioni a volte rischiose.
Inoltre, la riduzione generale dei tassi d'interesse, in parte legata all'accomodante politica monetaria delle banche centrali, riduce in maniera considerevole l'onere dei rimborsi, e consente così a delle piccole e medie imprese, che fino ad allora non avevano avuto alcun accesso al credito bancario, di finanziarsi. Rovescio della medaglia: la leva finanziaria del prestito, viene sempre più utilizzata per finanziare delle operazioni a volte rischiose, come quelle relative alle fusioni/acquisizioni negli Stati Uniti, avverte l'FMI. «Oltretutto, negli ultimi anni la qualità del debito è notevolmente peggiorata», sottolinea Ana Boata, economista presso la compagnia di assicurazione del credito Euler Hermes. Secondo l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), la quota di obbligazioni con rating tripla B è passata dal 30% del 2008 a più del 54% di oggi. Ma sotto questo livello, la probabilità di fallimento viene stimata elevata. Questo significa allora che l'indebitamento delle imprese forma un'enorme bolla che si trova sul punto di esplodere? Non esattamente. «Non si tratta tanto di un rischio sistemico globale, quanto piuttosto di tasche di rischio, che in alcuni paesi sarebbero difficili da gestire», stima Sonja Gibbs, dell'IFF, «soprattutto in Cina, dove l'indebitamento delle imprese supera ormai il 150% del PIL, ed in alcuni paesi emergenti, come la Turchia.» Ma anche in diversi paesi industrializzati, soprattutto in Europa, dove, nonostante i tassi bassi, il rallentamento economico pesa sui profitti delle piccole e medie imprese, e sulla loro capacità di rimborsare gli interessi.  A rischio di costringerli a doversi indebitare ancora un po' di più per poter onorare le loro scadenze. E, soprattutto, in caso di recessione, vedere quelli che sono i più deboli transitare nell'insolvibilità dei pagamenti, oppure di ritrovarsi a dover affrontare un improvviso innalzamento dei tassi sui debiti...

Negli Stati Uniti, il debito raggiunge livelli record.
È un po' come la bancarotta sognata dagli spiriti maligni, eccola, o quasi: martedì 15 ottobre 2019, sui mercati finanziari, il debito a rischio della WeWork - in scadenza nel 2025 -  veniva scambiato al 79% del suo valore. Oramai, per essere disposti a comprare il debito dell'impresa che fornisce spazi di lavoro, dopo il fallimento della sua quotazione in Borsa [IPO], a settembre, gli investitori pretendono un rendimento superiore al 13%, dal momento che si erano incazzati quando avevano scoperto che l'impresa aveva continuato a consumare liquidità, incapace com'era di versare dividendi. Da allora, il suo fondatore, Adam Neumann, ha dato le dimissioni dalla sua posizione di CEO,e l'intera società sta crollando come se fosse un castello di carte. Da tempo è allo studio una ristrutturazione multimiliardaria , per salvare il  gruppo, che entro il 2020 ha bisogno di 3 miliardi di dollari liquidi.
Un avvertimento, prima dello scoppio della bolla finanziaria negli Stati Uniti? Per quelli che non hanno mai smesso di continuare a denunciare quelle che sono le follie finanziarie degli Stati Uniti, il collegamento è perfino troppo facile, anche se tali follie sono molto più ragionevoli di quelle dei francesi. Il bilancio stabilito a settembre dalla Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI), la banca delle banche centrali, ha messo le cose in chiaro. Il debito americano, escluso il settore finanziario (Stato, famiglie, imprese), ammonta al 250% del PIL, contro il 315% di quello francese, e quello del 178% di quello tedesco.
Secondo la Federal Reserve (Fed, banca centrale americana), il debito delle famiglie ammonta al 75% del PIL - vale a dire 15.600 miliardi di dollari: che è più di quello della Francia e della Germania (60%, e 57%), ma in un paese in cui si prende in prestito e ci si indebita per qualsiasi cosa, dalla scuola materna alla pensione, ipotecando e impegnando la propria casa - negli Stati Uniti, il prestito dipende dal prezzo dei beni che si vogliono acquistare, e non dalle capacità di rimborsarlo -, dopo il 2007 questo tasso è crollato, nel momento in cui aveva raggiunto il record del 99%. Per quel che riguarda il debito delle imprese non finanziarie (15.300 miliardi di dollari, secondo la Fed), di cui si continua a dire che è diventato folle, con l'emergere di attori privati (comprese le società di investimento non quotate), esso ha raggiunto il 75% del PIL, contro il 143% in Francia ed il 57% in Germania. Detto in altre parole, è più rischioso il Casino che il Walmart. Tuttavia, ciò non ha impedito che il debito arrivasse a dei livelli record, passando dal 61% del PIL, dopo l'approfondirsi della crisi finanziaria nel 2012, al 75% odierno, mentre esso rappresenta una quota sempre più grande dei profitti. Eppure, i fallimenti aumentano poco, grazie al calo dei tassi d'interesse, anche se il mercato delle obbligazioni rischiose si sta restringendo. «Nelle Piccole e Medie Imprese, il debito a rischio ha raggiunto dei livelli elevati negli Stati Uniti», sottolinea l'FMI in quella che è stata la sua relazione sulla stabilità finanziaria, pubblicata mercoledì scorso. La cosa non ha impedito alle imprese di aumentare quello che è il loro debito alla fine dell'estate. L'Apple è tornata sul mercato per la prima volta dal novembre del 2017 per raccogliere 7 miliardi di dollari: gli investitori, scottati dal basso rendimento dei titoli di Stato causato dalle banche centrali, hanno cercato un po' più rischio in maniera da avere una migliore remunerazione. Per quel che riguarda le imprese - le quali almeno pagano il tasso del 2,96% ai loro creditori: cosa quanto meno preferibile ai tassi negativi europei -,  secondo il Financial Times, l'occasione ha fatto l'uomo ladro.

In Asia, la paura di una crisi finanziaria.
«Se lasciata fuori da ogni controllo, l'accumulazione del debito minaccia la stabilità finanziaria, soprattutto nell'attuale contesto, in cui i rischi di shock esterni sono elevati», ha avvertito, in una suo rapporto pubblicato alla fine di settembre, la Banca Asiatica dello Sviluppo. Va detto che nei paesi emergenti asiatici, compresa la Cina, il debito privato, dalla crisi finanziaria del 2008, è aumentato di due terzi, per arrivare a circa il 170% del loro PIL . In presenza di un brusco calo della crescita globale, o di un acutizzarsi del conflitto commerciale tra la Cina e gli Stati Uniti, il peso del debito rischia diventare tanto più insostenibile, dal momento che viene talvolta utilizzato per mantenere in vita delle attività fragili. Ci sono altri rischi: in alcuni paesi, una parte significativa del debito contratto dalle imprese è espresso in valute estere (per esempio, la metà del debito indonesiano), cosa che li rende vulnerabili al minimo aumento del dollaro o dell'euro. L'Asia, che rappresenta circa i due terzi della crescita del PIL mondiale, attrae gli investitori in cerca di rendimenti. In un rapporto pubblicato in agosto, la società internazionale di consulenza McKinsey ha osservato che la regione nel 2018 ha assorbito il 36% degli afflussi di capitale mondiale, contro solamente il 12% del 2007. E, secondo la società americana - preoccupata a causa di «segnali minacciosi» e del deterioramento del settore finanziario che annunciano una crisi - quasi la metà di questi flussi finanziari è costituita da «prestiti esteri altamente volatili». Un tale livello di indebitamento indebolisce le banche.
Secondo la società di consulenza Deloitte LLP, a settembre, la quantità di crediti in sofferenza detenuti dalle banche asiatiche ammontava a 640 miliardi di dollari, con un aumento del 23% rispetto al 2018. La metà di tali crediti sono di proprietà di istituzioni cinesi, cosa che spinge Pechino ad intervenire per ripianare i propri debiti. Nel mese di maggio, la Baoshang Bank, un istituto che ha sede nella Mongolia Interna (a Nord del paese) ed il cui proprietario era stato arrestato, nel 2017, per corruzione, è passato sotto la supervisione della Commissione per la Regolamentazione Bancaria ed Assicurativa. A fine luglio, la prima banca di Stato in Cina, la ICBC, ha messo in atto il salvataggio della Banca di Jinzhou, nel Liaoning (nel nord-est del paese), e nel mese di agosto, la Hengfeng Bank, nello Shandong (est), è stata a sua volta salvata per mezzo del fondo sovrano CIC. Quello che tutti questi istituti hanno in comune, sta nel fatto che sono tutti situati in provincie la cui economia si basa in gran parte sull'industria pesante, che è stata particolarmente toccata dalla crisi. Per poter sostenere queste attività economiche, la Cina si è lasciata scappare di mano il suo debito: secondo un rapporto pubblicato a luglio dall'IFF, nel primo trimestre, il suo debito totale è arrivato al 303% del suo PIL, contro il 297% di un anno prima. Una politica, questa, che è in contraddizione con l'obiettivo della riduzione del debito e della lotta contro la sovraccapacità industriale, oggetto del martellamento da parte delle autorità centrale a partire dal 2017. D'altra parte, Pechino aveva promesso, a febbraio, di chiudere, entro la fine del 2020, migliaia di «imprese zombi», vale a dire, quelle società che senza il sostegno pubblico e bancario non sono più sostenibili. Il problema però è che il fallimento di queste imprese è rischioso, dal momento che assai spesso esse fanno vivere delle intere città. Dopo la Cina, l'India è il paese più esposto ai crediti inesigibili (che dalla società di consulenza Deloitte vengono stimati in 160 miliardi di dollari), il che spiega l'annuncio da parte del governo di Narendra Modi di un piano di sostegno e ristrutturazione del settore bancario. In caso di crisi finanziaria, le banche indonesiane e indiane sono, secondo Moody's, le più vulnerabili. L'agenzia di rating statunitense afferma, in una nota pubblicata alla fine di settembre, che «l'elevato livello di indebitamento delle imprese nella regione Asia-Pacifico presenta dei rischi elevati per le banche». E la Banca Asiatica di Sviluppo teme una nuova crisi finanziaria. «In Asia, la regolamentazione del settore finanziario è stata migliorata, soprattutto attraverso il rafforzamento dei fondi di proprietà delle banche», scrive l'istituto nel suo rapporto. «Ma i responsabili politici non possono più rimanere passivi di fronte all'aumento del debito».

In Europa, orde di Piccole e Medie Imprese zombi
Sul Vecchio Continente, dopo la crisi, le imprese hanno accelerato la riduzione del loro indebitamento, cosa che è piuttosto rassicurante. In particolare nel sud della zona euro, dove le Piccole e Medie Imprese, aiutate dall'abbassamento dei tassi, hanno raddoppiato il loro sforzi per ripulire i loro conti. In tal modo, tra l'inizio del 2009 e l'inizio del 2019, in Spagna il debito delle imprese è crollato dal 129,4% al 93% del PIL, in Italia dall'80% al 69,5%, in Portogallo dal 125% all 99,8%, e perfino in Grecia dal 62,6% al 55,5%. In Germania, supera appena il 57% del PIL. A prima vista, il quadro è più delicato in Lussemburgo (307%), in Irlanda (191,2%) e nei Paesi Bassi (153,1%). Ma queste cifre riflettono soprattutto quello che è l'indebitamento delle multinazionali registrati in quei paesi, senza che la cosa abbia troppo legame con l'economia locale. «In media, a medio termine, la situazione europea non è preoccupante», rassicura Julien de Marcilly, economista capo della Coface. «Ma la cosa è a medio termine: se il quadro di un basso tasso si prolunga, le imprese cosiddette "zombi" rischiano di pesare sulla crescita».
Le aziende che si sono viste attribuite quest'etichetta così poco lusinghiera sono poco redditizie, e senza i tassi bassi che le mantengono artificialmente in vita non sopravvivrebbero. «Alcune banche, soprattutto se si trovano in difficoltà, preferiscono concedere loro nuovi crediti piuttosto che subire il loro default», spiega Patrick Artus, economista capo della Natixis, in una nota sull'argomento. «Ma all'improvviso queste risorse finanziarie non avvantaggiano più le nuove imprese, più dinamiche». A rischio di frenare l'emergere di start-up innovative che creano posti di lavoro e che sono fonte di crescita. Secondo le stime di Naxitis - che sintetizzano più studi -, oggi, in Spagna, tra il 10% e il 20% delle imprese possono essere considerate «zombi», il 15% in Portogallo, dal 6% all'11% in Italia, contro quello che è meno del 4% nel Regno Unito, in Francia e in Svezia. Se non cambia niente, a lungo termine potrebbero tagliare la crescita dei pase dell'OCSE di circa di 0,6 punti l'anno, prevede Artus.

In Francia, un preoccupante aumento del debito.
Si tratta di quel genere di eccezione francese della quale se ne farebbe a meno. Mentre, nel sud della zona euro, a partire dalla crisi, l'indebitamento delle imprese si è fortemente abbassato, in Francia, secondo le cifre fornite dall'IFF, dall'inizio del 2009, non ha mai smesso di crescere, passando dal 117,5% al 143,2% del PIL. Superiore alla media dell'Unione monetaria (105%), e quasi il triplo di quello che è il livello che può essere osservato presso i virtuosi vicini tedeschi (57,2%). E l'ascesa continua.
Secondo la Banque de France, tra l'agosto del 2018 e l'agosto del 2019, le imprese francesi hanno preso in prestito più di 106 miliardi di euro da parte di istituzioni bancarie e sul mercato, un importo mai raggiunto prima. La ragione? Le Piccole e Medie Imprese francesi, le quali avevano delle finanze più sane rispetto ai loro omologhi spagnoli o italiani prima della crisi, avevano sofferto meno durante quella che era stata l'ultima recessione, e continuano a beneficiare di condizioni di finanziamento assai favorevoli. Il costo medio dei finanziamenti è stato perciò dell'1,18% ad agosto, secondo la Banque de France, contro il 3,45% di dieci anni prima. Inoltre, a partire dal 2015, molti grandi gruppi francesi, come Total, LVMH o Kering, hanno notevolmente beneficiato del programma di riacquisto del debito pubblico e privato portato avanti dalla BCE (la Banca Centrale Europea). In media, prendono in prestito ad un tasso dello 0,46% sui mercati. Un livello storicamente basso. In uno studio sull'argomento, l'agenzia di rating S&P Global Ratings identifica quelle che sono due grandi tendenze. La prima è quella delle imprese pubbliche, che in questi ultimi anni hanno molto acceduto al prestito per poter modernizzare le loro infrastrutture. Il debito dell'EDF (Électricité de France) è perciò passato, tra il 2007 ed il 2017, da 28 a 63 miliardi di euro, e quello del SNCF Réseau [ferrovie francesi] da 28 a 55 miliardi di euro. La seconda tendenza è quella delle multinazionali del lusso, del consumo o dell'automobile, le quali raccolgono fondi per poter finanziare lo sviluppo delle loro attività e delle filiali all'estero. In tal modo, nello stesso periodo, il debito della Renault è passato da 30 a 50 miliardi di euro. E quello della Sanofi [gruppo farmaceutico francese], da 7 a 25 miliardi.
«Se si eccettua l'esposizione delle multinazionali a quelli che sono i capricci del commercio internazionale, in entrambi i casi, non c'è bisogno di finanziare delle operazioni particolarmente rischiose», rassicura S&P. Ciononostante: «il fatto che il debito delle imprese francesi aumenti più rapidamente della crescita, rimane preoccupante ed è una tendenza che va seguita da vicino», analizza Ana Boata. Ed è esattamente questo che fa l'Haut Conseil de stabilité financière(HCSF), l'organismo che sovrintende alla sorveglianza del sistema finanziario, per stimare che il rischio «rimanga sotto controllo», chiedendo la stessa cosa alle banche, in modo da costituire un materasso supplementare di capitale per le loro attività creditizie in Francia. Tutto questo, nella speranza di riuscire a frenare l'aumento dei prestiti, che preoccupa anche dal lato delle famiglie.

Arnaud Leparmentier, Marie Charrel, Julien Bouissou e Simon Leplâtre - Pubblicato su Le Monde del 17 ottobre 2019 -

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