mercoledì 9 ottobre 2019

Il sadismo di Kant

Da bambini ci viene insegnato che bisogna dire sempre la verità. Ma quando diventiamo adulti, se continuiamo a dire la verità sempre e in ogni caso, la nostra vita diventa un inferno. Nel 1796, Benjamin Constant scrive che il dovere morale di dire la verità, inteso incondizionatamente, rende impossibile ogni tipo di società. Risponde Kant con “Sul presunto diritto di mentire per amore dell’umanità” e sostiene che la menzogna resta un crimine anche se detta a un assassino che ci chiedesse se nascondiamo un amico da lui perseguitato. Ma il tema della veridicità assoluta, come documentano i testi raccolti qui, attraversa tutta l’opera di Kant, alla ricerca di quella trasparenza in cui vita e verità sfumano l’una nell’altra, senza zone d’ombra: il sogno della filosofia. Oppure il suo più terribile incubo?

(dal risvolto di copertina di: Immanuel Kant, "Bisogna sempre dire la verità?", a cura di Andrea Tagliapietra. Cortina Editore.)

Se Woody ha ragione e Kant no!
- di Maurizio Ferraris -

Umorista sottile, Woody Allen scade nel cattivo gusto quando attribuisce a Kant la dottrina sciocca e inumana secondo cui, poiché in nessun caso è legittimo mentire, se le SS avessero chiesto al padrone di casa di Anna Frank se la sventurata fosse nascosta in soffitta, il padrone di casa avrebbe dovuto consegnarla ai carnefici, e non per soldi, ma per un imperativo categorico. Il punto però è che Woody Allen dice la verità. È proprio questa (tolto il riferimento anacronistico ad Anna Frank) la tesi che Kant espone nel 1797 nella Metafisica dei costumi (dove d'altra parte troviamo anche una convinta giustificazione della pena di morte), e in un famoso saggio breve, "Di un preteso diritto di mentire per il bene dell'umanità", in risposta alle obiezioni mossegli da un Benjamin Constant all'epoca giovanissimo. Gli atti e le pezze d'appoggio della controversia sono raccolti nel volumetto "Bisogna sempre dire la verità?", a cura e con una lunga e dotta introduzione di Andrea Tagliapietra. Le obiezioni di Constant, che nel breve scritto "Sulle reazioni politiche" critica la tesi di Kant circa il carattere assoluto e imprescindibile della veridicità, sono prevedibili e di buon senso:la menzogna è necessaria per la convivenza sociale e la veridicità bisogna meritarsela (e le SS, nell'esempio di Woody Allen, non se la meritavano). Questo non fa notizia. Fa notizia invece la replica di Kant. Poniamo che un uomo si rifugi in casa mia e scappi dalla porta sul retro. Arriva la polizia e mi chiede se l'ho visto, e io mento per salvarlo. Che quell'uomo sia innocente oppure colpevole,ho sbagliato. Ho sbagliato in generale perché ogni essere umano è chiamato a dire la verità. E ho sbagliato in particolare perché i casi sono due: o il fuggiasco era innocente,ma in questo caso avrei contravvenuto alla veracità come dovere dell'umano, oppure era colpevole, e oltre a contravvenire alla legge generale mi sarei reso correo di ogni crimine che questi avrebbe potuto compiere a causa del mancato arresto.
Si avrebbe torto a pensare che si tratta di un lapsus: è un sistema. L'argomentazione di Kant è formalmente uguale a quella con cui, sempre nella Metafisica dei costumi, giustifica la legittimità della pena di morte. Kant ipotizza una rivolta nella quale parte degli insorti sia mossa da ideali e parte da interessi venali. Una volta repressa l'insurrezione,la pena di morte è la pena più giusta, perché gli insorti idealisti antepongono l'onore alla vita, sicché perdere la vita è per loro pena più lieve che marcire in galera, mentre gli insorti utilitaristi antepongono la vita all'onore, e dunque la pena di morte fa molto più male ai secondi che non ai primi. Il sistema non vale solo in teoria,ma anche in pratica, come suggerisce un aneddoto meno lusinghiero di quello che vedeva i cittadini di Königsberg regolare i loro orologi sulle passeggiate di Kant.
Questi si era comprato una casa a prezzo vantaggioso vicino alla prigione, ma, infastidito dai canti dei galeotti, che avrebbe potuto risparmiarsi andando ad abitare da qualche altra parte, impose a quegli sventurati di rinunciare all'unico aspetto decente della loro vita. Poche cose sembrano incontrovertibili quanto il sadismo di Kant, del resto lungamente argomentato dal punto divista clinico in un celebre saggio di Lacan. Ma il punto non è l'indole di Kant,bensì il fatto che, se ci riflettiamo un momento, con questo appello alla verità, alla giustizia e alla spietatezza — che in effetti è un appello al conformarsi alle leggi — contraddice il fondamento della propria dottrina morale. Come sappiamo, essere morali per Kant significa anzitutto essere autonomi e non eteronomi, cioè sottomettersi non a vincoli esterni (in quel caso non saremmo liberi, né, dunque, morali) bensì a vincoli che noi stessi ci siamo imposti, previa verifica che possano valere come principio di legislazione universale, ossia che non manifestino inclinazioni particolari.
Ma,a ben vedere,in tutti e tre i casi che ho elencato, in Kant non parla il difensore della autonomia della morale, bensì lo scrupoloso esecutore di una legge che viene da fuori.I poliziotti potrebbero essere delle SS,gli insorti dei patrioti, i galeotti dei partigiani, e malgrado questo bisogna dire la verità ai poliziotti (da questo punto di vista, c'è di buono che l'osservanza dell'ordine kantiano renderebbe superflua la tortura), giustificare la pena di morte e zittire i galeotti. In barba non solo al buon senso, ma ai suoi stessi principi, Kant sottomette l'autonomia morale all'eteronomia di un potere esterno e non sembra porsi il problema della legittimità di quel potere. Morale (è il caso di dirlo): Woody Allen e Benjamin Constant hanno ragione, e se proprio si deve mettere a repentaglio una vita in nome della verità, sarebbe meglio che fosse la nostra.

- Maurizio Ferraris - Pubblicato su Robinson il 5 ottobre 2019 -

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