mercoledì 18 dicembre 2019

Quinto Stato?

Diritti approssimativi, salari bassi, contratti a termine: è la società del Quinto Stato. Il precario non condivide il lavoro di fabbrica, non vive negli stessi quartieri, non frequenta le sezioni locali dei sindacati e dei partiti. È parte di un insieme eterogeneo, fluido, disperso, difficile da organizzare e mobilitare, trascurato dalla politica. A connettere i precari ci sono solo i canali ‘freddi’ di internet e dei social media.Quali misure potranno essere adottate per proteggere questo gruppo sempre più esteso?
Ai primi del Novecento il Quarto Stato viene descritto come classe oppressa ma autoconsapevole e compatta, portatrice di interessi universali di emancipazione: operai, contadini e braccianti chiedevano che venisse loro riconosciuto un potere politico (tramite diritti) che fosse in linea con la loro rilevanza economica e sociale.Gli ‘oppressi’ oggi esistono ancora, ma sono meno visibili di un secolo fa e sicuramente molto meno organizzati. Sono le persone economicamente vulnerabili, con un lavoro instabile, che non godono di prestazioni sociali sufficienti. Sono loro, i lavoratori sottopagati e/o precari, che compongono il ‘Quinto Stato’, un insieme variegato e fluido la cui domanda di tutela e protezione è ormai ineludibile.Una risposta possibile a tali richieste è la strategia dell’investimento sociale, magari sorretto da un reddito di base universale e incondizionato, capace di fornire sicurezze e protezioni calibrate sulle nuove modalità di lavoro. L’altra risposta è più ambiziosa (l’autore la definisce ‘riformismo 2.0’): mettere a frutto i processi di globalizzazione e la rivoluzione digitale al fine di realizzare un nuovo modello di società.

(dal risvolto di copertina di: Maurizio Ferrera, "La società del Quinto Stato", Laterza.)

Dopo il Quarto Stato c'è il precariato
- di Valerio Castronovo -

Dagli ultimi decenni del secolo scorso le società più avanzate del Primo Mondo, e oggi anche quelle più dinamiche del cosiddetto Terzo Mondo (a cominciare dalla Cina e dall'India) stanno vivendo una fase intensa di trasformazioni sotto ogni profilo. E ciò per via di un mutamento di paradigmi e procedimenti tecnologici sempre più rapido e incisivo nella nuova era della Rete e della globalizzazione.
Sono così venute incrinandosi in Occidente determinate strutture economiche e forme di occupazione, norme e relazioni sociali, concezioni culturali e consuetudini di vita che, per un aspetto o per l'altro, avevano a che fare con la centralità dell'industria manifatturiera, quale motore ed emblema, dal secondo dopoguerra, di un binomio fra economia di mercato e democrazia, opportunità di ascesa sociale e Stato di diritto, all'insegna di un neo-capitalismo legittimato dagli sviluppi del Welfare di matrice keynesiana. Ciò che aveva contribuito ad assicurare, alla fine degli anni Ottanta, il successo di un sistema caratterizzato perciò da un "cerchio virtuoso" (per dirla con Ralph Darhendorf) rispetto al modello alternativo costruito dall'Unione Sovietica e declinato sia pur con alcune varianti dalla Cina maoista e dal altri regimi comunisti.
Senonché, questa sorta di universo sia politico ed economico, sia sociale e culturale, che per tanti anni aveva continuato a far aggio e testo, ha conosciuto man mano negli ultimi tempi i contraccolpi di un processo di profondi cambiamenti di cui esso è stato promotore e protagonista al suo interno per poi suscitare una trafila di ripercussioni all'esterno tali da investire il suo stesso perimetro e contesto.
Da un'ampia diagnosi di quanto è così avvenuto, in seguito a quella che Maurizio Ferrara definisce la «Grande trasformazione 2.0», prende il via l'analisi svolta dal politologo milanese, che si raccomanda per l'ampiezza di visuali e la chiarezza di giudizi, dedicata alle cause e alle connotazioni di un fenomeno come il precariato. Egli non lo considera come qualcosa di residuale, una specie di interstizio, riassorbibile senza particolari difficoltà nell'ambito dell'assetto ereditato dal passato, bensì come una delle espressioni per eccellenza dei radicali cambiamenti di scenario e di prospettiva susseguitisi con la transizione post-industriale e il peso crescente assunto dai servizi, in quanto hanno determinato congiuntamente, insieme all'obsolescenza o al declino di determinate risorse e competenze, un depauperamento generalizzato di possibilità e carriere di lavoro, di specifici progetti e percorsi, di margini di libertà e d'iniziativa individuali.
Di qui la formazione di un nuovo strato sociale, ben diverso da quello che un tempo era il «Quarto Stato», ossia un proletariato che, pur situato ai gradini più bassi della società, aveva una propria fisionomia omogenea e poteva avvalersi tanto di certi strumenti man mano più robusti e inclusivi di rappresentanza ed emancipazione sociale (dai sindacati alle cooperative, ai partiti di sinistra) che del supporto di un complesso di principi e assunti ideologici, per lo più d'ispirazione marxista, per agire e orientarsi. Oggi quello emerso alla ribalta, che viene definito col nome di «Quinto Stato», è composto invece da una numerosa ed eterogenea schiera di lavoratori senza un collante comune e pervasivo, e quindi fluida e indistinta, priva di riferimenti e di chance tali da tradurre la sua pur massiccia consistenza in una vigorosa forza d'urto politica e sociale.
Tuttavia quella dei «precari» potrebbe dar luogo, secondo il sociologo inglese neomarxista Guy Standing (autore di un libro di larga risonanza, uscito nel 2011) a una nuova «classe esplosiva», portata, per le sue avvilenti condizioni di indigenza e di emarginazione sociale, a dar battaglia conto il "sistema", ovvero contro le élite e la globalizzazione, il neoliberismo e la finanziarizzazione del capitalismo mondiale, anche in virtù delle connessioni fra le due diverse componenti rese possibili dai media e dai network. Ma, come Ferrera osserva giustamente, questo genere di «risveglio sociale» non ha prodotto finora «solo mobilitazioni emancipative» ma anche «regressive di stampo xenofobo o neofascista».
Ad ogni modo, non si può certo sottovalutare, e tantomeno esorcizzare, una questione cruciale come quella del proletariato, che concerne soprattutto le giovani generazioni e concorre ad accentuare i motivi di instabilità e di conflittualità che minacciano il nostro futuro. È dunque pienamente condivisibile l'augurio dell'autore che sia innanzitutto l'Europa ad impegnarsi nella ricerca di soluzioni altrettanto eque ed efficaci per impedire una pericolosa deriva dovuta all'approfondimento delle disuguaglianza e delle ingiustizie intergenerazionali. Per ora, tuttavia, il nodo dirimente a questo riguardo consiste nelle persistenti remore politiche e culturali che allignano, nell'ambito dell'Unione europea, ed affrontare una sfida ancorché ineludibile.

- Valerio Castronovo - Pubblicato sul Sole del 1° dicembre 2019 -

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