domenica 15 dicembre 2019

L’origine della mente

Il crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza
di Julian Jaynes

Introduzione. Il problema della coscienza
Mondo di visioni non vedute e di silenzi uditi è questa regione inconsistente della mente! E ineffabili essenze questi ricordi impalpabili, queste fantasticherie che nessuno può mostrare! E quanto privati, quanto intimi! Un teatro segreto fatto di monologhi senza parole e di consigli prevenienti, dimora invisibile di tutti gli umori, le meditazioni e i misteri, luogo infinito di delusioni e di scoperte. Un intero regno su cui ciascuno di noi regna solitario e recluso, contestando ciò che vuole, comandando ciò che può. Eremo occulto dove possiamo studiare fino in fondo il libro tormentato di ciò che abbiamo fatto e ancora possiamo fare. Un intro-cosmo che è più me di ciò che io posso trovare in uno specchio. Questa coscienza, che è il mio me stesso più segreto, che è ogni cosa eppure non è nulla di nulla, che cos'è?
E da dove venne?
E perché?
Poche domande sono persistite più a lungo o hanno avuto una storia più complessa di questa, del problema della coscienza e del suo posto in natura. Nonostante secoli di riflessioni e di esperimenti, di tentativi di conciliare due presunte entità chiamate mente e materia in un'epoca, soggetto e oggetto in un'altra, anima e corpo in altre ancora, nonostante le infinite disquisizioni sui flussi, gli stati o i contenuti della coscienza, gli sforzi per distinguere termini come intuizioni, dati sensoriali, il dato, le sensazioni brute, il sentito, presentazioni e rappresentazioni, le sensazioni, immagini e affezioni delle introspezioni strutturalistiche, i dati empirici del positivista scientifico, i campi fenomenologici, le immagini di Hobbes, i fenomeni di Kant, le apparenze dell'idealista, gli elementi di Mach, i phanerà di Peirce o gli errori categoriali di Ryle, nonostante tutto questo, il problema della coscienza ancora persiste. Qualcosa in esso si ripresenta di continuo, resistendo a qualsiasi soluzione.
Quel che perdura è la differenza, la differenza fra ciò che gli altri vedono di noi e il senso che abbiamo del nostro sé interiore e dei sentimenti profondi che lo sostengono. La differenza fra il tu-e-io del mondo comportamentale condiviso e l'ubicazione non localizzabile delle cose pensate. Le nostre riflessioni e i nostri sogni, e le conversazioni immaginarie che abbiamo con gli altri, nelle quali, mai accessibili ad alcuno, noi scusiamo, difendiamo, proclamiamo le nostre speranze e i nostri rimpianti, i nostri futuri e i nostri passati, tutto questo fìtto tessuto della fantasia è assolutamente diverso dalla realtà che si può manipolare, mettere qui o là, prendere a calci, la realtà con i suoi alberi, erbe, tavoli, oceani, mani, stelle, persino cervelli! Com'è possibile tutto ciò? Come possono, queste esistenze effimere della nostra esperienza solitaria, integrarsi nella disposizione ordinata della natura che in qualche modo circonda e sommerge questo nucleo di conoscenza?
Gli uomini sono stati coscienti del problema della coscienza quasi sin da quando la coscienza ebbe origine, e ogni epoca ha descritto la coscienza in funzione del proprio tema e dei propri interessi. Nell'età aurea della Grecia, quando gli uomini se ne andavano in giro liberamente mentre il lavoro veniva svolto dagli schiavi, la coscienza era altrettanto libera. Eraclito, in particolare, la definì uno spazio immenso, di cui non si potrebbero mai trovare i confini anche percorrendo fino in fondo ogni via. Un millennio dopo, Agostino, fra le colline disseminate di caverne di Cartagine, si stupiva all'idea dei «monti e [dei] colli dei miei pensieri», delle «distese e [degli] ampi ricettacoli della memoria, dove si trovano i tesori di immagini senza numero accumulati da ogni genere di cose percepite». Si noti come le metafore della mente siano il mondo che essa percepisce.
La prima metà dell'Ottocento fu il periodo delle grandi scoperte geologiche nel quale le testimonianze del passato apparvero scritte negli strati della crosta terrestre. Questo portò alla divulgazione dell'idea che la coscienza fosse come una serie di strati che si spingono sempre più in profondità finché i documenti in essi contenuti diventano illeggibili. L'interesse per l'inconscio così suscitato andò crescendo finché, verso il 1875, molti psicologi erano convinti che la coscienza non fosse se non una piccola parte della vita mentale, e che le sensazioni inconsce, le idee inconsce e i giudizi inconsci costituissero la parte maggiore dei processi mentali.
Alla metà dell'Ottocento alla geologia successe come scienza alla moda la chimica, e da James Mill a Wundt e ai suoi allievi, fra cui Titchener, la coscienza fu la struttura composta che poteva essere esaminata in laboratorio analizzandola in elementi precisi di sensazioni e sentimenti.
E quando, verso la fine dell'Ottocento, le locomotive a vapore entrarono sbuffando nella vita quotidiana, anch'esse si fecero strada nella coscienza della coscienza: l'inconscio divenne allora una caldaia di energia compressa che reclamava sbocchi manifesti e che, se impedita, erompeva in un comportamento nevrotico e in falsi appagamenti convulsi di sogni che non conducevano in nessun luogo.
A proposito di queste metafore non possiamo far altro che affermare che la loro natura è appunto quella di semplici metafore.
In origine questa ricerca della natura della coscienza era nota come il problema mente-corpo o anima-corpo, un problema su cui gravavano ponderose soluzioni filosofiche. Dopo il successo della teoria dell'evoluzione, però, esso si è essenzializzato in un interrogativo più scientifico, quello dell'origine della mente o, più specificamente, dell'origine della coscienza nell'evoluzione. Dove e come nel corso dell'evoluzione potè svilupparsi questo mirabile arazzo dell'esperienza interiore, quest'esperienza soggettiva che possiamo osservare con l'introspezione, che si accompagna costantemente a moltitudini di associazioni, speranze, timori, sentimenti, conoscenze, colori, odori, mal di denti, emozioni, pruriti, piaceri, afflizioni e desideri? Com'è possibile che questa interiorità sia derivata dalla mera materia? E se lo è, quando avvenne?

- Julian Jaynes - (27 febbraio 1920 – 21 novembre 1997) -

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