Le ultime battaglie
- Il maggio parigino del 1968, il dicembre parigino del 1995 ed il recente accordo tedesco sul lavoro -
di Robert Kurz
La versione tedesca della paralisi sociale: l'accordo lavorista
Diversamente da quanto avviene in territorio francese, in Germania i sindacati non possono più essere criticati nei termini di movimento sociale, dal momento che hanno perso da molto tempo un simile carattere. Il peccato capitale del patriottismo sociale del vecchio movimento operaio in Occidente, nella realtà, in occasione della Grande Guerra si era generalizzato. E tale definizione, ovviamente, può essere presa solo oggi in maniera ironica, poiché la capitolazione davanti alla guerra non derivò da un "tradimento" soggettivo; allora, per la prima volta venne posto sotto la luce della storia il carattere immanentemente borghese, e regolato dalla merce, della "lotta di classe". Ma all'interno di quella ristretta costellazione, che non più essere interpretata come una critica sensata del sistema, i sindacati hanno preservato nei paesi dell'Europa occidentale una mobilitazione sociale in cui la critica del sistema, basata sul vecchio socialismo, poi sempre più scolorita, ha scintillato sempre più raramente (e per l'ultima volta nel maggio parigino) come uno scomodo promemoria. In Germania, invece, i sindacati, con la capitolazione - non solo pacifica, ma anche insinuante in maniera imbarazzante - nei confronti del nazional-socialismo, erano stati, in senso stretto, storicamente annullati, in quanto movimento sociale.
Questo, dopo il 1945, fondamentalmente non cambiò. Alcuni sindacalisti, che tornavano dall'esilio e dai campi di concentramento, cercarono di portare avanti il vecchio carattere di mobilitazione dei sindacati, la tradizione delle lotte sociali e l'obiettivo di una trasformazione sociale. Però, la maggioranza dei piccoli gruppi, che era passata dall'esperienza del fronte del lavoro del nazional-socialismo, non sapeva più che farsene di quella tradizione. I conflitti sociali in Germania Occidentale non sono mai stati altro che una lotta innocua contro la propria ombra. In questo senso, la Germania Occidentale fu fin dall'inizio più "moderna" dell'Europa Occidentale - una modernità progressiva di integrazione attraverso la merce e attraverso lo Stato sociale, ereditato dal nazional-socialismo (da cui traeva il suo carattere distruttivo ed essenzialmente barbaro). Mentre in Francia, in Italia, in Spagna ed anche in Inghilterra persisteva il vecchio ambiente sociale delle classi capitalistiche e continuavano gli scontri nella retroguardia della vecchia lotta di classe, in Germania, il grado di individualizzazione astratta aveva già raggiunto il livello nordamericano (pur con enfasi diversa), e questo proprio in seguito alla breve, ma profondamente incisiva, era nazional-socialista. Sebbene i sindacati in Germania Occidentale non avessero tagliato in maniera brusca le relazioni con l'ambito sociale del vecchio movimento operaio, rimanevano soltanto come un ornamento formale che, nella coscienza delle masse, non significava niente più di un'assicurazione o di un fondo pensione.
Il fatto che tale situazione fosse stata spacciata come "paternariato sociale" di successo, e perfino come "modello tedesco", aveva le sue ragioni unicamente ed esclusivamente nell'ascesa della Germania Occidentale (insieme al Giappone) alla dignità di grande vincitrice del mercato mondiale e del campionato di esportazioni. Solamente per mezzo di enormi guadagni sui mercati mondiali, a partire dal "miracolo economico", fu possibile far sì che i sindacati occidentali, già in stato di rigidità cadaverica come movimento sociale, funzionassero con successo, e quasi senza attriti, come istanza socio-politica e macchina regolatrice dei salari. Anche un cieco vedeva che tali successi poggiavano, non sulla forza sociale di lotta, ma semplicemente sui privilegi nazionali di un'economia trionfante e che, quindi, non potevano essere universalizzati e neppure servire da "modello". Ancora maggiore diventò l'impotenza dei sindacati quando, a partire dal decennio del 1980, la disoccupazione strutturale di massa assunse, ciclo dopo ciclo, proporzioni sempre più grandi, e le gratifiche sociali vennero dilapidate una dopo l'altra. Oggi, le macchine della demolizione sono già schierate davanti alle rovine di quello che una volta era l'imponente Stato sociale tedesco, ed il sindacato, come istanza sociale, si scioglie come un pupazzo di neve al sole.
Nella crisi cronica e strutturale del sistema capitalista, è solamente logico che l'individualizzazione socio-economica, da tempo compiutasi in Germania Occidentale, si diffonda anche sulla superficie istituzionale. Ecco perché i sindacati tedeschi sono incapaci perfino di quell'anemico epilogo dell'ultima battaglia dei perdenti che abbiamo visto in Francia (e che vedremo forse con frequenza ancora maggiore, in diversi casi, in tutta l'Europa Occidentale). Sebbene la costellazione sociale nell'incorporata Germania Orientale fosse diversa, e lì paradossalmente permanga, sotto la crosta burocratica, l'ambito di un contesto sociale come una sorta di subcultura, una tale divergenza, fino ad oggi, non si è sedimentata in forma sociale o istituzionale; al contrario, i tedeschi orientali sembrano aver fretta di recuperare, a spron battuto, l'individualizzazione astratta dei loro vicini occidentali ed adattarsi al capitalismo di questo paese a forza di mortificazioni (il fatto che si versino lacrime sentimentali per il calore del focolare perduto non cambia niente nel processo di adattamento di questi cinque anni).
Sarebbe un errore - secondo i vecchi modelli della sinistra radicale - dare la responsabilità, soprattutto, alla direzione dei sindacati, per non aver nemmeno immaginato uno schema di reazione. In Germania, l'apparato, con ogni probabilità, non avrebbe appoggiato un movimento militante della base sindacale, per poi soffocarlo - in maniera ancora più inequivocabile e brutale che nel maggio francese del 68. Ma, d'altra parte, l'apparato non poteva ovviamente essere più combattivo ed attivista di quanto lo fosse la sua base di affiliati. chi ha combattuto per decenni solo contro la propria ombra, non è in grado di salire d'un tratto seriamente sul ring. I primi colpi non sono partiti dagli avversari istituzionali, ma dalla maggioranza stessa dei membri, che in Germania non è mai stata coinvolta in un disperato atto di forza come quello del maggio parigino. Nel mezzo della crisi, la parola d'ordine in Germania è più chiara che nelle altre parti del mondo (ad eccezione forse degli Stati Uniti): "Ciascuno per sé e Dio contro tutti".
Tuttavia, il resto delle istituzioni sindacali tedesche si vide costretto, nell'interesse della sua stessa ragion d'essere, a tentare qualcosa come una "politica di crisi". Com'è naturale, questa assunse un aspetto ancora più sordido che in Francia. Leader sindacali come Walter Riester, vice presidente del sindacato dei metallurgici, hanno compiuto già da tempo una mutazione ideologica che anche oggi sarebbe impensabile in Francia: "Mi vedo sempre più costretto a pensare in maniera imprenditoriale - anche e soprattutto nell'interesse dei lavoratori, dice l'esperto in salari [...] a proposito della crescente esigenza per cui la sua organizzazione, in un'epoca di disoccupazione, prende decisioni spesso sgradite agli affiliati" (Nürnberger Nachrichten, 27/12/95). La logica, a prima vista abbastanza confusa, del "nell'interesse" dei lavoratori lo vuole! e "decisioni sgradite" agli affiliati, può solo avere come obiettivo (se astraiamo la penetrante parte paternalista) di radicalizzare la "politica di adattamento" all'economia di mercato, dentro i sindacati. Non si deve reagire alla crisi con una riformulazione della critica sociale ma, al contrario, con la recrudescenza dell'accettazione masochista. E' esattamente questo che Richter & Co. intendono, in ultima analisi, per "modernizzazione", in maniera abbastanza analoga ai cosiddetti modernizzatori del SPD riuniti intorno a Schröder, governatore della Bassa Sassonia, o a Clement, segretario delle Finanze della Renania e del Nord-Westfalia.
Questa linea sindacale è stata in grado di ottenere una vittoria fragorosa nell'autunno del 1995, in occasione del congresso sindacale che ha riunito i maggiori sindacati di tutto il mondo, quando Klaus Zwickel, presidente del Sindacato dei Metallurgici, ha sorpreso i delegati con un progetto di accordo lavorista concepito in assenza di discussioni e dibattiti. In tal modo, non solo si fornisce ai "modernizzatori" e alle élite istituzionali o al governo conservatore e neoliberista della Federazione una palpabile fior di retorica per la propaganda dell'immobilità del sindacato, ma si consuma anche un drammatica virata della politica sindacale vista come un tutto, che si è già vista in tempo di contesti di crisi.
Il punto decisivo è l'abbandono furtivo ed il seppellimento della politica di riduzione dell'orario di lavoro. Nessuno vuole riconoscerlo ufficialmente, ma il fatto è questo. Il recente accordo nell'industria metallurgica, con la possibilità di ridurre l'orario di lavoro settimanale (a seconda dei casi) a 30 ore (senza riduzione salariale), non cambia la situazione. Lo stesso vale per il cosiddetto orario parziale secondo l'età, destinato a sostenere solamente la lenta estinzione del modello del prepensionamento, che è diventato "insostenibile", e che, perciò, non fa più parte di una strategia comune di riduzione dell'orario di lavoro. La fine di questa strategia era prevista da tempo. Quando il sindacato del metallurgici e dei tipografi (oggi, "dei mezzi di comunicazione) alzarono, alla fine degli anni 1970, la bandiera della riduzione dell'orario di lavoro con la conservazione integrale dei salari, contro la nascente disoccupazione di massa, lo fecero anche per avere una macchina che regolasse i salari, il cui combustibile era fornito dai guadagni che la Germania Occidentale faceva sul mercato mondiale. Negli anni 1980, la transizione verso l'orario di lavoro di 35 ore settimanali, a parità di salario, non avvenne attraverso una mera comunione fra capitale e lavoro ma avvenne, in parte, a pese dei perdenti del mercato globale ed in parte col supporto del boom (alimentato dai deficit) delle esportazioni negli Stati Uniti nel corso dell'epoca d'oro della "Reaganomics". Anche in questo periodo, la disoccupazione di massa non venne contenuta, ma crebbe ciclo dopo ciclo.
Quando la posizione della Germania Occidentale nel mercato mondiale cominciò a sgretolarsi, e la pressione sociale esercitata dalla disoccupazione virulenta impose restrizioni sempre maggiori nel campo dell'azione istituzionale dei sindacati, ebbe inizio, negli anni 1990, una discussione abbastanza vaga intorno alla riduzione dell'orario di lavoro, seppure senza compensazione salariale (o solo parziale). Ci furono anche alcuni tentativi esemplari, come quello della Volkswagen (o del settore dell'acciaio, oggi marginalizzato). Ma questa strategia aveva una prospettiva compromessa con la transizione verso forme autonome di riproduzione al di là del mercato e dello Stato, ossia, considerava se il "tempo disponibile" addizionale poteva essere sfruttato non come vago "tempo libero", ma come tempo per attività autonome, esterne alla relazione denaro-merce. A tale duplice strategia, mancava non solo un progetto, ma anche la volontà di riflettere sull'assunto. All'interno di una riproduzione completa dell'economia di mercato, tuttavia, il modello di riduzione dell'orario lavorativo, senza compensazione salariale non aveva alcun senso economico o sociale. Quanto alla crisi, tale modello produce effetti prociclici di diminuzione del potere d'acquisto interno. Dal momento che un programma critico di trasformazione sociale potrebbe venire dinamicizzata da una cosa del genere, la coscienza aggrappata al lavoro salariato totale può sperimentare il medesimo effetto prociclico solo in forma negativa, come aggravio della crisi. Per le masse, che si basano tanto sulla rendita monetaria del lavoro salariato quanto sul consumo di massa delle merci, e dipendono dall'iniezione di crediti ai fini del consumo e dell'acquisto della casa, questo modello non è accettabile o lo è solo in parte. Solamente quelli che possiedono due fonti di reddito possono trovarci qualcosa di attrattivo, in generale, in un aggravio della situazione delle donne, che a forza di part-time in un contesto determinato dalla pura economia di mercato, si vedono ancora più ridotte a "figli, fornelli e fede". Gli operai della Volkswagen, a loro volta, hanno ampiamente utilizzato nel commercio illegale il loro tempo conquistato, il che ha suscitato le lamentele delle camere di commercio nella regione del Wolfsburg. In completa assenza di alternativa al sistema e di attaccamento totale al mercato ed al lavoro salariato, l'idea di una riduzione dell'orario di lavoro senza compensazione salariale rimane poco più che una sepoltura silenziosa. Ciò indica che questo non sarebbe un progetto sociopolitico, ma solo un riduzione del consueto carico di lavoro in condizioni lavorative pessime.
E' significativo che l'Accordo Lavorista, nel suo proposito di sostituirsi alla riduzione dell'orario lavorativo come prospettiva sociopolitica, comportasse, oltre la promessa di moderazione nei futuri negoziati salariali, soprattutto l'accettazione di "salari d'ingresso" al di sotto del minimo per le persone si trovavano disoccupate da molto tempo, e la riduzione dei benefici sociali. Questo rappresenta sotto molti aspetti come la rottura di una diga. Per i disoccupati equivale ad un insolente impertinenza: salario parziale in contropartita alla giornata di lavoro a tempo pieno. Invece di maggior tempo disponibile, che almeno potenzialmente potrebbe essere utilizzato per alternative economiche, sociali e culturali al lavoro salariato, e per svolgere una critica dell'economia di mercato, "l'ingresso" nell'apartheid sociale e nella schiavizzazione economica dei bassi salari, al fine di "ottenere la licenza" di svolgere un superlavoro per obiettivi imbecilli o che sono una minaccia per la comunità. Nessuna meraviglia che l'impresa economica neoliberista abbia elogiato questo "passo avanti" quando l'Accordo Lavorista ha ricevuto la benedizione del cancelliere Kohl:
"Non ci si può aspettare dai sindacati che siano alla testa del movimento per salari d'ingresso più bassi e per la riduzione dei benefici sociali o per addizionali ore extra di lavoro. Con il loro "sì" firmato nel documento di Accordo, si mostrano disposti ad accettare tali interventi senza scioperi, dimostrazioni di massa o le solite proteste. Solo per questo, il parere del cancelliere ha dati un valido contributo alla pace sociale in questo paese" (Handelsblatt, 25/01/96).
Le critiche provenienti dalle proprie fila e dai sindacati minori devono chiaramente essere soffocate secondo il famigerato stile amministrativo; nella loro rigida struttura burocratica, con funzionari di alto grado investiti di cariche per ordini dall'alto, i sindacati non conoscono un processo veramente aperto per formare le opinioni. La cupola sindacale dei metallurgici, che circonda Zwickel e Riester, conta in tal senso sul poderoso appoggio dell'ormai tradizionale Sindacato "di destra" dei chimici, il primo ad essersi convertito in un cartello sociale di lavoratori d'élite orientati verso il mercato globale:
"Il presidente del Sindacato dei Chimici, Hubertus Schmoldt, ha avvertito del pericolo di rovinare, a forza di discussioni interne, la proposta di accordo lavorista del Sindacato dei Metallurgici. In un'intervista ad Handelsblatt, ha rivolto dure critiche alle dichiarazioni scettiche dei circoli sindacali negli ultimi giorni [...] Secondo Schmoldt, ora non sarebbe il tempo della prudenza, in cui non si è disposti a mettere in discussione i punti di vista tradizionali dei sindacati, come, per esempio, quello per cui la riduzione salariale non genera posti di lavoro [!] [...] Tutti coloro che, nel fronte della discussione, alzano ostacoli che dopo non possono essere rimossi senza perdita di autorità, rischiano di riprodurre in Germania gli episodi francesi [!] [...] Schmoldt considera del tutto incomprensibile il rifiuto, da parte del Sindacato dei Bancari, di salari sotto il minimo. Anche se un accordo del genere non ha causato una ristrutturazione di facciata nel settore chimico, uno strumento simile è già stato utilizzato, come afferma Schmoldt, che si dice felice per ogni disoccupato che può così [!] essere integrato nel mercato del lavoro" (Handelsblatt, 22/12/95).
Quello che c'è veramente dietro l'Accordo Lavorista di Zwickel viene qui messo allo scoperto, ossia, niente di meno che una virata sindacale francamente assurdo verso il neoliberismo di mercato. Sotto il punto di vista politico-economico, si tratta di una virata del keynesismo verso il monetarismo, della politica della domanda (deficit spending, rafforzamento del potere di acquisto delle masse) verso la politica dell'offerta (riduzione dei costi, incentivo alle esportazioni a detrimento del potere di acquisto interno). Questo è lo stadio finale dell'eliminazione radicale di qualsiasi atteggiamento critico verso il sistema: se il vecchio movimento operaio ostentava ancora sia idee colorate dal socialismo di Stato sia trascendenza utopica, dopo la II guerra mondiale tale postura , nei paesi dell'Occidente, si era già ridotta al keynesismo, che rappresentava, per così dire, una versione "debole" dell'interventismo sociale di Stato compatibile con il capitalismo occidentale. Inoltre, nella socialdemocrazia e nei sindacati (in Germania,in maniera più inequivocabile e completa che nel resto del mondo) c'è stata la svolta "politico-scientifica" di una teoria basata su Marx verso un basso positivismo alla Popper. Ora, gli alpinisti appesi alla stessa corda di Zwickel, insieme ai "modernizzatori" del SPD, stanno per liberarsi del keynesismo e compiere così il passo finale verso l'accettazione totale dell'economia di mercato pura.
Il significato di tutto questo diventa esplicito a fronte della controversia in Francia. L'iniziativa di Zwickel è vicina alla posizione di Touraine, con la differenza che non si tratta di una mera dichiarazione pubblicista di intellettuali, ma di una svolta istituzionale. La posizione di Bourdieu, al contrario, può essere intesa come fedeltà al keynesismo. Lo stesso vale per l'invocazione del contesto economico nazionale, poiché già Keynes aveva piena coscienza del fatto che la sua teoria di regolazione ed intervento statale era possibile soltanto in un contesto economico ristretto alle nazioni, ragione per cui arrivò a mettere in guardia contro un'espansione violenta del mercato mondiale. Keynesismo, economia nazionale e nazionalismo sociale, compongono un tutto logico. Non c'è dubbio anche che l'implicito keynesismo nazionalista della corrente di Bourdieaunon costituisce già più un keynesismo riformista "per tutti", ma solamente un keynesismo in difesa dello status quo e della limitazione dei danni sociali per la nazione, il quale non dispone più di una prospettiva di cambiamento e non può più integrare quelli che sono già esclusi.
La transizione dei sindacati verso un politica neoliberista dell'offerta significa, tuttavia, molto più che la mera accettazione ideologica dell'economia di mercato: racchiude l'accettazione per cui ogni riproduzione sociale incapace di dimostrarsi "regolare ed economicamente redditizia nelle nuove condizioni di globalizzazione deve semplicemente sparire. Anche se l'espressione "accordo lavorista" possiede, soprattutto in Germania, forti echi nazionalisti (evoca quasi inevitabilmente il "fronte del lavoro" e la "comunità popolare" nazional-socialisti, nello stesso modo, altresì, in cui l'appello francese di Touraine ha basi nazionaliste), l'abbandono del keynesismo e della politica della domanda, in essa contenuto, annuncia implicitamente la fine della base commerciale del nazionalismo sociale contemporaneo.
Il nuovo nazionalismo sociale, su base monetarista e rivolto alla politica dell'offerta, non è più, sotto il segno della globalizzazione capitalista, un vero nazionalismo, ma un nazionalismo di seconda classe. Non solo i paesi perdenti "esterni", ma anche le masse di perdenti sociali "interni", devono abbassati al livello di una realtà salariale miserabile nell'economia di mercato. La svolta verso un'ideologia di esportazione e di riduzione dei costi equivale al desiderio di mettere in marcia un vagone di prima classe, riservato alla minoranza degli occupati d'élite, capaci di concorrenza globale nella pura economia di mercato, e attaccati dietro, vagoni carichi di lavoratori forzati e salari di fame per i perdenti. Con insolenza neoliberista, gli adepti di Zwickel sono pronti a rifilare una simile terrificante prospettiva come "garanzia del posto di lavoro" ed "integrazione dei disoccupati nel mercato del lavoro", mentre la semplice menzione delle lotte sociali, anche nel limitato senso keynesiano, viene denunciata come presunto fantasma degli "episodi francesi".
Quello che poi rimane per i rifiuti sociali del materiale umano non più utilizzabile dal capitalismo, ci viene raccontato, con discreto charme, dal tecnico sociale ultramoderno, da Klaus Lang, consulente personale di Zwickel,che si esercita in contorsioni socio-diplomatiche sull'accordo lavorista:
"... la programmata riduzione di base del calcolo dell'indennità di disoccupazione individuale è diminuita dal 5% al 3%. Il progetto del governo, che prevedeva una riduzione del 5%, era stato deciso molto tempo prima dell'iniziativa dell'Accordo. Senza tale iniziativa, da dove sarebbe partita la pressione pubblica perché la colazione retrocedesse nel suo proposito? [!] Se non è un successo inebriante, è già, però, un piccolo passo" (Frankfurter Rundschau, 14/02/96).
Una simile parodia della capacità di lotta sindacale, che adotta come misura del "successo" il grado di diminuzione dei benefici per i più poveri, è qualcosa di fuori del comune perfino nella storia sociale tedesca. I disoccupati finiranno per rendersi conto che le associazioni caritatevoli li appoggiano più di quanto fanno i sindacati.
Che "l'integrazione nel mercato del lavoro" (non importa a che prezzo) si trasfiguri in un obiettivo supremo, come se le persone fossero incapaci di desiderare qualcosa di meglio, è ovviamente una speculazione sulla coscienza delle masse, che si trovano oggi in una situazione di miseria. Sicuramente, è anche una reazione all'effettiva obsolescenza del keynesismo, in quanto la politica del deficit spending di fatto ha fallito, e le sue gratifiche non sono mai andate oltre un bonus nazionalista di pochi paesi della metropoli capitalista. In tal senso, una posizione come quella di Bourdieu è insostenibile anche perché si volge "contro la distruzione di una civiltà", ma guarda solamente alla civiltà keynesiana del "capitalismo sociale" de dopoguerra. Una tale civiltà keynesiana dello Stato del benessere sociale e del "servizio pubblico" arriva al termine in tutte le sue cittadelle, in Francia e in Germania, così come in Svezia. Questo indica solo, tuttavia, che le possibilità di una politica sociale accettabile all'interno del sistema di mercato sono completamente esaurite. Ma è proprio questo che i sindacati - con il loro assalto inaspettato, brandendo una politica dell'offerta e della riduzione dei costi - non vogliono ammettere.
L'iniziativa di Zwickel eccede, così, lo stesso disarmo programmatico dei sindacati - una proposta che deve solo essere incoronata nell'autunno del 1996, in occasione del congresso della Lega Tedesca dei Sindacati (Deutscher Gewerkschaftsbund) a Dresda, con un keynesismo ridotto al minimo del pudore, che "rifiuta la formulazione di progetti alternativi chiusi in sé stessi" (secondo le parole di Meyer, presidente della Lega, morto precocemente nel 1994, nella sua risposta al programma di linee guida della Lega del 1981). Nell'Accordo Lavorista non si trova nemmeno la minima traccia di un keynesismo pudico. D'ora in avanti, la Lega dei Sindacati potrà risparmiarsi programmi e congressi (un contributo alla riduzione dei costi?).
Questione del tutto diversa, comunque, è sapere se avranno un futuro i sogni di fioritura capitalista che i "modernizzatori" fanno per un sindacato con una legittimazione sociale drasticamente ridotta, e se lo "sconto Zwickel" (nel gergo sindacale) permetterà effettivamente l'ingresso in un cartello di minoranza della globalizzazione. Per amor di verità, va detto che una politica sindacale neoliberista è una contraddizione in termini. Perseguire una linea di riduzione dei costi basata sulla politica dell'offerta, significa la definitiva abdicazione dei sindacati, ossia, la perdita di legittimità, con l'abbandono di ogni critica del sistema, viene ora confermata su larga scala sotto l'aspetto pratico. Il programma suicida di Zwickel non protegge nemmeno gli occupati d'élite e, inoltre, porta ad una riduzione generalizzata del livello sociale e salariale. Di fatto, è illusorio supporre che l'abbandono dei minimi salariali e delle condizioni di lavoro regolamentato possa limitarsi ad un segmento sociale. L'accettazione del salario d'ingresso sotto il minimo è l'inizio della fine dei salari minimi in generale.
Nello stesso microcosmo imprenditoriale si trovano esempi concreti per cui l'Accordo Lavorista si basa fin dall'inizio sul masochismo sociale degli occupati d'élite:
"Un accordo lavorista è praticato oggi dalla Mercedes-Benz, in accordo con il consiglio amministrativo, sulla nuova linea di montaggio di Bad Cannstatt. La fabbrica del futuro, stimata in 800 milioni di marchi, lavora con la più alta tecnologia 24 ore al giorno, e, se occorre, anche il sabato. A settembre, data di inizio della produzione, i 900 operai si sono mostrati disposti a sacrificare anche la cosiddetta pausa di Steinkühler, di 5 minuti ogni ora di lavoro. Inoltre, si sottomettono ad un nuovo sistema salariale e lavorano in gruppi, secondo rigorosi standard di qualità e di produttività" (Die Woche, 12/01/96).
I vocaboli di base dei nuovi occupati d'élite non sono "benessere" e "salario alto", ma "sacrificio" e "sottomissione", "elevata produttività" fine al limite fisico e psichico, attività individuale o di gruppo, senza alcuna considerazione per i più deboli. Il "privilegio" del lavoratore individualizzato, capace di partecipare alla "Olimpiade" dell'alta produttività a tempo di record, consisterà nello sgobbare senza posa, per trovarsi a 40 anni pronto per lo psichiatra o per l'obitorio. In tutto questo, io sindacati sono assolutamente superflui.
A prescindere dai modelli sociali e dal diritto dei sindacati di esistere, la questione è se la politica dell'offerta e la riduzione dei costi sociali, in generale, possa sussistere come progetto di salvataggio del sistema (crocefiggetevi collettivamente per la redenzione dell'economia di mercato). Un passaggio della teoria della crisi di Marx, ripreso da Rosa Luxemburg, si riferiva al sottoconsumo strutturale delle masse come fattore di crisi del capitale. Tanto più nell'era fordista di un capitalismo globale, volto alla produzione di massa altamente organizzata, il potere di acquisto delle masse è conditio sine qua non del successo dell'accumulazione del capitale. Se il potere di acquisto delle masse viene radicalmente polverizzato dalla disoccupazione di massa, dalla riduzione dei benefici sociali e dall'eliminazione dei servizi pubblici e degli investimenti statali, allora quello che viene messo in scacco non è solo la riproduzione sociale, ma anche la capacità di esistenza ed il funzionamento economico del capitalismo stesso. Mediante la globalizzazione economico-imprenditoriale, un tale problema non viene superato, ma solamente globalizzato: su questo piano, tornerà sul capitale con furia raddoppiata. Ecco perché, già a medio termine, il neoliberismo monetarista è un programma suicida del modo di produzione capitalista.
Proprio di questo problema consisteva il cuore della teoria di Keynes e lo sfondo della politica di domanda del deficit spending (in origine, sotto l'influsso della crisi economica mondiale del 1929-33). La teoria keynesiana soffriva certamente di carenze, in quanto non era una teoria della crisi del modo di produzione capitalista, ma, soprattutto, una semplice teoria superficiale, volta al salvataggio del sistema. Lo stesso vale per il keynesismo di sinistra con alcune pudiche incursioni in Marx, rappresentato in Germania Occidentale dal gruppo Memorandum, composto da professori di sinistra, che per molto tempo ha trovato una sponda nel discorso sindacale. Lo scarso potere di acquisto delle masse viene qui considerato, secondo il più bel positivismo, un fenomeno isolato alla portata della "regolazione politica" e dell'intervento statale. In ultima analisi, si fa appello alla compassione del capitale affinché esso stesso riconosca il rafforzamento del potere di acquisto delle masse come una necessità "politica" del sistema.
In Marx, al contrario, lo scarso potere di acquisto delle masse non viene analizzato come un fenomeno di crisi isolato, regolabile dallo Stato o dalla politica salariale, ma come un limite interno, strutturale e oggettivo, delle relazioni capitalistiche. Non si tratta nemmeno di un mero limite esterno alla "realizzazione" del plusvalore prodotto dal mercato (come si legge in Rosa Luxemburg), ma di una scarsa produzione del plusvalore necessario, il quale, a sua volta, si trova alla base del fenomeno superficiale di una carenza di potere di acquisto da parte delle masse. La forma-feticcio "valore", adottata positivamente sia dalla teoria economica che dal movimento operaio, non ha niente a che vedere con la quantità materiale di beni prodotti, ma soltanto con il volume quantitativo di lavoro astratto in tale quantità incorporato, relativamente al rispettivo livello di redditività. Il capitale, per mezzo dell'aumento della produttività mediata dalla concorrenza, tende a produrre un numero sempre maggiore di prodotti materiali usando sempre meno lavoro, ma il suo vero obiettivo è l'accumulazione della quantità di lavoro incarnata nel denaro. Avviene, pertanto, che, con una produttività "molto elevata" (dal punto di vista della valorizzazione), il capitale già accumulato non può più essere reinvestito in maniera sufficientemente redditizia ("sovra-accumulazione"). La caduta del potere di acquisto delle masse e delle entrate dello Stato, indica così soltanto che la caduta di produzione reale del valore, in sé, non è in alcun modo alla portata di una regolazione "politica" ed esterna. Sovra-accumulazione e sotto-consumo sono due facce della stessa medaglia.
La teoria della crisi di sovraccumulazione è già stata giustamente esposta all'interno del marxismo del movimento operaio (ad esempio, da Paul Mattick) contro i keynesiani di sinistra e la loro argomentazione isolata e semplificata del sotto-consumo. Condizionato dalla sua epoca, Mattick, senza dubbio, lasciò aperta la questione di un limite storico assoluto dell'accumulazione, allo stesso modo in cui formulò (sempre, condizionato dalla sua epoca) la questione del superamento del sistema, ancora nei vecchi termini sociologici della lotta di classe. In passato, di fatto, il limite del sistema che si manifestava nelle crisi, poteva sempre venire esteso nella misura in cui si aprivano, a livelli sempre superiori, nuovi campi di valorizzazione del lavoro astratto - cosa che avvenne, com'è noto, per l'ultima volta, con il boom del miracolo economico dopo la II guerra mondiale. L'illusione keynesiana poteva essere sostenuta non perché il keynesismo funzionasse, ma perché l'accumulazione del capitale rendeva di per sé una produzione reale di valore sufficiente per poter ungere il deficit spending. Dal momento che, con la fine del fordismo e con la rivoluzione microelettronica, la crisi della produzione reale di valore si è ripresentata su una nuova scala e la sovra-accumulazione del capitale ha smesso di essere meramente ciclica, per tornare strutturale, si è resa evidente, allo stesso tempo, l'insostenibilità di un programma di aiuto esterno e "politico" del potere sociale d'acquisto. E' proprio in questo che risiede il fallimento del keynesismo nei paesi della metropoli capitalista.
Il ritorno alla politica dell'offerta, però, non fa altro che accelerare ed aggravare la crisi. Come tutto indica, sono state raggiunte le frontiere storiche del modo di produzione capitalista - frontiere, queste, che non possono più essere estese. Per paura della morte, i sindacati alla Zwickel preferiscono commettere apertamente suicidio insieme al capitalismo, piuttosto che fare resistenza sociale e sviluppare un'alternativa innovatrice al sistema. La politica dell' "adattamento radicale" è ingenua, poiché quello che è in gioco veramente è l'adattamento al collasso del sistema del lavoro salariato. Questo collasso verrà confermato anche se le istituzioni sociali non vogliono ammetterlo. Com'è evidente, solo le forze della barbarie, del terrore e della follia saranno capaci, nel decorrere della crisi, di eseguire su sé stesse il verdetto del sistema.
Ci può essere una prassi di critica radicale della società, al di là della lotta di classe?
Il pericolo di questo percorso si può forse vedere in parte dei sindacati allo stesso modo che nel resto della sinistra demoralizzata. Ma un tale pericolo, oggi è rappresentato solamente nelle categorie della vecchia critica del sistema, diventata obsolete, la cui versione "forte" è stato il socialismo statale volto alla modernizzazione di recupero, e la versione "debole", il keynesismo occidentale di sinistra con qualche piuma marxista. Abbiamo a che fare con la stupefacente incapacità della vecchia critica del sistema di trascendere sé stessa e di riconoscere la sua propria quota di partecipazione al mondo borghese della modernità al collasso. La percezione per cui il "borghese" si cela nella stessa forma-merce totalizzata, e non può essere limitato ad una classe sociale, viene respinta enfaticamente come prima. Sia nei sindacati che nello spettro di quel che rimane delle sinistre politiche, la critica sempre più tenue del neoliberismo e della politica di adattamento ad esso, praticata dai sindacati, dalla socialdemocrazia e dal Partito Verde, viene formulato con inconsolabile perplessità concettuale a partire dalla premessa della vecchia "lotta di classe", le cui implicazioni storiche in fondo permangono nebulose.
La celebre differenziazione interna al Partito Verde fra "realos" (modernizzatori capitalisti) e "fundis" (marxisti dell'età della pietra, consacrati alla vecchia lotta di classe) si ripete in varie costellazioni anche nei sindacati e nei partiti socialdemocratici e (ex-)comunisti - e non solo in Germania, ma anche in Francia, Italia ed in altri paesi. Nel Sindacato dei Metallurgici esiste ancora l'ala tradizionalista, con reminiscenze del vecchio movimento operaio (e contro l'eccessiva "conciliazione di classe), la quale, però, dall'epoca del suo presidente Steinkühler, costretto alle dimissioni per motivi d corruzione, è ridotta all'insignificanza. Lo stesso vale per la cosiddetta fazione Stamokap ("capitalismo monopolista di Stato") del SPD (soprattutto giovani socialisti). Nel PDS c'è la piccola Piattaforma Comunista che cerca di contenere il percorso di adattamento capitalista della cupola del partito, facendo uso di slogan ammuffiti della Germania Orientale (esiste ancora, se è permesso questo concetto della storia dei partiti operai, una sorta di gruppo "centrista" che si definisce Forum Marxista). In Francia, in Italia, in Spagna, in Portogallo, ecc., i prodotti della scissione del vecchio marxismo e della vecchia lotta di classe - a seconda dello sviluppo dell'Europa Occidentale nella storia del dopoguerra - sono stati di più che in Germania, seppure nella medesima forma di una retroguardia tradizionalista. Lo stesso Partito brasiliano della sinistra è stato vittima di un corrispondente frazionamento, e anche lì il vecchio marxismo ha portato al peggio.
Non stupisce, pertanto, che il dicembre parigino non sia stato analizzato criticamente dalla sinistra naufragante della vecchia lotta di classe, dal momento che le buone notizie vengono utilizzate solamente come ancora di salvezza. Si sperava che gli avvenimenti francesi fossero la continuazione dello stesso e dell'immutabile. Questo sbocciare autunnale della lotta di classe doveva esser visto come la prova di una presunta potenza innovatrice, o quanto meno immaginato come una vetusta rimembranza dell'antica forza di azione, perché se ne potesse trarre la conferma di una rottura epocale e di un'inevitabile mutazione del paradigma della critica radicale della società. Al momento del dicembre parigino, nella mente dei vecchi mandarini del radicalismo di sinistra, devoti della lotta di classe. non sorse niente di meglio di una cristallina auto-affermazione:
"In queste giornate di dicembre, a Parigi, appare chiaro che con gli ideologhi del capitale, i quali avevano annunciato solennemente la fine della lotta di classe, è avvenuta la stessa cosa che avvenne con la Chiesa Cattolica ed il suo tentativo di abolire l'impulso sessuale. Nonostante la dottrina sociale religiosa, nonostante una gioventù una volta esaltata nel maggio a Parigi, che era elitaria, nonostante la buona volontà verso la giustizia e l'uguaglianza, a dispetto di tutti i revisionisti: la contraddizione fra capitale e lavoro, tra produzione sociale ed appropriazione privata, torna sempre a galla" (Konkret, n.º 1, 1996).
Certo, riesce ad essere commovente. Però, qui si confonde qualcosa che all'epoca del movimento operaio era inevitabile e perfino progressista confondere, ma che oggi è diventato riprovevole. Mi riferisco alla relazione della lotta di classe - che in maniera indubitabile "torna sempre a galla", ed il cui crescente indebolimento, in occasione delle crescenti crisi sociali, manca, in modo altrettanto indubitabile, di spiegazione - col problema dell'alternativa al sistema. Per il vecchio marxismo, per i suoi mandarini ed i suoi seguaci, la "lotta di classe" era, ed è, il concetto centrale della critica della società e della trascendenza al sistema. Questo è il motivo per cui questi infaticabili vedono tornare a brillare in ogni critica della lotta di classe, l'opzione della dottrina sociale cattolica, la conciliazione della classe piccolo-borghese, la rinuncia alla critica radicale della società, ecc.. Il fatto e la ragione di tutto questo apparato concettuale, suona oggi tanto vecchio quanto non mettere in dubbio il diavolo, sebbene questo problema non sia ovviamente di pura natura congiunturale e condizionato dai tempi.
Per il vecchio ed ostinato radicalismo di sinistra, è semplicemente incomprensibile che la lotta di classe, secondo il suo concetto, sia obbligata a rimanere nel suo quadro formale borghese, e che, proprio per questo, possa esserci una critica emancipatrice del paradigma stesso di lotta di classe, critica che non è in alcun modo borghese e "conciliatrice". Si tratta qui di un problema che, a differenza di prima, non può più essere ignorato, al livello attuale dello sviluppo capitalista, e che "torna sempre a galla" alla stessa maniera in cui lo fa la lotta di classe, sebbene simultaneamente le sottragga ogni volta sempre più brillantezza. Il capitalismo, com'è noto - grazie al feedback cibernetico del "valore" o della sua forma di manifestazione, il denaro, in quanto "valorizzatore del valore" - è una società della forma-merce totalizzata. Il vecchio marxismo ed il vecchio radicalismo di sinistra si sono concentrati interamente sull'antagonismo dei soggetti funzionali dentro la forma-feticcio. La "contraddizione" fra "produzione sociale ed appropriazione privata" è stata interpretata, pertanto, come abbiamo visto, sullo sfondo dell'antagonismo fra "capitale e lavoro" nel senso delle classi sociali: la "produzione sociale" appariva analoga alla "classe lavoratrice", e la "appropriazione privata" alla "classe capitalista".
Ma, con questo, la relazione sociale di feticcio viene equivocamente semplificata in maniera sociologista, poiché anche la "forza lavoro" è una merce nel cui concetto è contenuto "l'aspetto privato". Questo semplicemente significa che anche la "classe operaia", sotto forma di salario monetario, "si appropria in maniera privata". Il vecchio e limitato marxismo si indigna per simili dichiarazioni e, come di riflesso, subito ribatte che gli uni si appropriano soltanto dei costi di riproduzione della propria vita e gli altri, invece, "della pienezza della ricchezza". Già sul puro piano dell'immanenza, questa forma di considerazione è equivoca, poiché in primo luogo "il capitale" (cioè, una delle parti dei soggetti funzionali, in una concettualizzazione semplificata) non si appropria in maniera soggettiva o personale della massa di ricchezza astratta, ma, soprattutto, esegue ed organizza la sua costante riconversione nell'assurda finalità in sé stessa della "valorizzazione del valore". E, in secondo luogo, lo stesso aspetto materiale della ricchezza privata dei "ben remunerati" e dei "milionari" porta il marchio di questo fine in sé capitalista e senza soggetto. Tale ricchezza dei ricchi assume sempre più i tratti (con la crescente progressione del capitale) della pazzia e dell'auto-distruzione, tanto da non poter essere più accettata, per il modo in cui si presenta, come obiettivo emancipatore degno di universalizzazione.
Involontariamente, il modo con cui il vecchio marxismo considera la "appropriazione privata" rivela soprattutto che esso conosce solo la differenza quantitativa all'interno della forma-merce, ma procede a tentoni nella più completa oscurità per quel che riguarda il vero aspetto del carattere privato. Quando non si tratta più soltanto della differenza quantitativa della massa che viene appropriata, ma di qualità formale dell'appropriazione, allora diventa chiaro che la contraddizione capitalista fondamentale tra produzione sociale ed appropriazione privata non è identica alla contraddizione di classe dei soggetti funzionali in seno alla forma-merce. Piuttosto, è la contraddizione tra il contenuto sociale della produzione materiale e la forma privata dei soggetti sociali, o dei loro modi di appropriazione come un tutto (ivi inclusa la "classe operaia") che caratterizza la relazione di capitale. Così, la lotta di classe può essere solo il movimento formale immanente della relazione di capitale, ma non il movimento per superare la relazione capitalistica.
Marx è stato in grado di unire, in un corto circuito, questi due piani di movimento di emancipazione sociale (sebbene questo rimanesse fin dall'inizio concettualmente confuso), perché l'emancipazione relativa all'interno della forma-merce e del lavoro salariato disponeva ancora di un orizzonte storico davanti. Ora, la relazione capitalista si trova completamente sviluppata fino alle sue estreme frontiere, e, perciò, abbiamo a che fare con la crisi del sistema referenziale comune al "capitale e lavoro". Soltanto quando questo verrà compreso, diverrà chiaro perché la nuova crisi socio-economica coincida con la paralisi della vecchia lotta di classe. Non si tratta, quindi, della "conciliazione piccolo-borghese di classe" all'interno e sul terreno della forma-merce totale ed universale, ma della critica e del superamento di questa stessa forma-feticcio universale e storicamente sociale. Di fatto, ora si rende inevitabilmente evidente che tutte le manifestazioni del degrado sociale, della povertà e della repressione, hanno la loro origine primaria in questa forma di relazione denaro-merce in quanto tale, e non nella mera soggettività dei suoi propri e limitati portatori funzionali.
Quando passiamo in rassegna, alla luce di questa percezione, lo sviluppo dei movimenti sociali (inclusi i sindacati) dl maggio parigino del 68, la crescente debolezza delle ultime e penultime battaglie della lotta di classe, e il declino della (vecchia) coscienza critica, si rivelano indizi della vicinanza ai limiti storici del sistema. Il problema ignorato, malinteso o visto come solo culturale, dei situazionisti contro il feticismo della merce - programma questo formulato ancora nei termini della lotta di classe, sebbene il suo contenuto già la oltrepassasse - può esser visto come una cerniera storica. Oggi non è possibile prenderlo direttamente come punto di partenza, ma si tratta di arrivare, con l'inclusione di una critica e di una revisione storica di tale teoria una volta radicale, ad una nuova critica formale volta a trasformare la modernità produttrice di merci. Mentre il concetto di lotta di classe continua a trascinarsi, l'orientamento statale - equivoco di base di tutto il vecchio "socialismo" - manterrà il suo posto nelle fazioni sconfitte e incapaci di apprendere dei sindacati, della socialdemocrazia, dei comunisti e del Partito Verde; e anche nelle teste dei Gremliza, Trampert/Ebermann, ecc., con un'ispezione più minuziosa, non si troverà niente di diverso. Nei modelli storici, ossia, nei vecchi (o ancora vigenti) regimi della modernizzazione borghese di recupero, tale prospettiva è ogni giorno più tenebrosa. Secondo Iuri Masliukov, presidente della Duma russa per le questioni economiche e funzionario del PC, "Lo Stato può condurre le imprese in maniera assolutamente efficace": "Il Partito Comunista di Russia esige cambiamenti nella politica di privatizzazione, la difesa più severa del mercato interno ed il controllo statale delle risorse del paese" (Handelsblatt, 15/03/96).
Le antiche ricette mercantilistiche della preistoria dell'economia di mercato vengono riscaldate ancora una volta, ma adesso nel contesto di un orientamento francamente capitalista e del suo fondamento nazionalista depurato di ogni fraseologia critica del mercato. Nel governo popolare della Cina, il socialismo di Stato volto alla modernizzazione di recupero si è già convertito in un regime barbaro che coniuga un'amministrazione penitenziaria sanguinosa e generalizzata con un mercato radicalmente neoliberista, e che con malizia si definisce "socialista". Cuba, paese della predilezione rivoluzionaria caraibica del vecchio radicalismo di sinistra, desidera anch'esso seguire queste medesimi passi, secondo le parole del ministro dell'economia José Rodriguezz: "Ci interessa l'efficienza e la maggior efficienza. [...] Siamo consapevoli, è chiaro, della fine del sistema socialista nell'Est europeo, ma anche della crisi in America Latina. Cerchiamo di trovare una via di mezzo, più o meno come la Cina" (Wirtschaftswoche, 11/96).
Alcuni radicali della sinistra occidentale insistono sul loro rivoluzionarismo cubano e sulla loro irriflessa solidarietà a Cuba, come se nulla fosse accaduto - cosa che non fa altro che esporli al ridicolo. Non c'è dubbio che abbia ancora valore ergersi contro l'embargo degli Stati Uniti, ma questo non ha niente a che vedere con la difesa di un'alternativa storica. L'atteggiamento dei vecchi radicali di sinistra di fronte alla richiesta di recuperare teoricamente il carattere di tutti questi regimi, così come il loro stesso orientamento, e rivalutarli storicamente, discredita tutto quel che rimane ancora loro di un'oscura critica del capitalismo. Lo stesso avviene con le correnti riformiste di sinistra di provenienza più o meno accademica (che nella Germania Occidentale sono rappresentate da riviste come Prokla, Argument, Links, ecc.). Queste cercano di prendere più risolutamente le distanze dalla vecchia "metafisica di classe" e, soprattutto, dal vecchio statalismo di sinistra, ma soltanto per riprodurre con un'enfasi leggermente diversa il medesimo assoggettamento alla forma borghese e alle sue categorie funzionali.
Invece di una trasformazione critica formale del concetto di classe, si deve avere una "una teoria delle classi all'altezza del tempo" ( Links, nº 310/11, 1996), slegata da ogni fondamento critico dell'economia e legittimata in maniera puramente democratico-politicista, al fine di poter così insistere capricciosamente sulla "produzione politico-culturale della struttura sociale" (Heinz Steinert), lontano dal raggio d'azione della critica radicale del mercato e della forma-valore. Quanto più questo genere di sinistra reclama apparentemente la critica dell'economia politica, tanto meno essa dà una soluzione a tale esigenza e diventa repressiva e sociologista - e questo perché teme la critica radicale allo stesso modo in cui la teme l'antidiluviano radicalismo statale di sinistra. Caratteristico di questo è il programma di ricerca "Classes 96", che riassume tutta la miseria pratica e teorica:
"Interessi antagonistici ed imposizioni strutturali della riproduzione capitalista, dominano il commercio politico del giorno per giorno. Così, lo stesso messaggio della fine della società di classe viene riconosciuto per quello che è sempre stato: una generalizzazione precipitosa che rimane alla superficie degli accadimenti. [...] Che i principi strutturali del capitalismo vengano alla luce in maniera così tanto chiara, non lo si deve alla logica del capitale, per quanto sviluppata essa sia [!]. Piuttosto, è il risultato di una strategia politica, ossia, la scheggiatura neoliberista delle forme istituzionali di regolazione per mezzo delle quali il compromesso di classe è stato finora assicurato" (Links, nº 310/11, 1996).
Qui, da un lato, la teoria e la critica della logica di base del capitale vengono offuscate in maniera peggiorativa, o messe in secondo piano. Dall'altro lato, la crisi contemporanea e il degrado sociale non devono scaturire da uno sviluppo storico e dall'avvento di un limite storico di questa logica di base; piuttosto, grazie ad una pura "strategia politica" del neoliberismo, sono solo i "principi strutturali del capitalismo" che ancora una volta emergono chiaramente, in maniera astorica e, "come sempre", esterni ad ogni sviluppo strutturale. La storia capitalista non si svolgerebbe, pertanto, in maniera essenzialmente strutturale e socio-economica, ma semplicemente in opinioni politiche, socio-culturali ed ideologiche che cambiano davanti allo sfondo dei "principi strutturali" astorici, visti come semi-ontologici, non essendo quindi sottomessi ad una critica radicale concreta. Sarà che il socialismo accademico e lavorista crede con tutta serietà che si potrebbe avere, nelle condizioni della rivoluzione microelettronica e del capitale come relazione mondiale dopo la crisi fordista, una nuova "forma di regolazione del compromesso di classe, che del resto può essere pensata soltanto come la forma statale ed economica della nazione?
Quello che è certo è che Joachim Hirsch, uno dei protagonisti di questo organo della sinistra, formula una sorta di programma rivoluzionario critico della cultura, interamente determinato dal mondo della vita, ed il cui obiettivo, con Walter Benjamin, è:
"intervenire negli ingranaggi di questo macchinario, fermarlo, dargli fine, interrompere la collaborazione quotidiana - e tutto ciò con la riflessione critica. Quel che importa è dire addio alla vecchia idea socialista di un capitalismo industriale migliore ed avere coscienza che la liberazione non risiede in un'altra società qualsiasi, né nella modernizzazione (per quanto grande essa sia) delle relazioni attuali, ma nella creazione di condizioni in grado di rendere possibili la libera configurazione della stessa vita sociale" ( Links, nº 310/11,1996.).
Questo sembra sensato e promettente, e potrebbe essere l'inizio di una discussione comune globale circa il rinnovamento della critica radicale della società. Ad un'analisi più attenta, però, questa formulazione programmatica rimane infelicemente vuota di qualsiasi contenuto di critica della formazione, oppure la critica della formazione si riferisce semplicemente (secondo la cosiddetta teoria della regolazione) alla corrispondente forma di "regolazione politica" che possibilmente verrà sostituita da un'altra, senza che neppure si riconosca, come tema, un accenno di forma-merce totalizzata.
In tal modo, anche Hirsch soccombe all'inevitabile alternativa tra Scilla e Cariddi, tra Mercato e Stato. Nel sistema moderno della produzione di merci, la forma repressiva dello Stato può essere contrapposta soltanto alla libertà di mercato, la quale, tuttavia, è solo la libertà del denaro e non è mai la "libera configurazione della vita sociale stessa". Il concetto cinico di libertà proprio del liberalismo consiglia alle persone di rendersi autonome come monadi della concorrenza, di ottenere successo individuale o imprenditoriale, ecc., e così trascinarsi sotto l'eterno giogo del denaro.
Una società solidale, libera da relazioni contrattuali di vita e di produzione, è, per definizione, impossibile come società di produttori di merci. L'emancipazione sociale può essere solo libertà dal mercato. Nella misura in cui Hirsch non si degna di pensare oggi quel nucleo della critica della forma di emancipazione sociale, la sua critica della "collaborazione quotidiana" rimane vuota. Tutti quelli che "guadagnano il loro denaro" si vedono nella contingenza di collaborare nel quotidiano, e tale collaborazione finisce esattamente dove termina il "guadagnar denaro". In quanto non demarca questo limite, Hirsch finisce nella vecchia formula della "politica", spinto dal fatto che questa ha di per sé un orientamento statale, poiché ogni politica è per definizione un vincolo con lo Stato.
Anche quando si ammette che ci dovrebbe essere qualcosa come un periodo di trasformazione nel quale un nuovo principio di auto-organizzazione, libero dalla forma-merce, dev'essere conciliato (criticamente) con i momenti ancora esistenti della riproduzione nella sua forma-merce, con i conflitti intorno al denaro e anche con la cosiddetta politica, bisogna, innanzitutto, formulare questo nuovo principio di emancipazione sociale, metterlo sui suoi piedi e esplicitarlo nelle sue qualità anti-economiche ed anti-politiche, invece di abbandonare la questione della critica radicale e dell'emancipazione al piano metaforico senza compromessi, e continuare a pensare e ad agire dentro le vecchie categorie reali e concettuali del mercato e della politica.
Anche se ogni vero movimento sociale, anche il più radicale ed innovatore, deve sviluppare qualcosa che assomigli ad una "dialettica della riforma e della rivoluzione" per superare la forma-merce totalizzata (con un obiettivo, chiaramente, del tutto diverso, per la prima volta esterno all'universo borghese della modernità), sono necessari, prima di tutto, il nuovo obiettivo della critica radicale ed un corrispondente impeto innovatore conflittuale, prima che gli si possa dare il nome di riformista (se tale concetto ha ancora un qualche valore). Ciò significa, come imperativo categorico imprescindibile del momento, il rifiuto (anche emozionale) dell'illusione del successo del capitalismo, lo storico "rifiuto dei lavoratori" (insieme alla critica di un socialismo dei risultati e quantificatore del lavoro, la cui idea si situerebbe oggi sotto il livello delle forze produttive). Si tratta, soprattutto (forse storicizzando criticamente tanto i situazionisti quanto Herbert Marcuse), di sviluppare una cultura del rifiuto - quanto a ciò, va concordato, per esempio, con la formulazione analoga di Joachim Hirsch, sebbene ci sia ancora bisogno di dedurre le conseguenze critiche dell'economia e della politica, cosa che (finora) non ha fatto.
Non ci vorrà molto a che il nuovo obiettivo storico di un superamento del "lavoro", della forma-merce, del denaro, del mercato e dello Stato, si scontri con il sordo rifiuto di tutta la coscienza dominante - dei feticisti protestanti del lavoro, quale che sia il loro orientamento, per motivi di principio, così come dei pseudo-pragmatici, in virtù della presunta impossibilità a realizzare un simile piano. Ora, proprio perché la lotta per un "equo salario per un equa giornata di lavoro" non ha nessuna prospettiva storica di evoluzione, quello che alla fine è in discussione è la concretizzazione storica dello slogan opposto a quello di Marx: "abbasso il lavoro salariato!" Invece di contribuire con una magra elemosina concettuale al miserabile dibattito, che ci ferisce il cuore, a proposito di creazione di posti di lavoro, bisogna attaccare alla radice il sistema di posti di lavoro, cioè, il sistema della trasformazione del "lavoro" in denaro.
Questa prospettiva non significa assolutamente abbandonare senza lottare il terreno delle contraddizioni immanenti degli interessi (nella loro forma-merce) che "sempre tornano a galla". Rispetto a questa contraddizione borghese, determinata dalla forma capitalistica, non può più essere sviluppato, tuttavia, nessun obiettivo trasformatore, nessun programma di un modo di vita e di produzione diversi. La lotta per il denaro, il salario, l'assistenza sociale, ecc., è pertanto un modello storico esaurito che dev'essere incorporato come tale. Non è più qualcosa di isolato, e deve innanzitutto essere inteso come un momento tattico e di appoggio per un obiettivo ed un programma totalmente diversi, ossia, per una riproduzione aliena alla forma-merce, al di là del mercato e dello Stato. L'irrimediabile declino dei sindacati negli ultimi anni ci mostra che il mero conflitto rassegnato al sistema può sfociare soltanto nell'auto-rinuncia, poiché non ha più né obiettivo né strategia; una "tattica" da sé sola, senza una relazione strategicamente critica del sistema, costituisce un'impossibilità. Solo nella misura in cui un nuovo obiettivo della critica radicale della società stabilisce un vincolo strategico col movimento sociale, la lotta sociale (coadiuvante) degli interessi immanenti alla forma-merce può guadagnare nuova forza persuasiva.
Solamente le persone che si sono imposte un obiettivo che vada oltre il lavoro salariato ed in questo hanno trovato possibilità di vita, possono pretendere alla vecchia maniera, con legami più resistenti, le gratificazioni sociali (per esempio, secondo il motto: "Il vostro mercato mondiale ci è indifferente"). La divergenza decisiva con la relazione che riguarda la vecchia lotta di classe sarebbe che la disputa immanente, nella sua forma-merce, non dà più forma all'obiettivo dell'emancipazione sociale; è la rottura con la forma borghese della modernità che appare come uno degli obiettivi.
In questo contesto, gli attori sociali non possono mai essere "soggetti di classe", costituiti a priori e pertanto legati alla forma-merce, ma solamente un movimento di emancipazione sociale che si costituisce da sé. Tale movimento non assumerà più la forma di un partito politico, ma quella di un sistema collegato di iniziative sociali su piani diversi, il cui denominatore comune non è solo la critica sociale del mercato e dello Stato, ma anche un rispettivo momento pratico e di esperienza di svincolo dal mercato, dal denaro e dallo Stato - il che, difficilmente la coscienza normale contemporanea comprende in un colpo solo, giacché tutte le istanze di cooperazione e riproduzione sociale della vita (con l'eccezione della sfera di attività propria alle donne) passano per le mani del capitale e dello Stato. Non sono tanto i problemi tecnici od economici della realizzazione che oggi si oppongono all'idea di svincolo degli ambiti della vita e della riproduzione, ma, piuttosto, la forma-merce introiettata dal soggetto.
Se sarà possibile sviluppare socialmente la prospettiva di un movimento di svincolo dal mercato e dallo Stato in ambiti parziali accessibili dalla riproduzione sociale, la stessa questione della riduzione della giornata lavorativa guadagnerà nuova plausibilità sul terreno della forma-merce. Anche senza compensazione salariale, la riduzione della giornata o la giornata parziale di lavoro contiene un momento di gratificazione (in netta differenza con il salario basso o un salario inferiore al minimo di un secondo mercato del lavoro): ossia, un guadagno di tempo disponibile. Se tale gratificazione emerge come assurda in un sistema avvolgente di dipendenza dal denaro, potrà diventare attraente con la costruzione simultanea di elementi di riproduzione sociale alieni alla forma-merce. Un'opposizione sindacale avrebbe il suo mandato proprio in un simile contesto (riconciliata con un nuovo orientamento pratico), e non nel semplice attaccamento alla vecchia ideologia della lotta di classe nella sua forma-merce.
Nella storia a partire dal 1968 (veramente, già dalla II guerra mondiale), la teoria critica della società, i movimenti sociali e la controcultura si sono sempre più decomposti fino ad arrivare alla paralisi totale, simultaneamente alla crescente crisi di riproduzione della società borghese. Solo la trasformazione e la riformulazione della società oltre il feticismo della merce renderà possibile una reintegrazione ed una nuova forza persuasiva. Sicuramente, un tale rinnovamento della critica non può essere esposto direttamente alla coscienza delle masse sindacali fissate sulla forma-merce. Tuttavia, sotto la superficie delle istituzioni dominanti (partiti, sindacati, università, chiese), forse sarebbe ancora possibile il dispiegamento di un discorso sullo "impossibile". Sono molti oggi quelli che devono passare sotto il filo della spada all'interno del loro apparato, di modo che non mancano portatori e mediatori di un simile discorso. Non avremo più bisogno di ricordare con malinconia la linea decadente delle ultime battaglie della vecchia lotta di classe a partire dal maggio parigino, se cominceremo a prepararci per la prima battaglia di un Maggio completamente diverso.
- Robert Kurz - Pubblicato sulla rivista Krisis n° 18, 1996 – 3 di 3.
fonte: EXIT!
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