La noia mortale degli Indiani del Paraguay
di Louis Antoine de Bougainville
Fu nel 1580 che si videro i Gesuiti ammessi per la prima volta in quelle fertili regioni, dove essi poi fondarono, sotto il regno di Filippo III, le missioni famose, alle quali si da in Europa il nome di Paraguay. (...) I Gesuiti si misero all'opera col coraggio dei martiri e pazienza veramente evangelica. L'una cosa e l'altra occorrevano per attirare, vincolare, piegare all'obbedienza e al lavoro una gente selvaggia, incostante, attaccata tanto alla propria pigrizia quanto alla propria indipendenza. Gli ostacoli furono infiniti, le difficoltà sorgevano ad ogni passo, ma lo zelo trionfò su tutto e la mitezza dei missionari condusse alla fine ai loro piedi quei selvatici e rozzi abitanti dei boschi. Essi infatti li raccolsero in abitazioni, diedero loro delle leggi, introdussero le arti docili e piacevoli. (...) Questi Indiani, sedotti dall'eloquenza persuasiva dei loro apostoli, obbedivano di buon grado ad uomini che vedevano pronti a sacrificarsi per la loro felicità.
Don Joaquìn de Viana mi disse che, quand'ebbe ricevuto l'ordine di lasciare le missioni, una gran parte degli Indiani, scontenti della vita che menavano, espresse il desiderio di seguirlo. (...) Fui sorpreso di quanto Viana mi disse a proposito del malcontento degli Indiani. Come accordarlo con tutto ciò che avevo letto sul modo in cui erano governati? Ero convinto, infatti, di poter citare le norme delle missioni come modello di un'amministrazione capace di dare agli uomini felicità e saggezza. E invero quando ci si immagina da lontano e in modo vago quel magico governo, fondato sulle sole armi spirituali, privo di altri vincoli che non siano le catene della persuasione, quale altra organizzazione può pensarsi che maggiormente onori l'umanità? Si tratta di una comunità che abita una terra fertile sotto un clima felice, i cui membri sono tutti laboriosi e in cui nessuno lavora per sé; i frutti della coltivazione comune è scrupolosamente ceduto ai magazzini pubblici, attingendo ai quali si distribuisce a ciascuno quanto gli è necessario per il suo sostentamento, per il vestiario e per il mantenimento del suo nucleo familiare. (...). Ma in materia di governo un immenso intervallo divide la teoria dalla pratica amministrazione.
Il paese era diviso in parrocchie, ciascuna retta da due Gesuiti, il curato e il suo vicario. Il curato si alzava alle cinque del mattino, dedicava un'ora alla meditazione, diceva la messa alle sei e mezzo; venivano a baciargli la mano alle sette e si faceva allora la distribuzione pubblica di un'oncia di mate per famiglia. Dopo la messa, il curato faceva colazione, diceva il breviario, lavorava coi corregidores (…), pranzava alle undici solo col suo vicario; rimaneva a conversare fino a mezzogiorno e faceva la siesta fino alle due; si chiudeva quindi nel suo domicilio privato fino al rosario, dopo il quale si conversava ancora fino alle sette di sera, poi il curato cenava; alle otto si riteneva fosse già andato a letto.
Il popolo invece alle otto di mattino già attendeva ai vari lavori sia della terra sia delle officine, e i corrigidores vigilavano sul più severo impiego del tempo. (...) Alle cinque e mezza di sera si riunivano tutti per recitare il rosario e baciare ancora la mano del curato (...). La domenica non si lavorava, l'ufficio divino prendeva maggior tempo; tutti potevano poi dedicarsi a qualche gioco, triste quanto il resto della loro vita.
Si vede da questo esatto ragguaglio che gli Indiani erano soggetti a un alternarsi uniforme e tremendamente noioso di lavoro e di riposo. Tale noia, che con ragione vien detta mortale, basta a spiegare ciò che ci hanno riferito: che gli Indiani, cioè, lasciavano la vita senza rimpiangerla e morivano senza essere vissuti. Se cadevano ammalati, era raro che guarissero e quindi si domandava loro se morire li affliggesse, rispondevano di no, col tono di chi lo pensa davvero.
- Dal "Viaggio intorno al mondo", il Saggiatore, 1983 -
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