sabato 11 luglio 2020

Contro l’asfissia !

Il diritto universale alla respirazione
- di Achille Mbembe - 17 aprile 2020 -

Se il Covid-19 è la drammatica espressione dell'impasse planetario in cui si trova adesso l'umanità, allora ciò che è in gioco è, né più ne meno, la ricostruzione di una Terra abitabile, in modo che essa possa offrire a tutti la possibilità di una vita respirabile. Saremo in grado di riscoprire la nostra appartenenza  alla medesima specie e il nostro vincolo indissolubile con tutti gli esseri viventi? Questa potrebbe essere la domanda, l'ultima, prima che la porta si chiuda, una volta per tutta. Alcune persone stanno già parlando del «post-Covid-19». Perché no? Tuttavia, per la maggior parte di noi, soprattutto in quelle parti del mondo dove il sistema sanitario è stato devastato da anni di abbandono organizzato, il peggio deve ancora arrivare. In assenza di posti letto in ospedale, respiratori, test , mascherine, disinfettanti a base di alcol e di altri dispositivi di quarantena per le persone che ne vengono colpite, saranno molti, sfortunatamente, che non riusciranno a passare attraverso il foro dell'ago.

La politica del vivente
Qualche settimana fa, di fronte al tumulto e all'agitazione imminente, alcuni di noi hanno cercato di descrivere questi tempi nei quali stiamo vivendo. Abbiamo parlato di un tempo senza garanzie né promesse, in un mondo sempre più dominato dalla paura della fine. Però, aggiungiamo, si tratta anche di un'epoca caratterizzata da una «redistribuzione ineguale della vulnerabilità» e da «nuovi e disastrosi compromessi con forme di violenza tanto futuristiche quanto arcaiche» [*1]. Peggio ancora, si tratta di un epoca di brutalismo.
Ma al di là di quelle che sono le sue origini che si situano nel movimento architettonico emerso a metà del XX secolo, definiamo il brutalismo come il processo contemporaneo «per mezzo del quale, il potere, che si è costituito come forma geomorfica, attualmente si esprime, si riconfigura, agisce e si riproduce». Altrimenti, per cos'altro, se non attraverso «le fratture e le crepe», per mezzo dello «svuotamento venoso», «la perforazione» e l'«estrazione delle sostanze organiche»; in breve, per mezzo di quella che abbiamo chiamato la «deplezione». E non è senza ragione che richiamiamo l'attenzione sulla dimensione molecolare, chimica e perfino radioattiva di questi processi: «Non è forse la tossicità - vale a dire, la moltiplicazione delle sostanze chimiche e dei residui pericolosi - una dimensione strutturale del presente? Tali sostanze e rifiuti non solo attaccano la natura e l'ambiente (aria, suolo, acqua, catene alimentari), ma anche i corpi che in questo modo rimangono esposti al piombo, al fosforo, al mercurio, al berillio e agli agenti refrigeranti». Naturalmente, ci stiamo riferendo ai «corpi esposti all'esaurimento fisico e ad ogni tipo di rischio biologico, a volte invisibile». Tuttavia, non abbiamo menzionato i virus (circa 600.000, trasportati da ogni tipo di mammiferi), se non metaforicamente, nel capitolo dedicato ai «corpi di frontiera». Però, d'altronde, si trattava ancora una volta della politica degli esseri viventi nel loro insieme. Ed il coronavirus è il nome palese di quello che lo precede.

L'umanità errante
In questi tempi di colore viola - presupponendo che la caratteristica distintiva di ciascun tempo sia il suo colore - forse dovremmo di conseguenza cominciare a celebrare a capo chino tutti quelli che ci hanno già lasciato. La barriera degli alveoli polmonari si è rotta ed il virus si è infiltrato nel flusso del sangue. Dopo di che ha attaccato gli organi e gli altri tessuti, ed ha cominciato a farlo a danno di coloro che sono più esposti. Quella che ne è seguita, è stata un'infiammazione sistemica. Chi - già prima che si verificasse l'attacco - aveva problemi cardiovascolari, neurologici o metabolici, oppure soffriva di patologie correlate alla contaminazione, ha dovuto subire gli attacchi più furiosi. Ansimanti e privi di respiratori, alcuni se ne sono andati come se stessero fuggendo, all'improvviso, senza alcuna possibilità di poter dire addio. I loro resti sono stati immediatamente cremati, o sepolti. In solitudine. Era necessario, ci hanno detto, sbarazzarsi di loro il prima possibile.
Ma mentre ci siamo, perché non aggiungere a tutti loro - e sono decine di milioni - le vittime dell'AIDS, del colera, della malaria, dell'Ebola, del Nipah, della febbre di Lassa, della febbre gialla, del virus Zika, della Chikungunya, di ogni tipo di tumore, le vittime degli epizootici e di tutte le altre pandemie animali come l'influenza suina o la febbre catarrale degli ovini, le vittime di tutte le epidemie immaginabili ed inimmaginabili che nel corso dei secoli hanno devastato popoli senza nome in terre lontane, per non parlare delle sostanze esplosive e delle guerre di saccheggio ed occupazione che mutilano e decimano decine di migliaia di persone  e che gettano sulla strada dell'esodo centinaia di migliaia di altre persone, l'umanità errante?
Come dimenticare, d'altra parte, la deforestazione intensiva, i mega-incendi e la distruzione degli ecosistemi, la disastrosa azione delle aziende che inquinano e distruggono la biodiversità e, nella vita quotidiana, il modo in cui la detenzione modella la nostra condizione, le moltitudini che popolano le prigioni del mondo, e tutti coloro le cui vite vanno a sbattere contro i muri di confine e le altre tecniche di frontierizzazione; sia che si tratti degli innumerevoli posti di blocco, oppure dei mari, degli oceani, dei deserti e di tutto il resto?
Ieri, e l'altroieri non si parlava altro che di accelerazione, delle reti di connessione che si espandono e vanno ad abbracciare l'intero pianeta, della inesorabile meccanica della velocità e della dematerializzazione. Nel mondo dei computer, dove si suppone ci dovrebbe essere il futuro dei gruppi umani e della produzione materiale, così come quello degli esseri viventi. A partire dalla logica dell'ubiquità, dalla circolazione ad alta velocità e da un'enorme memoria di massa, ora sarebbe sufficiente «trasferire tutte le abilità degli esseri viventi all'interno di un loro duplicato digitale», e tutto il resto vien da sé [*2]. Nella fase suprema della nostra breve storia sulla Terra, l'essere umano potrebbe finalmente trasformarsi in un dispositivo di plastica. E questa strada è stata preparata per il culmine di quello che era il vecchio progetto di estendere infinitamente il mercato.
Nel bel mezzo dell'intossicazione generale, è questa razza dionisiaca, che ho descritto d'altra parte nel libro "Brutalismo", quella che ora il virus sta frenando, senza riuscire ad interromperla in maniera definitiva, sebbene tutto continui a restare al suo posto. Adesso, tuttavia, è arrivato il momento dell'asfissia e della putrefazione, dell'accumulo e della cremazione dei cadaveri, in una parola, la resurrezione dei corpi vestiti, per l'occasione, delle loro belle maschere funebri e virali. Per gli esseri umani, la Terra si trova sul punto di trasformarsi in una Necropoli universale? Fino a che punto si spingerà il diffondersi dei batteri degli animali selvatici che contagiano l'uomo se, di fatto, ogni venti anni, devono essere tagliati quasi cento milioni di ettari di foresta tropicale (i polmoni della Terra)? In Occidente, dall'inizio della rivoluzione industriale, sono state prosciugate quasi l'85% delle zone umide. Via via che la distruzione dell'habitat prosegue senza tregua, le popolazioni umane che si trovano in una stato di salute precario, si trovano esposte, quasi ogni giorno, a nuovi agenti patogeni Prima della colonizzazione, gli animali selvatici, i principali serbatoi di agenti patogeni, si trovavano ad essere confinati in aree dove vivevano solo delle popolazioni isolate. Era il caso, ad esempio, delle ultime regioni forestali che erano rimaste al mondo, quelle del bacino del Congo. Al giorno d'oggi, le comunità che vivono e dipendono dalle risorse naturali di questi territori sono state espropriate. Espulsi dalle loro case, a seguito della vendita dei terreni da parte di regimi tirannici e corrotti, e a seguito del rilascio di vaste concessioni statali a favore dei consorzi agroalimentari, non hanno potuto continuare a mantenere quelle forme di autosufficienza alimentare ed energetica che aveva permesso loro, per secoli, di poter vivere in equilibrio con la foresta.

Non abbiamo mai imparato a morire
In simili condizioni, una cosa è preoccuparsi della morte dell'altro, da lontano, un'altra invece è diventare improvvisamente consapevoli della propria putrescibilità, sapere di dover vivere nelle vicinanze della propria morte, e contemplarla come se fosse una possibilità reale. Tale a questo, in parte, è ad esempio il terrore che il confinamento causa in molti, l'obbligo a dover rispondere perfino con la stessa propria vita e con il proprio nome. Rispondere, qui ed ora, con la nostra vita, su questa Terra, insieme ad altri (includendo in questo anche i virus), e con il nostro nome comune è, di fatto, il compito che questo momento patogeno assegna alla specie umana. Momento patogeno, ma anche momento catabolico per antonomasia, quello della decomposizione dei corpi, della classificazione e dello smaltimento di ogni genere di rifiuti umani - la «grande separazione» e il grande confinamento, visti come risposta alla sconcertante diffusione del virus, e come conseguenza alla digitalizzazione allargata del mondo. Ma per quanto si cerchi di sbarazzarcene, alla fine tutto quanto ritorna nel corpo. Abbiamo tentato di innestarlo in altri supporti, di convertirlo in un corpo-oggetto, un corpo-macchina, un corpo digitale, un corpo ontofanico [***]. Il corpo torna a noi nella straordinaria forma di un enorme mandibola, un veicolo del contagio, un vettore per il polline, le spore e le muffe. Sapere che non siamo soli fronte a tale prova, o che molti di noi riusciranno a sfuggirle, è solamente una vana consolazione. Sennò, per quale altro motivo non avremmo mai imparato a convivere con i vivi, a prenderci veramente cura dei danni causati dall'uomo ai polmoni e al corpo della Terra. Di conseguenza, non abbiamo mai imparato a morire. Con l'avvento del Nuovo Mondo e, pochi secoli dopo, con l'emergere delle «razze industrializzate», essenzialmente abbiamo scelto, in una sorta di vicariato ontologico, di delegare ad altri la nostra morte, e di rendere l'esistenza stessa una grande festa di sacrificio. In breve tempo, tuttavia, non sarà più possibile continuare a delegare la nostra morte all'altro. Quest'ultimo non morirà più al nostro posto. Ma non saremo solo condannati ad assumere, senza alcuna mediazione, quella che è la nostra stessa morte. Ci saranno sempre meno possibilità di commiato. Quello che si avvicina è il tempo dell'autofagia e, con essa, la fine della comunità, dal momento che non esiste quasi più una comunità degna di questo nome, in cui e dalla quale commiatarsi, vale a dire che non è più possibile rievocare ciò che è vivo. In quanto la comunità, o per meglio dire ciò che è comune, non si basa solo sulla possibilità di dire addio, cioè di avere quello che è un incontro unico con gli altri e tornare occasionalmente ad onorare tale incontro. Ciò che è in comune si basa anche sulla possibilità di condividere in maniera incondizionata - e sul fatto che, ogni volta, si può recuperare qualcosa di assolutamente intrinseco, ossia, qualcosa di incommensurabile, di incalcolabile e, pertanto, senza prezzo.

Il digitale, un nuovo buco scavato nel terreno da un'esplosione
Il cielo, chiaramente, continua ad oscurarsi. In trappola tra l'ingiustizia e la disuguaglianza, la maggior parte dell'umanità si trova ad essere minacciata di strangolamento, e continua a diffondersi la sensazione che il nostro mondo si trovi in uno stato di incertezza. Se, in queste condizioni, deve continuare ad esserci ancora un domani, difficilmente questo potrà essere a scapito di pochi, sempre gli stessi, come avviene nella Vecchia Economia. Dovrà esserci, necessariamente, per tutti gli abitanti della Terra, senza alcuna distinzione di specie, di razza, di sesso, di cittadinanza, di religione o di qualsiasi altro indicatore di distinzione. In altri termini, un futuro può esserci solo al prezzo di una gigantesca rottura, il prodotto di una immaginazione radicale. Non sarà sufficiente un semplice ripensamento. Al centro del cratere, dovremo letteralmente reinventare tutto, a cominciare dal sociale. Perché quando lavorare, fare scorta, ottenere informazioni, tenersi in contatto, coltivare e mantenere contatti, parlare e commerciare, bere insieme, celebrare il culto e organizzare un funerale può essere fatto solamente attraverso uno schermo, allora è arrivato per noi il momento di renderci conto che ci troviamo completamente circondati da cerchi di fuoco. In larga misura, il digitale è il nuovo buco, il cratere che l'esplosione ha scavato nel terreno. Esso è allo stesso tempo trincea, viscere e paesaggio lunare, è il bunker dove si invitano l'uomo e la donna isolati. Si ritiene che, per mezzo del digitale, il corpo in carne ed ossa, il corpo fisico e mortale verrà liberato dal suo peso e dalla sua inerzia. Al termine di tale trasfigurazione, si potrà finalmente essere in grado di attraversare lo specchio, finalmente affrancati dalla corruzione biologica e restituiti all'universo sintetico dei flussi. Un'illusione, dal momento che, così come non ci sarà umanità senza corpo, tanto meno l'umanità può essere libera da sola, al di fuori della società o a spese della biosfera.

Guerra al vivente
Pertanto, se nel perseguire la nostra stessa sopravvivenza, è indispensabile dare a tutti gli esseri viventi (inclusa la biosfera) lo spazio e l'energia di cui necessitano, allora dobbiamo cominciare daccapo. Nel suo versante notturno, la modernità dev'essere stata, dal principio alla fine una guerra interminabile contro ciò che è vivo. Ed è ancora lontana dall'essere finita. Una delle modalità di questa guerra, consiste nella sottomissione alla tecnologia digitale. Una guerra questa, che sta portando direttamente all'impoverimento del mondo e al prosciugamento di intere zone del pianeta. C'è da temere che alla fine di questa calamità, ben lungi dal santificare tutte le specie viventi, il mondo purtroppo entrerà in un nuovo periodo di tensione e di brutalità. A livello geopolitico, continuerà a prevalere la logia della forza e del potere. In assenza di un'infrastruttura comune, si accentuerà la feroce divisione del pianeta e si intensificheranno le linee di segmentazione. Nella speranza di riuscire a proteggersi dal mondo esterno, molti Stati cercheranno di rafforzare i propri confini. Ci saranno anche delle lotte per reprimere la loro violenza costitutiva, che come al solito eserciteranno al loro interno contro coloro che sono più vulnerabili. La vita dietro ai muri, in delle enclave protette per mezzo di compagnie di sicurezza private diverrà la norma. In Africa, in particolare, ed in molte parti di quello che è il Sud globale, continuerà l'estrazione intensiva di energia, la disinfestazione agricola e la predazione fatta in un contesto di accaparramento delle terre e della distruzione delle foreste. L'alimentazione ed il raffreddamento dei chip dei supercomputer dipende da questo. Fornire ed erogare le risorse e l'energia di cui necessita l'infrastruttura informatica globale, avrà il costo di limitare ulteriormente la mobilità umana. Mantenere a distanza il mondo, diverrà la norma, e questo al fine di espellere ogni tipo di minaccia. Ma questa visione catabolica del mondo, che non si cura della nostra precarietà ecologica, ispirata alle teorie dell'immunizzazione e del contagio, contribuirà assai poco a spezzare l'impasse globale in cui ci troviamo.

Il Diritto fondamentale all'esistenza
A proposito della guerra contro il vivente, possiamo dire che la sua proprietà principale è stata quella di averci lasciato senza fiato. In quanto principale impedimento alla respirazione e alla rianimazione dei corpi e dei tessuti umani, il Covid-19 segue la medesima traiettoria. Infatti, qual è lo scopo della respirazione, se non l'assorbimento di ossigeno ed il rilascio di anidride carbonica, ivi incluso lo scambio dinamico tra sangue e tessuti? Ma al ritmo della vita sulla Terra e considerando ciò che rimane della ricchezza del pianeta, forse poi non siamo così lontano dal momento in cui ci sarà più anidride carbonica da inalare, di quanto non ci sia ossigeno da respirare. Prima di questo virus, l'umanità era già minacciata di asfissia. Di conseguenza, se dev'esserci una guerra, allora questa non dev'essere tanto contro un virus in particolare, quanto piuttosto contro tutto ciò che condanna la più parte dell'umanità alla prematura cessazione della respirazione, contro tutto ciò che attacca per prime le vie respiratorie, contro tutto ciò che durante quello che è il lungo corso del capitalismo ha condannato, e confinato, interi segmenti di popolazioni e di razze ad una respirazione difficile ed ansimante, ad una vita gravosa. Ma per poter riuscire a venir fuori da questa situazione, bisogna ancora capire la respirazione, al di là di quello che sono gli aspetti puramente biologici, come qualcosa che ci è comune e che, per definizione, sfugge ad ogni calcolo. Così facendo, stiamo parlando di un diritto universale al respirare. Sotto quest'aspetto, riguardante sia la Terra che il nostro punto comune, il diritto universale alla respirazione non è quantificabile. Si tratta di un diritto che ha a che fare con l'universalità, non solo di ciascun membro della specie umana, ma di tutti gli organismi viventi nel loro insieme. Pertanto, va inteso come un diritto fondamentale all'esistenza. Come tale, non può essere oggetto di confisca e, quindi, non è soggetto ad alcuna sovranità, dal momento che esso riassume il principio sovrano in sé. È, inoltre, un diritto originario di abitazione della Terra, un diritto proprio della comunità universale degli abitanti della Terra, tanto gli esseri umano quanto gli altri. [*3]

Coda
Questa causa è stata dichiarata mille volte. Potremmo recitare ad occhi chiusi quelle che sono le principali accuse. Che si tratti della distruzione della biosfera, dell'accaparramento della mente da parte della tecnoscienza, della dissoluzione di ogni resistenza, dei ripetuti attacchi alla ragione, della cretinizzazione delle menti, dell'imporsi dei vari determinismi (genetico, neuronale, biologico, ambientale), i pericoli per l'umanità riguardano sempre più la sua esistenza. Di tutti questi pericoli, il più grande sta nel fatto che ogni forma di vita diventi impossibile. Tra quelli che sognano di scaricare la nostra coscienza ed installarla nelle macchine e quelli che sono convinti che la prossima mutazione della specie consista nella nostra liberazione da quella che è la nostra casa biologica, la distanza è insignificante. La tentazione eugenetica non è affatto scomparsa. Al contrario, ora è alla radice dei più recenti sviluppi e progressi della scienza e della tecnologia. In un tale contesto, quello che si è prodotto è un arresto improvviso, ma no della storia, bensì di qualcosa che è ancora difficile da capire. Dal momento che questa interruzione è stata forzata, essa non è il risultato della nostra volontà. Sotto molti aspetti, e in molti modi, è allo stesso tempo imprevista ed imprevedibile. Eppure ciò di cui abbiamo bisogno è proprio un'interruzione volontaria, consapevole e pienamente concordata, perché, diversamente, non ci sarà più alcun dopo. Ma avremo solamente una sequenza ininterrotta di eventi imprevisti. Se il Covid-19 non è stato altro che la drammatica espressione dell'impasse planetaria in cui si trova l'umanità, ecco che allora quello che è in gioco è, né più ne meno, la ricostruzione di una Terra abitabile, in modo che questa possa offrire a tutti la possibilità di una vita respirabile. Ragion per cui, pertanto, la sfida sarà quella di riconquista le fonti e le sorgenti del nostro mondo, con l'obiettivo di forgiare nuove terre. L'umanità e la biosfera sono collegate. Una non ha alcun futuro senza l'altra. Saremo capaci di riscoprire la nostra appartenenza alla medesima specie ed il nostro indissolubile legame con tutti gli esseri viventi? Potrebbe essere questa la domanda, finale, definitiva, prima che si chiuda la porta, una volta per tutte.

- Achille Mbembe - Pubblicato su Afribuku il 17 aprile 2020 -

NOTE:

[***] - [N.d.T.: Ontofania: Apparizione dell'essere, o meglio il suo apparire con pienezza. Il participio del verbo essere greco, "ontos" rimanda all'essere che è l'essere della realtà. Così con "ontofania" la filosofia delle religioni indica soprattutto l'apparizione dell'essere nel senso di creazione della materia prima, creata e creatrice.]

[*1] - Achille Mbembe & Felwine Sarr, "Politique des temps", Philippe Rey, 2019, pág. 8-9.

[*2] - Alexandre Friederich, "H+. Vers une civilisation 0.0", Editions Allia, 2020, pág. 50.

[*3] - Sarah Vanuxem, "La propriété de la Terre", Wildproject, 2018 ; y Marin Schaffner, Un sol commun. Lutter, habiter, penser, Wildproject, 2019.


fonte: Afribuku

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