domenica 17 agosto 2025

Traducibilità…

   Nel suo saggio "Sul dicibile e l'idea", contenuto nel libro "Che cos'è la filosofia?", Agamben si interessa di ciò che ... "quasi" si può dire o si può esprimere; quel punto in cui si annuncia... la "certezza", senza che tuttavia essa arrivi mai a completare definitivamente quel suo ciclo. Così, in tal modo, l'idea spinge il dicibile verso un'astrazione che riguarda il linguaggio. E tuttavia, questo linguaggio non si riferisce a un linguaggio specifico, quanto piuttosto alle possibilità relative a «tutti i nomi e a tutte le lingue». Come esempio, Agamben si avvale dello storico Arnaldo Momigliano, e si riferisce alla sua idea secondo cui «il limite dei Greci, consisteva nel fatto che non conoscevano le lingue straniere»; cosa che, peraltro, costituisce anche il limite di ogni pensiero unilaterale. Ed è per questo motivo che Agamben propone l'ipotesi secondo la quale  il dicibile - «l'elemento linguistico proprio dell'idea» - non sia semplicemente il «nome», ma piuttosto la traduzione, «o ciò che in esso è traducibile». Pertanto, la traduzione emerge come se quello fosse un compito allo stesso tempo etico ed estetico, che attraversa i diversi ambiti che regolano la convivenza degli esseri in comunità. Però, la traduzione si sviluppa anche lungo un paradosso: noi comprendiamo il senso generale di un testo – la trama di romanzi quali Don Chisciotte o Moby Dick, per esempio – proprio allorché ne leggiamo una traduzione; ma, attraverso la lettura, quel che "capiamo" è anche che nessuna di quelle parole è stata scritta dall'autore. La consapevolezza della "artificialità" della traduzione, tuttavia, non impedisce al lettore di godere del testo, e di portarlo con sé per il resto della propria vita, cucendolo alla propria soggettività (come fece Jorge Luis Borges, il quale, da bambino, lesse per la prima volta il Chisciotte in inglese, e poi in seguito ebbe a dichiarare come fosse stato invece l'originale spagnolo a essergli sempre sembrato una traduzione).

   Per Agamben (sempre in questo saggio "Sul dicibile e l'idea"), è la "traducibilità"a garantire il movimento del pensiero nel tempo, ponendolo all'incrocio di una possibilità e di una impossibilità, e situandolo così «sulla soglia che unisce e divide i due piani del linguaggio»; quello semiotico e quello semantico (il piano della materialità e il piano del significato). Ed è stato per questo motivo che Walter Benjamin ha sempre sottolineato la "rilevanza filosofica" della traduzione; cosa che poi Agamben sviluppa in dettaglio. La possibilità di tradurre costituisce, in larga misura, un atteggiamento verso il mondo e verso l'altro, verso il diverso, verso il lontano (ed ecco perché, per il Novecento, il caso di Joseph Conrad è paradigmatico e suscita così tanti commenti e riutilizzi narrativi). In quest'ottica, ecco che la "traducibilità" fa parte della consapevolezza che dobbiamo avere a proposito del fatto che la mia lingua non è il centro del mondo; ovvero, non è l'istanza regolatrice degli affetti e degli orizzonti: riconosco i limiti del mio mondo esercitando il desiderio di tradurre ciò che ancora non conosco. È pertanto, a questo punto della traducibilità che si trovano le riflessioni di Agamben su Hölderlin e sulla lingua, pur provenendo esse da dei contesti e da delle pubblicazioni diverse: ciò perché è anche a partire dalla traduzione che Hölderlin si situa di fronte al proprio tempo; oltre che a una contemporaneità obbligatoria nei confronti di alcune figure dello stesso periodo (Hegel, Napoleone), Hölderlin stabilisce - attraverso la traduzione - una contemporaneità all'antichità che non è contemporanea; nello specifico quella a Pindaro e Sofocle.

fonte: Um túnel no fim da luz

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