venerdì 16 maggio 2014

La camicia dell’artigiano

jappecamicia

Qualche buona ragione per liberarsi dal lavoro
di Anselm Jappe

Cosa vuol dire "liberarsi dal lavoro"? "Come potremmo vivere senza lavorare?" Bisogna lavorare per guadagnarsi da vivere, a meno di non sfruttare gli altri. La società stessa deve lavorare per trovare le risorse. Sembra perciò che tutto ciò di cui abbiamo bisogno per vivere esista solo grazie al lavoro. Una critica del lavoro in quanto tale appare fantasioso quanto la critica della pressione atmosferica o la critica della forza gravitazionale. Il lavoro sarebbe questa cosa a volte spiacevole cui non ci possiamo sottrarre e di cui possiamo liberarci.
Evidentemente, questa sera difenderò un altro punto di vista. Il punto di vista che condivido con la Teoria della critica del valore, elaborato negli ultimi anni dalla rivista tedesca "Krisis", ma che condivido anche con altri autori in altri paesi. Questa critica si basa su una critica del lavoro, il lavoro concepito come categoria tipicamente capitalista, come il cuore stesso della società capitalista. Faccio qui la distinzione fra "lavoro" ed "attività": criticare l'attività umana non avrebbe alcun senso. L'essere umano è sempre attivo, in una maniera o nell'altra, per organizzare "lo scambio organico con la natura" come scriveva Marx, cioè a dire trarre dalla natura i suoi mezzi di sostentamento. Ma ciò che oggi, e da circa 200 anni, chiamiamo "lavoro" è una cosa ben distinta dall'attività, e dall'attività produttiva. La parola "lavoro" designa delle cose molto differenti, molto diverse, ma allo stesso tempo esclude numerose attività: cuocere del pane, guidare un'automobile, scavare la terra, digitare su una tastiera, tenere una conferenza ... sono delle attività considerate come lavoro perché si traducono in una certa somma di denaro, in quanto possono essere vendute e comprate sul mercato. Ma che cosa accade col settore domestico, tradizionalmente lasciato alle donne: prendersi cura dei bambini, delle persone anziane, tutte quelle attività che non danno soldi?
Il concetto di lavoro è dunque qualcosa che separa una parte delle attività umane all'interno di un insieme, escludendone per esempio il gioco, i riti, gli scambi direttamente sociali, tutta la riproduzione cosiddetta privata o domestica.
E' significativo che la parola "lavoro", nel senso moderno del termine, non esisteva né in greco, né in latino, né in altre lingue. L'origine della parola "travail" deriva dal latino "tripalium", uno strumento a tre piedi che veniva utilizzato, alla fine dell'Antichità, per torturare i servi in rivolta che non volevano più lavorare. A quei tempi, c'erano molte persone che non lavoravano, a meno che non fossero forzati a farlo con la tortura. Questa parola "lavoro", che non appartiene al latino classico, ma che è apparsa nel Medioevo, non si riferiva ancora all'attività in quanto tale, utile e produttiva, ed ancor meno al rispetto e alla realizzazione di sé, bensì indicava qualcosa di doloroso e che veniva ottenuto con la forza, e qualcosa che non aveva un contenuto preciso. E' lo stesso per la parola latina "labor", la quale designa all'origine un peso sotto il quale si barcolla ed indica ogni genere di pena o di fatica, compreso il dolore della partoriente, e niente affatto un'attività utile. In tedesco, "Arbeit" designa l'attività dell'orfano, quella di cui nessuno si interessa, costretto alle attività più faticose per poter sopravvivere. Ho appreso ieri che la parola basca che traduce l'idea di lavoro evoca anch'essa la fatica, la pena. Questa non è un'escursione gratuita nell'etimologia (pur significativa), ma dimostra che la nozione di lavoro, così come lo concepiamo oggi, è relativamente recente. Ne consegue che il lavoro in quanto categoria sociale, concetto di attività nella società, non è qualcosa di così naturale, di così evidente, di così consustanziale all'essere umano, ma è piuttosto un'invenzione sociale.
Nella società pre-capitalista industriale, le attività non sono altro che una risposta ad un bisogno: alcune possono essere assurde, come quella dei faraoni che facevano costruire le piramidi. Si determinavano i bisogni, e poi si mettevano all'opera le attività necessarie per rispondere: le attività esistevano come mezzo per soddisfare questi bisogni. Ciò che interessava alla società, non era l'attività, era il risultato: non era il fatto che si scavasse la terra, ma era il grano che si voleva raccogliere. Ed è anche la ragione per cui si cercava di fare eseguire le attività più faticose a degli schivi o a dei servi. Non si facevano lavorare quest'ultimi per "lavorare", ma perché i padroni volevano avere il godimento dei beni terreni.
Il mondo capitalista ha cambiato questo dato: dalla fine del Medioevo in alcuni luoghi, e soprattutto nel corso dell'emergere della società capitalista, nella seconda metà del XVIII secolo, il lavoro è diventato il vero fine della società, e non più un mezzo. Sulla scala della storia mondiale, è uno dei cambiamenti più importanti: la società capitalista è l'unica società nella storia umana per la quale la sola attività produttiva, o quello che può essere chiamato lavoro, non è più solo un mezzo per raggiungere un fine, ma diviene un fine auto-referenziale. In effetti, tutto il lavoro nella società capitalista è ciò che può essere chiamato un lavoro astratto, nel senso di Marx. Non si tratta di lavoro immateriale, come nell'informatica. Nel primo capitolo del Capitale - che non comincia con le classi, né con la lotta di classe, né con la proprietà dei mezzi di produzione, né con il proletariato  -Marx comincia ad analizzare le categorie che, secondo lui, sono le categorie fondamentali della società capitalista, e che non appartengono altro che ad essa: sono la merce, il valore, il denaro ed il lavoro astratto. Per Karl Marx, tutto il lavoro, in un regime capitalista, ha due facce: esso è allo stesso tempo lavoro astratto e lavoro concreto. Non ci sono due diversi tipi di lavoro, ma due facce di una sola attività. Per fare un esempio molto semplice: il lavoro del falegname, del sarto, sono, dallato concreto, delle attività molto diverse, che non possono essere comparate dal momento che una utilizza i tessuti e l'altra il legno. Ma tutt'e due sono "un dispendio di muscoli, di nervi, o di cervello". Ogni lavoro è allo stesso tempo anche un dispendio di energia umana. Questo è sempre vero, ma è solo nella società capitalista che questo dispendio di attività. di energia umana, diventa l'aspetto più importante a livello sociale, perché è uguale in tuti i lavori e in tutte le merci. Poiché, se tutte le attività possono essere ridotte ad un semplice dispendio di energia, questo dispendio di svolge nel tempo. In tale prospettiva, il lavoro del sarto e quello del falegname sono completamente differenti, sotto l'aspetto concreto; ma sotto l'aspetto astratto - sotto l'aspetto dell'energia spesa - sono assolutamente uguali e l'unica differenza risiede nella loro durata, e dunque nella loro quantità.
Se un tavolo viene fatto in due ore di lavoro, ha un valore doppio rispetto ad una camicia che il sarto è riuscito a cucire in una sola ora. In realtà, la cosa è molto più complicata, perché oltre al lavoro diretto del falegname, ci sono i materiali utilizzati. Ciò che definisce il valore delle merci sul mercato capitalista, è il lavoro speso. Questo perché il lavoro è comune a tutte le merci e ne permette il raffronto. In modo semplificato, la logica di base di Marx è questa: il valore di una merce viene determinato dal tempo di lavoro necessario a creare tale merce; ciò permette l'astrazione dell'aspetto concreto della merce: un tavolo vale due ore, una camicia vale un'ora. Rimane il fatto che la merce deve soddisfare un bisogno, altrimenti non verrebbe venduta. Benché si possa creare il bisogno successivamente. La necessità, il bisogno, non determinano il valore della merce: questo dipende esclusivamente dal tempo di lavoro che è stato speso. Il solo lavoro che conta nel sistema capitalista, è il lavoro astratto, un lavoro assolutamente indifferente al contenuto e che si interessa solo alla sua propria quantità. Ciò che conta, sul mercato capitalista, è che ci sia la più grande quantità di lavoro disponibile per poterlo vendere. Questa quantità di lavoro si traduce nel valore, e il valore nel denaro. Infatti, per il mercato non importa che si tratti di un tavolo o di una camicia. L'importante è che il tavolo possa costare cento euro e la camicia dieci euro. Ogni merce corrisponde ad una quantità di denaro. Perciò, davanti al denaro tutte le merci sono uguali. In ultima analisi, il denaro non è altro che il rappresentante del lavoro speso per la produzione, rappresenta il lavoro astratto.
Se voglio investire capitale e la fabbricazione di bombe rappresenta una quantità più grande di lavoro rispetto alla fabbricazione di pane, allora investirò nelle bombe. Non si tratta di cattiveria psicologica o morale da parte del proprietario di capitale; quella possiamo anche aggiungerla, ma non sta alla radice. In quanto tale, il capitalismo del sistema è "feticista", come dice Marx, cioè a dire è un sistema automatico, anonimo, impersonale dove le persone devono soltanto eseguire le leggi del mercato. Le leggi del mercato dicono che bisogna perseguire la maggior quantità di denaro, sotto pena di essere eliminati dalla concorrenza. E la più grande quantità di denaro, vuol dire che bisogna mettere sul mercato la più grande quantità di lavoro, perché il lavoro dà il valore ed il profitto non si crea altro che per mezzo di quello che Marx chiama plus-valore: si tratta solo di una parte del lavoro dei lavoratori - quello che non viene pagato e torna al proprietario de capitale che fa il suo profitto sul plus-valore - e che è anche una parte del valore.
Dunque, cosa deve fare il proprietario di capitale? Ha una somma di denaro, con cui compra la forza lavoro, le risorse naturali e le macchine; fa lavorare l'operaio, poi trattiene il prodotto. Ma qui c'è una differenza molto importante con tutti gli altri tipi di società. Naturalmente, il proprietario di capitale non farebbe questo investimento se, alla fine del processo, non raccogliesse una somma di valore più grande di quella con cui e partito. Investire i suoi soldi, vuol dire investire diecimila euro per ottenere alla fine dodicimila euro; altrimenti non c'è alcun senso dal punto di vista capitalista. Perciò l'aspetto astratto vince su quello concreto. Poiché, sempre semplificando, se in un altro tipo di società, e in uno scambio concreto fra il falegname ed il sarto per esempio, non è il rapporto di valore che conta, visto che il falegname non ha bisogno di un altro tavolo e può quindi scambiarlo con la camicia che lui non può fare, ma che il sarto gli dà. Laddove invece, al contrario, il fine della produzione è quello di trasformare una somma di denaro in una somma di denaro più grande, non c'è questo interesse per il bisogno, ma solo l'interesse per una crescita quantitativa. Se scambio una camicia contro un tavolo, non ho bisogno di una crescita quantitativa, la cosa importante è soddisfare tutti i bisogni.
Quando il fine della produzione è il denaro, è diverso. Non c'è alcun fine concreto: il solo fine è quantitativo e si cerca di aumentarlo, dunque a trasformare dieci in dodici, poi dodici in quattordici, quattordici in venti, ecc..C'è una differenza enorme fra la società capitalista e tutte le società che l'hanno preceduta. La società capitalista non ha la vocazione di essere ingiusta e di impegnarsi nello sfruttamento: le altre società lo sono state ugualmente, ma erano società più o meno stabili, perché cercavano innanzitutto di soddisfare i bisogni, per lo meno i bisogni dei padroni, e questo significa che ogni scopo specifico è limitato - non si può mangiare per tutto il tempo, qualsiasi attività concreta ha un suo limite.
Nel caso si un'attività puramente calcolatrice, quantitativa, come l'aumento del capitale, del denaro, nella misura in cui non c'è alcun limite naturale, diventa un processo senza fine, indotto dalla concorrenza che si oppone al limite e spinge verso l'aumento permanente del capitale: lo fa ogni proprietario di capitale, senza alcun riguardo per le conseguenze ecologiche, umane, sociali, ecc. Niente di nuovo sotto il sole, non faccio altro che riassumere la teoria di Marx. Ma quest'aspetto di Marx è meno conosciuto di quello della lotta di classe.

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Il capitale è denaro accumulato. Il denaro è il rappresentante più o meno materiale del valore, ed il valore lo è del lavoro. Il capitale non si oppone al lavoro, esso è lavoro accumulato: accumulare capitale, significa accumulare lavoro morto, lavoro già passato, che crea valore. Questo, trasformato in denaro, viene in seguito reinvestito nei cicli produttivi, perché un proprietario di capitale ha interesse a far lavorare il più possibile: se faccio un certo profitto impiegando un operaio, lo faccio doppio impiegandone due, e se ne impiego quattro, faccio quattro volte lo stesso profitto, se tutto va bene.
Ciò significa che il proprietario di capitale ha tutto l'interesse a far lavorare il più possibile, indipendentemente dai bisogni esistenti, di far lavorare per lavorare, perché è solo facendo lavorare che si accumula capitale. I bisogni si possono creare dopo, eventualmente. Perciò, la società del capitale non è solo la società dello sfruttamento del lavoro altrui, ma è anche una società in cui è il lavoro ad essere la forma della ricchezza sociale. L'accumulazione di oggetti concreti, di beni d'uso, che è ben reale nella società capitalista industriale, in un certo modo è solo un aspetto secondario, dal momento che tutto l'aspetto concreto della produzione è solo una specie di pretesto per far lavorare.
Si può dire perciò che il lavoro è una categoria tipicamente capitalista, che non è sempre esistita. Prima della comparsa del capitalismo, e fino alla Rivoluzione francese, un giorno su tre era un giorno di festa; anche i contadini, se lavoravano molto in certi periodi dell'anno, lavoravano molto meno negli altri. Col capitalismo industriale, il tempo di lavoro è raddoppiato, o triplicato in qualche caso,. All'inizio della rivoluzione industriale, si lavorava dalle 16 alle 18 ore al giorno, come riporta Dickens nei suoi romanzi.
Oggi, in apparenza, si lavora meno, 40, 35 ore la settimana, che potrebbe corrispondere alle ore di lavoro della società pre-industriale, anche se questa non faceva differenza fra lavoro e non-lavoro. Però, se si tiene conto della densità del lavoro (che è enormemente aumentata), non è certo che oggi si lavori meno che nel diciannovesimo secolo.
La prima fabbrica a stabilire la giornata di 8 ore, non lo fece sotto la pressione del movimento operaio, né per filantropia socialista, ma fu il famoso Henry Ford, quello che aveva impiantato la più grande fabbrica di automobili degli Stati Uniti. All'inizio del XX secolo, Ford introdusse la giornata di otto ore ed un aumento massiccio dei salari, insieme alla taylorizzazione: l'organizzazione scientifica di ciascun movimento - la famosa catena automatica - che permetteva di far costruire più vetture in otto ore di quanto se ne costruivano in dodici ore con la vecchia organizzazione.
Ogni riduzione del tempo di lavoro si accompagnava ad un aumento dei ritmi. Anche oggi, è evidente che il lavoro tende in generale a traboccare fuori dal suo quadro temporale, una volta che si è stabilita la settimana di quaranta o di trentacinque ore, perché in questi tempi di disoccupazione, se non si vuole rischiare di perdere il proprio lavoro, bisogna continuare a lavorare, anche quando si è tornati a casa: bisogna fare la formazione continua, bisogna informarsi o fare dello sport per poter rimanere sempre in forma per il lavoro ...
Quindi, anche se in teoria la settimana lavorativa dura 35 o 40 ore, la nostra realtà è molto più determinata dal lavoro di quanto lo fosse nelle società precedenti. C'è dunque questo paradosso per cui, con tutti i mezzi di produzione inventati dal capitalismo, si lavora sempre di più. E' uno dei fattori, così semplice ed evidente, di cui dimentichiamo sempre di parlare. Il capitalismo è sempre stato una società industriale. Ha cominciato con la macchina a vapore, con i telai per la tessitura, poiché ogni invenzione tecnologica utilizzata dal capitalismo era sempre volta a rimpiazzare il lavoro vivo con delle macchine, o a consentire ad un operaio di fare dieci volte di più di un artigiano. Questo vuol dire che ogni tecnologia capitalista è una tecnologia per economizzare lavoro. E perciò per produrre con molto meno lavoro, lo stesso numero di cose che si producevano prima.
Qual è il risultato?
Lavoriamo sempre di più, questa è la realtà che viviamo da 250 anni! Infatti, un economista del XIX secolo che non può essere sospettato di essere un grande critico del capitalismo, John Stuart Mill, aveva già detto che nessuna invenzione per economizzare lavoro avrebbe mai permesso a nessuno di lavorare meno. Più ci sono macchine che economizzano lavoro, più bisogna lavorare. E questo è del tutto logico, perché se in una società che vuol soddisfare dei bisogni concreti ci sono delle possibilità tecnologiche per produrre maggiormente, questo vuol dire che tutta la società deve lavorare meno, oppure, si possono anche aumentare un poco i consumi materiali, si può produrre di più sempre lavorando poco. Nella società capitalista che non ha alcun fine concreto, che non ha nessun limite, nessuna cosa concreta verso cui tendere, ma dove il solo fine è quello di aumentare la quantità di denaro, è dunque del tutto logico che ogni invenzione che aumenti la produttività del lavoro abbia come risultato quello di far lavorare gli esseri umani ancora di più. Non occorre sottolineare ulteriormente le conseguenze catastrofiche di una tale società. E' questa la spiegazione della crisi ecologica, la quale non è dovuta ad un'avidità naturale dell'uomo che vuole possedere sempre di più, e che non è dovuta nemmeno al fatto che si siano troppi essere umani al mondo. La ragione più profonda della crisi ecologica è, anche qui, la crescita della produttività del lavoro. Poiché, in una logica di accumulazione del capitale, quello che importa è solo la quantità di valore contenuta in ciascuna merce. Se un artigiano ha bisogno di un'ora per fare una camicia, questa camicia vale un'ora, sul mercato. Se con una macchina, lo stesso operaio può fare dieci camicie in un'ora  -ciascuna camicia richiede solo sei minuti di lavoro, e la camicia varrà solo sei minuti. E perciò, il profitto per il proprietario di capitale è di due minuti per ogni camicia. Questo significa che per fare lo stesso profitto che faceva prima, ora deve far produrre e vendere dieci camicie, in luogo dell'unica camicia di prima. L'accresciuta produttività del lavoro nel sistema capitalista spinge ad aumentare sempre, in modo assoluto, la produzione di beni concreti al di là di qualsiasi bisogno concreto. E dopo si crea artificialmente il bisogno, di modo da riuscire a smaltire tutta questa merce. Si tratta di un processo inevitable, dal momento che qualsiasi invenzione riduce il lavoro necessario, e quindi riduce il profitto che risiede in ciascuna merce. Perciò, bisogna produrre sempre più merci.
Una società nella quale il lavoro è il bene supremo, è una società con conseguenze catastrofiche, soprattutto sul piano ecologico. La società del lavoro è sempre meno vivibile per gli individui, per la società e per il pianeta intero. Ma questo non è tutto. Perché la società del lavoro, dopo più di duecento anni di esistenza, fa sapere ai suoi membri in concorrenza fra di loro: "Non c'è più lavoro." Abbiamo una società del lavoro, dove per vivere bisogna vendere la propria forza lavoro se non si è proprietari di capitale, che non vuole più questa forza lavoro, che non gli interessa più. Dunque, la società del lavoro che abolisce il lavoro. La stessa società del lavoro che ha usato il suo bisogno di lavoro rendendo il fatto di dover lavorare, una condizione assolutamente necessaria per poter accedere alla ricchezza sociale.
Non si tratta di un caso - poteva già essere previsto fin dall'inizio del capitalismo - poiché nel lavoro capitalista c'è questa contraddizione fondamentale: da un lato, il lavoro è la sola fonte di ricchezza, e dunque, per un proprietario di capitale, è meglio far lavorare due operai piuttosto che uno solo, e quattro, piuttosto che due. Dall'altro lato, se si dà una macchina ad un operaio, questo produrrà molto più di un operaio che non ha una macchina - dunque più di un artigiano - e le merci prodotte si potranno vendere meglio sul mercato. Questo è stato evidente soprattutto all'inizio del capitalismo, per esempio quando gli inglesi, con i tessuti, gli abiti, hanno conquistato il mondo, perché sicuramente, con la produzione industriale, si poteva facilmente eliminare tutta la produzione artigianale. Ciò significa che ciascun proprietario di capitale ha tutto l'interesse a fornire il massimo di tecnologia ai suoi operai, e dunque a ridurre il numero di operai, sostituendoli con le macchine. Quando appare una nuova tecnologia, questa dà un grande vantaggio, sul mercato, ai primi proprietari di capitale che la impiegano, dal momento che permette loro di vendere a prezzi più bassi.Tuttavia, la concorrenza andrà a cancellare questi vantaggi, perché tutti i proprietari di capitale si doteranno di queste macchine, se possono; poi, un'altra macchina verrà immediatamente lanciata sul mercato, e ripartirà il processo.

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Questo vuol dire che tutta la storia del capitalismo è la storia della sostituzione del lavoro vivente, del lavoro umano, per mezzo delle macchine, e questo vuol dire anche che il sistema capitalista, fin dall'inizio, mina le sue proprie basi, sega il ramo sul quale sta seduto. E' una contraddizione alla quale il sistema capitalista non può sfuggire, perché è un sistema di mercato necessariamente basato sulla concorrenza: i capitalisti non possono fare accordi fra di loro perché la concorrenza non abbia luogo. Non possono dire: "Fermiamo questa corsa alla tecnologia per poter fermare questa caduta dei profitti." Perché il capitalismo è una società competitiva: c'è sempre qualcuno che utilizza delle nuove tecnologie. Perciò, questo processo continua sempre: la forza lavoro viene sostituita da delle macchine che non producono valore. Di conseguenza, se per un artigiano, una camicia, può rappresentare un'ora di lavoro, con la rivoluzione industriale una camicia può rappresentare solo sei minuti di lavoro, perché con una macchina si producono dieci camicie in un'ora. Se oggi, grazie all'informatica, si possono fare cento camicie in un'ora, ciascuna camicia rappresenterò solo un centesimo. Dunque, se ciascun prodotto rappresenta una quantità minore di valore, ciò vuol dire che esso rappresenta una quantità minore di plusvalore, e quindi di profitto per il proprietario di capitale. Si tratta di quello che Karl Marx ha chiamato "caduta tendenziale del saggio di profitto": cioè a dire che ciascuna merce è sempre meno redditizia per il proprietario di capitale che la fa produrre. Tale tendenza, che è inevitabile a causa della concorrenza, viene contrastata da un'altra tendenza, storicamente attestata, che fa sì che se ciascuna mrece dà meno profitto perché manca di valore, si può aumentare la quantità di prodotti, in modo che se una camicia rappresenta solo 6 minuti e però io vendo 11 camicie, realizzo un profitto maggiore rispetto a prima, compreso quello proveniente dall'ora di lavoro dell'artigiano. Questo è ciò che, storicamente, è accaduto. C'è stato un aumento continuo della quantità assoluta di merci, che ha rappresentato anche un aumento assoluto della massa di valore, il quale ha compensato, e persino sovra-compensato, il fatto che ciascuna merce particolare rappresentasse meno lavoro. E' stato nell'industria dell'automobile che questo fatto ha assunto una proporzione maggiore: un prodotto di lusso, che richiede più lavoro e che domanda più lavoratori, è stato trasformato in un prodotto di massa, e questo ha permesso l'estensione di un grande circuito di produzione, ed in seguito di consumo. Questo è stato il periodo dei "gloriosi trenta", che viene giustamente chiamato "epoca fordista". Per un secolo e più, questa tendenza inevitabile nello sviluppo capitalista ha diminuito il valore. La diminuzione del valore di ciascun prodotto è stata contrastata dall'aumento della massa della produzione. Questo salvagente si è definitivamente sgonfiato, oggi possiamo dirlo, con la rivoluzione microelettronica. I processi dell'informatica hanno dato un tale colpo di acceleratore alla tecnologia che si è potuto economizzare molto più lavoro, e molto più rapidamente, di quanto se ne riuscisse a ricreare negli altri settori. E' un ftto che si è potuto osservare per più decenni. Si può anche dire che oggi non si tratta solamente dell'innovazione dei prodotti, ma anche dell'innovazione dei processi che sono talmente rapidi da rendere impossibile qualsiasi compensazione. Il processo informatico, in quanto tale, richiede molto poco lavoro ed è riuscito ad aumentare enormemente la produttività del lavoro, utilizzando un numero sempre più ridotto di lavoratori. Per esempio, il numero di persone impiegate nell'industria nei grandi paesi europei si è pressoché dimezzata in rapporto agli anni 1970: allo stesso tempo, la produttività è aumentata, credo, del settanta per cento, secondo i dati che ci vengono forniti. Voi tutti sapete che questi nuovi processi tecnologici hanno permesso di ridurre il numero di lavoratori produttivi dal momento che consentono, allo stesso tempo, di aumentare la produttività. Ad un tale stadio, si possono fare un paio di considerazioni: non è vero che il lavoro industriale produttivo diminuisca, e che sia solo stato delocalizzato in altri luoghi, per esempio in Asia. Se ne può discutere a lungo, ma mi sembra evidente che queste delocalizzazioni, in generale, riguardano solo alcuni settori, soprattutto quello tessile, e in alcuni paesi solo per un periodo di tempo molto limitato. Quelle che vengono chiamate "Tigri asiatiche" hanno già raggiunto i loro limiti. Per esempio, non si è riuscito ad impostare un nuovo modello di capitalismo che si estenda a tutti i settori produttivi nel paese intero, ecc.. Si dice che la Cina sarà il futuro del capitalismo. Ma forse dimentichiamo che ci sono certe regioni, in Cina, o certi settori industriali, dove si impiegano molte persone a salari troppo bassi. Allo stesso tempo, centinaia di milioni di persone perdono il loro impiego tradizionale, nell'industria pesante tradizionale o nell'agricoltura, ecc.. Perciò, penso che si possa tranquillamente affermare che nel mondo intero, e non solo nei paesi europei, c'è sempre una diminuzione continua della forza lavoro, della forza lavoro impiegata. E alla lunga, anche nei paesi a basso salario, i processi informatici diverranno più concorrenziali dello sfruttamento. D'altra parte, si dice che si perdono molti posti di lavoro nell'industria, ma che vengono ricreati in altri settori, nei settori dei servizi, ecc.. Ma possiamo constatare che questo già non è più vero, che da qualche anno si tratta di un'illusione. La disoccupazione, adesso, aumenta enormemente anche nel settore dei servizi e, ad esempio, la "new economy" che ci era stata promessa su Internet, non è mai decollata perché lì ci sono settori che impiegano solo pochissime persone. D'altra parte, bisogna anche dire che ciò che interessa alla società capitalista, non è solo il lavoro in quanto tale, ma il lavoro produttivo di valore, per cui il proprietario di capitale non vuole solo far lavorare, ma vuol far lavorare di modo da ricostituire il suo capitale. Se il proprietario di capitale paga degli operai per lavorare in una fabbrica, per esempio, dopo può rivendere i prodotti e ricostruire il suo capitale per mezzo dell'accumulazione. Se lo stesso proprietario di capitale utilizza il suo denaro per mantenere molti servitori a casa sua, egli semplicemente spende il suo capitale che non darà profitti. Perciò, questo genere di lavoro, tutto il lavoro dei servizi in generale, non è per niente produttivo in senso capitalista, e questo non solo su scala individuale, ma anche su scala sociale. Così, i lavoratori - che sono anche spesso i lavoratori più utili per la società, per esempio quelli nel settore sanitario, dell'educazione, ecc. - che sono pagati dallo Stato, ma anche quelli nel settore degli armamenti ecc., non svolgono un lavoro produttivo in senso capitalista, poiché il denaro viene solo semplicemente speso. Non c'è ritorno di capitale. Possiamo dire che oltre la disoccupazione che si vede tutti i giorni, c'è qualcosa di ancora più drammatico: la diminuzione di lavoro produttivo di capitale nella società. Perché nella società capitalista, i servizi vengono generalmente pagati dalle imposte e dal fatto che ci sono ancora dei processi produttivi reali sui quali lo Stato può prelevare delle imposte. Se non c'è più una produttività di questo genere, allora lo Stato non può riscuotere le tasse, e la società dei servizi, di cui i sociologhi hanno tanto parlato, arriva velocemente alla sua fine. Si può dunque tranquillamente affermare che è il capitalismo tutto intero che vive una situazione di crisi. Non sono per niente d'accordo con quelli che dicono si trova più che mai in buona saluta, che è la società, o sono gli individui, ad andar male e che ci sono ancora delle multinazionali, delle imprese, che realizzano dei buoni profitti. Se lo fanno, è solo sulla carta, perché già una parte della ricchezza viene prodotta unicamente nei circuiti finanziari, i quali esistono solo nei bilanci. L'intero sistema capitalista, tutte le possibilità di usare il suo capitale per sfruttare un lavoro che possa in seguito essere rivenduto per aumentare il capitale, tutto ciò che è stata la base del capitalismo sembra essere in una grave crisi. E questa non perché essa sia stata suscitata dai suoi nemici implacabili, non perché ha creato un proletariato la cui forza avrebbe potuto vincerlo, com'è stata a lungo la speranza del movimento operaio, ma perché il capitalismo è naufragato da solo, non per una volontà suicida immediata, ma perché stava scritto nel suo codice genetico, fin dal momento della sua nascita: in una società che aveva posto il lavoro astratto come fonte di ricchezza, esisteva già un contenuto, una dinamica, che doveva, un giorno o l'altro, portare alla situazione attuale. Una situazione dove il lavoro crea la ricchezza ma in cui il sistema produttivo non ha più bisogno di lavor. La situazione è paradossale: la produttività su scala mondiale causa la miseria. E' talmente paradossale che spesso ci si dimentica perfino di vederlo, come tutte le cose che sono talmente evidenti da essere persi di vista.
Dunque, per 200 anni, si è vista un'esplosione di possibilità produttive come mai prima erano apparse nella storia. Ma un'altra domanda sorge spontanea: "Tutte queste possibilità produttive sono sempre positive per l'umanità, e per il pianeta?" Penso che la maggior parte siano dannose. Si può però affermare che utilizzando le possibilità produttive esistenti, sarebbe possibile consentire a tutto il mondo di avere quel che è necessario lavorando molto poco. Ora, quello che succede va nel senso opposto: si sottrae la possibilità di vivere a coloro che non riescono a lavorare, e quelle poche persone che lavorano devono lavorare sempre più. E qui si pone la questione della condivisione, non quella di condividere il lavoro, come nello slogan "Lavorare tutti, lavorare meno", ma condividere la ricchezza che esiste nel mondo, tra tutti gli abitanti del mondo, non costringerli a lavorare quando questo non è affatto necessario. Con tutto ciò, non voglio fare l'elogio dell'automazione. Esiste anche una critica del lavoro che fa l'elogio dell'automazione, dicendo: "Ah, tutto il mondo potrebbe lavorare due ore al giorno, limitandosi a sorvegliare le macchine!" Penso che non sia questo il punto. Soprattutto, una società dell'automazione non avrebbe alcun senso se favorisse una sorta di società del tempo libero, dove, nel peggiore dei casi, il surplus di tempo porterebbe a guardare più a lungo la televisione. Come è successo con la settimana lavorativa di 35 ore, che probabilmente ha solo aumentato di 5 ore a settimana, il tempo che la maggior parte delle persone passa a guardare la televisione. La critica della società del lavoro non è per me un elogio dell'ozio. Molte attività, ed anche molte attività faticose, sono utili e possono costituire una sorta di dignità per l'essere umano. Molto spesso, è paradossalmente il lavoro, ad impedire l'attività, che impedisce la fatica. Così, ad esempio, il lavoro ostacola attività molto più utili: quando le famiglie sono obbligate a lasciare i loro figli neonati nei nidi, quando non ci può occupare delle persone anziane, ecc.. E il sistema di lavoro impedisce anche delle attività direttamente produttive, come per esempio l'agricoltura nel mondo intero. Ci sono molti contadini che devono abbandonare la loro attività, e questo non per delle ragioni naturali: non perché i loro terreni si sono esauriti, ma semplicemente perché il Mercato, dunque il sistema di lavoro, impedisce ai paesi africani di vendere i loro prodotti sui mercati locali. Perché ci sono le multinazionali dell'agricoltura che possono vendere a prezzi più bassi grazie al fatto che impiegano meno lavoro astratto. E' evidentemente l'agricoltore americano quello che ha fatto più ricorso alle tecnologie; le sue merci contengono dunque meno lavoro e vengono vendute ad un prezzo più basso di quelli degli agricoltori del Terzo Mondo. Questo è un buon esempio di lavoro, sia dal lato concreto che da quello astratto. Dal lato del lavoro concreto: il piccolo contadino in Africa può fare lo stesso lavoro che faceva trent'anni fa, perché il lavoro concreto è rimasto lo stesso. Dal lato del lavoro astratto, il suo lavoro tradizionale vale molto meno di prima perché degli imprenditori sono riusciti, grazie alla concorrenza, a fare lo stesso lavoro, ad avere lo stesso prodotto, spendendo molto meno lavoro, molto meno tempo di lavoro. Quindi, possiamo dire, molto concretamente che è il lato astratto del lavoro ad uccidere le persone, ad uccidere il portatore dell'attività concreta.

- Anselm Jappe - testo di una conferenza tenuta nel gennaio del 2005 a Bayonne, nel quadro di un Social Forum dei Paesi Baschi -


Fonte: Critique Radicale de la Valeur

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