Negli ultimi vent'anni i colossi del settore digitale sono progressivamente riusciti a concentrare sui loro server una quantità di dati impressionante. Questi monopoli di informazioni, se possono far bene agli azionisti di Facebook, di Amazon e di Google, fanno invece male al progresso. Che si tratti di sconfiggere il coronavirus, di far funzionare i treni in modo puntuale o di combattere con successo la povertà, è indispensabile che i dati siano accessibili a tutti: dagli scienziati ai cittadini che lavorano, dalle startup innovative alle aziende tradizionali, da chi si occupa di politiche sociali alle ong. È arrivato dunque il momento di obbligare le superstar digitali a condividere il loro tesoro, e di ripensare la protezione dei dati tanto strenuamente difesa, soprattutto in Europa. I dati hanno infatti una qualità sorprendente: dal punto di vista economico sono un «bene non rivale», che si trasforma in valore solo quando viene utilizzato e il cui valore aumenta anzi a ogni uso aggiuntivo. Non si tratta dunque di espropriare le Big Tech, visto che in senso strettamente legale i dati non possono essere «posseduti» e nemmeno scompaiono se più soggetti li usano. Semplicemente è assurdo lasciare che poche grandi piattaforme ricche di dati limitino il valore e la conoscenza che la società nel suo complesso può ottenere da essi. I tempi sono insomma maturi perché il Regolamento generale sulla protezione dei dati, tanto necessario per difendere i diritti individuali, lasci il posto a un nuovo Regolamento generale sull'uso dei dati, ancor più necessario per la democrazia e la prosperità di tutti noi, in qualsiasi Paese del mondo. "Fuori i dati!" è un libro molto acuto dal punto di vista dell'analisi economica, tanto tecnologicamente documentato quanto politicamente controverso.
(dal risvolto di copertina di: Thomas Ramge e Viktor Mayer-Schönberger, "Fuori i dati!". (Egea, pp. 160, euro 17)
Diamo al popolo il potere dei Big Data
-La provocatoria proposta di due studiosi inglesi: “Rompiamo i monopoli dell’era digitale”-
di Massimiliano Panarari
È l’«oro del Terzo Millennio», in grado di produrre immense fortune private, e di dare formidabili strumenti conoscitivi ai poteri pubblici. Come pure – il dark side del «totalitarismo soft» del Tecno-Leviatano illiberale e del capitalismo della sorveglianza – di mettere occultamente a
repentaglio le libertà individuali e la sfera privata dei cittadini. Il traffico per streaming e serie tv ha cominciato a calare, come mostrano i flussi sulla rete Internet nazionale – segnale del ritorno alla vita (seppure nella formula new normal) – ma la «caccia ai dati» prosegue, con ben altra portata strategica. Ed è diventata una questione che investe la stessa qualità della democrazia, intorno alla quale si moltiplicano studi e strumenti di indagine (come la Rivista di Digital Politics, diretta da Mauro Calise).
Un ambito della riflessione si sta concentrando su quello che rappresenta un fattore economico essenziale della rivoluzione digitale: il gigantismo inarrestabile delle imprese che traggono i loro profitti dallo sfruttamento dei dati. L’acquisizione di una taglia oversize da parte dei colossi di Big Tech deriva da plurime cause, sottolineano gli studiosi (dividendosi sulla «bontà» della destinazione finale del processo): il conseguimento del traguardo delle economie di scala e l’ottimizzazione attraverso la diversificazione interna. Chi controlla le infrastrutture distributive vuole possedere i contenuti da farvi transitare e si interessa a quelli che rispetto al loro core business vengono classificati come old media (e che piacciono anche per simboliche ragioni di blasone). L’umana, troppo umana tentazione – antitetica alla dottrina liberale di mercato e alle ragioni della concorrenza e della convenienza per i consumatori – di sbarrare la strada ai competitor, «meglio» ancora se in via preventiva.
Tutte tendenze che conducono al monopolio (o all’oligopolio) quale direzione di marcia obbligata (e incontrastata) dell’egemonia delle corporation delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Ovvero, quella che con il titolo del libro di Tim Wu (docente della Columbia Law School e già advisor presso la Federal Trade Commission e funzionario dell’Amministrazione Obama) si può etichettare come La maledizione dei giganti (Il Mulino, pp. 152, euro 14).
Una minaccia per la stabilità finanziaria, come pure, giustappunto, per la libertà politica e la coesione sociale delle democrazie liberal-rappresentative determinata dall’accumulo di diseguaglianze che accompagna questa tipologia di capitalismo digitale. Da cui l’esigenza – inderogabile, come sostiene Wu – di rinverdire le tradizioni antimonopolistiche del passato per spezzettare i colossi high-tech, ripristinando le condizioni di competitività e concorrenza. Oppure, come propone un altro libro, rompendo il loro monopolio nella materia prima di cui sono gli inesauribili e inesausti accaparratori (anche, talvolta, al di là della legalità). Una risorsa, quella dei dati, che risulta cruciale per il controllo di quell’altra (e accelerata) rivoluzione che risponde al nome di Intelligenza Artificiale. Questa ricetta suggestiva (e «provocatoria») sta al centro delle tesi del volume Fuori i dati! (Egea, pp. 160, euro 17) di Thomas Ramge (ricercatore presso il Center of Advanced Internet Studies di Bochum e collaboratore dell’Economist) e Viktor Mayer-Schönberger (professore di Internet Governance
and Regulation all’Università di Oxford e componente del Digitalrat, l’organo consultivo del governo tedesco sulle tematiche digitali).
La loro idea di fondo è che per fare ripartire il progresso autentico – perché, come insegna molta teoria economica, lo status monopolistico riduce le possibilità di produrre innovazione (uno degli incubi di Joseph Schumpeter) – si debba disarticolare il possesso esclusivo delle informazioni. E che i dati vadano, pertanto, assimilati a un «patrimonio dell’umanità», entrando anche nella disponibilità degli altri operatori economici: start-up e piccole e medie imprese, ma anche Ong e soggetti che si occupano di innovazione. L’Occidente si ritrova difatti sprofondato in quello che i due studiosi definiscono «un periodo di frenetica stasi dell’innovazione», in cui gli incrementi di produttività risultano tra i più scarsi della storia contemporanea e la registrazione dei brevetti avviene a opera di un numero sempre più limitato di aziende. Mayer-Schönberger e Ramge notano che i dati raccolti nella fase odierna si rivelano circa sette volte superiore a quelli effettivamente impiegati anche solo una volta, con i relativi problemi di costi di conservazione come di violazione (potenziale o reale) della privacy. Dovrebbe, quindi, scoccare l’ora della condivisione, senza per giunta che ciò comporti alcun «esproprio proletario» (o, per meglio dire, «cognitario») di Big Tech, visto che in un’accezione propriamente legale i dati non possono essere posseduti.
A farsi promotrice di questa «rivoluzione gentile» non potrebbe che essere l’Europa, inventandosi una terza via tra l’anarcocapitalista Silicon Valley e l’autocratica Cina, nel nome della spesso evocata sovranità digitale.
Per combattere il «colonialismo dei dati» e dare vita a un libero ed equo ecosistema digitale le istituzioni comunitarie dovrebbero, però, procedere alla realizzazione di un «vasto programma». Vale a dire, il superamento del Gdpr e la sua integrazione con un diverso regolamento generale sull’uso dei dati, rendendo facilmente accessibili tutte le informazioni che non risultano sottoposte a vincoli di riservatezza. Non «i soviet più i Big Data» (al posto dell’elettrificazione), come potrebbe affermare qualche agit-prop dell’Ideologia californiana bensì, più opportunamente, il potere dei Big Data al «popolo», alle pmi e alla società civile.
- Massimiliano Panarari - Pubblicato sulla Stampa del 13/6/2021 -
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