I critici contemporanei dell'economia si lamentano a proposito della fede nei liberi mercati - si gli economisti che i cittadini comuni - e affermano che si tratta di una forma di religione. Si scopre così, che in un senso più profondo e storicamente fondato, in quest'idea c'è qualcosa di vero. In contrasto con la visione storica convenzionale dell'Economia, che viene vista come un prodotto assolutamente secolare dell'Illuminismo, Benjamin M. Friedman dimostra che la religione ha esercitato fin dall'inizio una potente influenza. Friedman rende evidente come la fondamentale transizione riguardo il pensare quello che noi chiamiamo economia, a cominciare dal 18° secolo, sia stato plasmato in maniera decisiva dalle linee di conflitto di un pensiero religioso nel contesto del mondo protestante di lingua inglese. La fede in un Dio dal carattere umano, sull'Aldilà e sullo scopo della nostra esistenza, nel mondo in cui vivevano Adam Smith e i suoi contemporanei, veniva messa in discussione. Friedman esplora come quei dibattiti possano spiegare l'enigmatico comportamento di così tanti nostri concittadini e il fatto che loro punto di vista circa le politiche economiche - e il loro comportamento rispetto al voto - sembra essere così in netto contrasto con quello che dovrebbe essere il loro vantaggio economico. Gettando una luce sulle origini della relazione tra pensiero religioso e pensiero economico, insieme a quelle che sono le conseguenze attuali, Friedman fornisce preziose intuizioni relative ai nostri dibattiti di politica economica, e mostra quale sia la strada per delle politiche funzionali per tutti i cittadini.
(dal risvolto di copertina di: "Religion and the Rise of Capitalism", di Benjamin Friedman. Alfred A. Knopf, pagg. 544, € 31,20)
Le origini «religiose» dell'economia
- di Gianni Toniolo -
Da chi è nata la scienza economica moderna basata sul primo teorema del benessere, secondo il quale persone che, in un quadro competitivo, agiscono nel proprio interesse migliorano non solo la propria condizione ma anche quella degli altri? La risposta ovvia è Adam Smith. Ma perché proprio lui, perché proprio nella Scozia della seconda metà del Settecento? Per rispondere a queste domande, Benjamin Friedman, noto macroeconomista di Harvard, dice che non basta rifarsi alla cultura scientifica dell’illuminismo scozzese del quale Smith era autorevole esponente. Per una risposta più completa si può trovare rifacendosi a Einstein secondo il quale «il pensiero scientifico è lo sviluppo del pensiero prescientifico».
Su questa premessa Friedman ha imbastito, in 281 pagine chiare e splendidamente illustrate nell’edizione di Knopf, una ricostruzione dell’evoluzione del pensiero protestante sulle due rive dell'Atlantico, alla ricerca di quel “pensiero prescientifico”, delle credenze diffuse, che – più dell'alta cultura illuminista – spiegherebbero il clima nel quale fiorirono le origini smithiane della scienza economica moderna. Gli storici del protestantesimo arricceranno forse il naso di fronte a un economista teorico ebreo impegnato a rubare loro il mestiere. Ma farebbero male, perché la tesi, magari provocatoria, è interessante. In estrema sintesi si tratta di questo: perché si creasse un pensiero prescientifico diffuso coerente con la nascita della moderna economia “scientifica”, era necessario che la religiosità diffusa, il sentire dell’uomo comune, superasse la visione pessimista della natura umana insita nel pensiero luterano e, soprattutto, calvinista. Se tutti gli umani sono intrinsecamente cattivi, se il loro destino è “predestinato” sin dall’origine del mondo, se la sola ragione di esistenza umana sulla terra è il dare gloria a Dio, perché affaticarsi per migliorare noi stessi e la terra in cui viviamo?
Nel mondo della Riforma, questa visione del rapporto tra Creatore e creature cominciò a essere messa in discussione sin dall’inizio del diciassettesimo secolo (per esempio da Jacob Armenius in Olanda, da Carlo I che vietò alla Chiesa d’Inghilterra di predicare la predestinazione). L’Atto di Tolleranza di William e Mary (1688) aprì la strada a una maggiore libertà di discussione, alla creazione di accademie, all’accettazione dei non conformisti nelle università. John Locke scrisse sulla compatibilità della fede con la ragione, riconoscendo che quest’ultima è una grazia di Dio concessa a tutti. Venne progressivamente crescendo la consapevolezza di un Dio benigno, che gode della felicità delle sue creature e le incoraggia a cercare la felicità propria e quella degli altri. Su queste basi si sarebbe consolidato, secondo Friedman, l’humus culturale, il pensiero prescientifico diffuso che, in una società ancora profondamente religiosa, avrebbe ispirato a un uomo sostanzialmente agnostico come Adam Smith dapprima la Teoria dei sentimenti morali, poi la Ricchezza delle Nazioni, opera quest’ultima incomprensibile senza la prima. In sostanza: se gli esseri umani sono ragionevoli, se la loro natura è intrinsecamente buona, come sostenevano i Moderati scozzesi, allora essi hanno la capacità di fare scelte morali e di agire in modo virtuoso. Senza un superamento del pessimismo della predestinazione, il pensiero di Smith non avrebbe trovato il clima culturale diffuso necessario al proprio fiorire.
Il titolo weberiano del libro, forse voluto dall’editore, trae un po’ in inganno. Friedman non vuole spiegare le origini religiose del capitalismo ma quelle del pensiero economico moderno, dei principi fondamentali che tuttora reggono la scienza economica. Questa avvincente storia intellettuale e sociale lascia necessariamente in ombra il suo intreccio con la (ri)nascita del capitalismo, adombrata invece nel titolo. Già nel tredicesimo secolo, l’emergente economia capitalista di mercato delle città italiane si era accompagnata all’opera di riconciliazione tra fede e ragione condotta da Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, a riprova di un intreccio complesso tra storia dei fatti e storia del pensiero. Allo stesso modo, non possiamo evitare di chiederci quanto la grande stagione sei-settecentesca del capitalismo commerciale abbia influito sulla formazione del pensiero prescientifico all’origine di quello scientifico di Smith. Ma questo è il tema per un prossimo libro. Possiamo, invece, seguire ancora Friedman nei suoi ultimi capitoli che tracciano la sorprendente continuità di minoritarie, ma non trascurabili, culture prescientifiche, come quelle di segmenti del protestantesimo evangelico statunitense, che sarebbero alla base di comportamenti, che un economista può solo definire irrazionali, come scelte elettorali opposte agli interessi stessi di chi le compie. Una prova, a contrario, della forza
delle credenze prescientifiche.
- Gianni Toniolo - Pubblicato sulla Domenica del 6/6/2021 -
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