Javier Cercas, nelle ultime pagine del suo libro del 2017, "Il sovrano delle ombre", descrive quale sia stato il procedimento di scrittura usato per realizzare il romanzo che ora termina: « [...] pensai che per scrivere un libro su Manuel Mena dovevo sdoppiarmi: dovevo raccontare, da una parte, una storia, la storia di Manuel Mena, e dovevo raccontarla come l’avrebbe raccontata uno storico, con il distacco e lo scrupolo di veridicità di uno storico, attenendomi rigorosamente ai fatti e disdegnando la leggenda e il fantastico e la libertà del letterato, come se non fossi chi sono ma un’altra persona; e, dall’altra parte, dovevo raccontare non una storia, bensì la storia di una storia, vale a dire, la storia di come e perché ero arrivato a raccontare la storia di Manuel Mena nonostante non volessi raccontarla né farmene carico né spiattellarla in un libro [...]. » (Javer Cercas, "Il sovrano delle ombre". Traduzione di Bruno Arpaia. Guanda).
Il romanzo che Javier Cercas pubblica nel 2017, "Il sovrano delle ombre", sulla morte del suo prozio nel corso della guerra civile spagnola, propone nelle sue pagine tre fotografie; la prima, all'inizio, è la foto del suo parente - in uniforme militare, con medaglie e mostrine; qualche pagina dopo, una fotografia deteriorata ci mostra una classe scolastica con 13 bambini (tutti maschi) ed un insegnante; infine, molto più avanti, oltre la prima metà del romanzo, una fotografia fatta in uno studio fotografico, in bianco e nero, che mostra tre donne, due in piedi ed una seduta proprio al centro (a destra, Sara, assassinata dai franchisti: il narratore può solo ipotizzare sui motivi, non c'è niente di sicuro).
Parafrasando il Fredric Jameson di “Brecht e la questione del metodo”, quando dice «quello che noi chiamiamo "Io", è un oggetto della coscienza, e non la nostra coscienza.», possiamo dire allora che la foto nel romanzo è un oggetto (uno strumento) di rappresentazione (di quelli che sono i "fatti", della "realtà") e non la propria rappresentazione (la quale, al di fuori del gioco della mediazione, non esiste). È quel fascino paradossale dell'immagine che così tanto affascinava Barthes (La camera chiara), Sontag (Sulla fotografia) o Alberto Manguel (Lendo imagens). Ma più che illustrare la narrazione scritta, l'immagine racconta una storia supplementare (e più ancora che far questo, le immagini conversano fra di loro). L'immagine della classe scolastica di Cercas, con tredici bambini ed un professore, assai più che esprimere il suo proprio contenuto, il suo tema, esprime quelle che sono le sue condizioni materiali, il suo essere deteriorata, i suoi strappi e le sue macchie (come fa anche Paul Auster, in apertura del suo "L'invenzione della solitudine", un libro inesauribile, soprattutto a partire dalla sua prima sezione, sintomaticamente intitolata "Ritratto di un uomo invisibile"). Lo strappo della fotografia, il suo deterioramento, la sua materialità - assai più di quello della famiglia, più di quello che è il suo tema - è lo strappo che commenta in maniera indiretta la narrazione ( ci racconta la storia in un altro modo).
"Il sovrano delle ombre", romanzo di Javier Cercas, è un ennesimo prodotto artistico in quella che è una lunga catena di rielaborazioni di Omero e dei suoi personaggi. Nel romanzo (il suo romanzo senza "fiction", come dice lui), l'obiettivo principale di Cercas è quello di rappresentare la complessità di Manuel Mena, un suo parente che ha combattuto nella guerra civile spagnola dalla parte dei fascisti. Fra gli espedienti utilizzati da Cercas per delineare il personaggio - l'uso delle fotografie è forse il più diffuso - mette in atto quello di rapportarlo ad Achille, il guerriero dell'Iliade. « La morte di Manuel Mena era rimasta incisa a fuoco nell’immaginazione infantile di mia madre come ciò che gli antichi greci chiamavano kalos thanatos: una bella morte », scrive il narratore all'inizio del romanzo. « Achille nell’Iliade, dimostra la propria nobiltà e la propria purezza giocandosi la vita mentre combatte in prima linea per valori più grandi di lui [...] per mia madre, Manuel Mena era Achille. »
Achille, però, per la narrazione, è anche fonte di instabilità e di ambiguità, come ben presto Cercas sottolinea. Achille è tanto quello che ottiene una bella morte quanto quello che, una volta che viene di nuovo incontrato nell'Ade, dichiara che alla migliore posizione, da morto, è preferibile essere l'ultimo degli uomini vivi: « in realtà [Manuel Mena] è l’Achille dell’Odissea, e che sta nel regno delle ombre maledicendo di essere nella morte il re dei morti e non il servo di un servo nella vita ». L'Achille dell'Iliade è quello della bella morte, è quello del sacrificio per la patria; mentre l'Achille dell'Odissea è un eroe pentito che non si è riconciliato con la morte, che preferirebbe essere rimasto sulla terra, come servo di qualcun altro, piuttosto che regnare sui morti.
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