“La difesa è molto più importante della ricchezza”. Adam Smith segna così i confini dell’economia politica, nel momento della sua nascita. Anche oggi il mercato ha il suo unico limite nella sicurezza nazionale, dominio arcano dei grandi contendenti dell’arena globale, gli Stati Uniti e la Cina. Le due potenze fondono l’ambito economico e quello politico, attraverso le decisioni del Partito comunista cinese e degli apparati di difesa e sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Pechino e Washington vivono un acceso conflitto di geodiritto: una guerra giuridica e tecnologica combattuta attraverso sanzioni, uso politico delle istituzioni internazionali, blocchi agli investimenti esteri. Partendo dalla filosofia, Alessandro Aresu traccia un percorso chiaro che porta il lettore fino alla più recente attualità, descrivendo in dettaglio il conflitto tra diritto ed economia in atto tra Stati Uniti e Cina.
(dal risvolto di copertina di: Alessandro Aresu, "Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina", La nave di Teseo.)
Le sfide del secolo asiatico
- Scenari globali. Nella fase in cui si profila il crescente peso cinese, uno studio si interroga sulla natura del capitalismo, l’equilibrio tra libertà e sicurezza, le evoluzioni del diritto -
Mario Ricciardi
Prima dello scoppio della crisi finanziaria del 2008, l’atteggiamento diffuso, tra gli osservatori liberali, era che il modello di sviluppo cinese non fosse sostenibile. Chris Patten, il politico Tory che è stato l’ultimo governatore britannico di Hong Kong, richiamava a questo proposito l’autorità di Margaret Thatcher che, durante una visita in Cina, aveva affermato che non importa se si parte con la libertà economica o con quella politica, perché alla fine le due risultano inseparabili. La tesi di fondo di Patten, o di Will Hutton - autore in quella stagione di un libro sulle prospettive della Cina nel XXI secolo - era che un sistema economico capitalistico, come quello emerso dalle riforme iniziate da Deng Xiaoping, non fosse compatibile, nel medio periodo, con istituzioni politiche non liberali. La classe media che si forma in seguito all’aumento della ricchezza avrebbe prima o poi messo in discussione il sistema di governo autoritario del Partito Comunista Cinese, provocandone l’indebolimento e infine il crollo, come era avvenuto in Russia, e nei Paesi del blocco sovietico, dopo la caduta del muro di Berlino. Di qui il dilemma che si poneva alla leadership cinese: crisi o riforma? Riletti oggi, questi e altri scritti che articolavano il senso comune del liberalismo post 1989 farebbero sorridere, se le condizioni in cui si trova il mondo, in parte anche per responsabilità delle classi dirigenti liberali di diversi Paesi occidentali, non fossero così preoccupanti. Nel giro di poco meno di un decennio, gli Stati Uniti hanno dissipato una larga parte del “capitale morale” su cui poteva ancora far leva la loro pretesa di essere leader tra le democrazie oltre che la potenza egemone del mondo dopo la fine della guerra fredda. L’Europa, cui si affidava la speranza di una forma di egemonia diversa da quelle del passato, basata non sulla forza, ma sulla capacità di diffondere una cultura di diritti, tolleranza e solidarietà, ha superato con grande difficoltà la sfida della crisi finanziaria, uscendone indebolita e divisa. Ha poi gestito nel modo peggiore il problema dei migranti, lasciando che al proprio interno si rafforzassero tendenze autoritarie e persino neofasciste che sembravano consegnate per sempre alla pattumiera delle ideologie. Sta cercando, infine, una via d’uscita dalla crisi sanitaria provocata dall’epidemia di Covid-19, seguendo diverse strategie nazionali, spesso in frizione l’una con l’altra, e faticando a trovare una forte soluzione condivisa per quella economica che si prospetta nei prossimi mesi per via della chiusura di buona parte delle attività produttive e commerciali nella maggioranza dei Paesi del continente.
Nel frattempo, la Cina, che pure era stato il primo Paese colpito dall’epidemia, sta riaprendo l’area di Wuhan, cui era stato imposto uno strettissimo lockdown, e si avvia a recuperare parte del terreno perso in questi mesi sul piano economico. Forte di questo risultato, e di una posizione di sempre più larga influenza internazionale, grazie a una rete capillare di investimenti e iniziative culturali, lo “Stato-civilizzazione” cinese sfrutta con intelligenza gli spazi lasciati vuoti da Stati Uniti ed Europa. Appare sempre più evidente che quello in cui siamo entrati si avvia a essere un “secolo Asiatico” che sarà plasmato, e speriamo non devastato, dalla competizione tra potenze con aspirazioni imperiali. In particolare, la partita si giocherà tra Cina e Stati Uniti d’America.
Questo è lo sfondo su cui si colloca il libro di Alessandro Aresu, un intellettuale dal profilo peculiare per un Paese, come il nostro, che spesso è afflitto da una concezione quasi feticista dei confini disciplinari. Di formazione filosofica, ma laureatosi con un maestro del diritto commerciale, Guido Rossi, Aresu ha un percorso professionale tra istituzioni di ricerca, riviste di geopolitica e ministeri. Un profilo che si trova nelle sue eclettiche letture, che vanno dalla storia, alla politica, all’economia, ma senza mai perdere di vista il dettaglio rivelatore, si trovi esso nella biografia di un funzionario francese, in un romanzo di successo o in un paper accademico. A fare da filo conduttore al libro è il tema della varietà dei capitalismi, un classico del pensiero sociale dei primi del Novecento, da Max Weber a Werner Sombart, che sta tornando, in parte proprio per via dello “scandalo” cinese, di prepotente attualità.
In specie, ciò che interessa ad Aresu è il superamento della distinzione tra modelli teorici dell’economia e analisi sociale, e lo studio dei diversi modi in cui sia il capitalismo con “caratteristiche cinesi” sia quello statunitense hanno una specifica dimensione politica. Per questo egli recupera la felice formula weberiana del “capitalismo politico” basato sulla cooperazione, non sempre priva di problemi, tra la mano invisibile del mercato e quella visibile della potenza, da rintracciare sia negli Stati sia nelle grandi concentrazioni di potere economico in grado di influenzare, in vari modi, i decisori politici.
Uno degli aspetti più interessanti del libro di Aresu, che ha proporzioni mastodontiche, è l’abilità con cui riesce a portare alla luce i conflitti che attraversano le nostre società, che sono stati accuratamente “neutralizzati” (Carl Schmitt è uno degli autori che tornano spesso, anche se per fortuna senza i manierismi degli Schmittologi) da una politica concepita esclusivamente come amministrazione. Si tratta di tensioni che non hanno più la natura dirompente degli scontri che conosciamo dalla storia della prima Rivoluzione industriale. Non ci sono più delle Peterloo, almeno non in Europa. Ma passano piuttosto attraverso l’uso della tecnologia e di forme di controllo morbide (di cui, ironia della sorte, Chris Patten esaltava le potenzialità di liberazione nel suo libro sulla Cina, riflettendo tra l’altro sull’epidemia di Sars) che si diffonderanno inevitabilmente in seguito alla pressione irresistibile delle esigenze della produzione in un mondo sempre più vulnerabile alla diffusione rapida e su larga scala di agenti patogeni che possono rivelarsi molto aggressivi.
Alla fine non c’è un vincitore, o una filosofia della storia. Anzi, credo che il pregio del libro di Aresu sia proprio nelle domande che pone: sulla natura del capitalismo, sul futuro della democrazia, sulla vitalità della socialdemocrazia, sull’equilibrio tra libertà e sicurezza, sulle trasformazioni del diritto in un’economia globale. Ciascuna meriterebbe un approfondimento, che non si trova in un lavoro che si rivolge a un pubblico non accademico, forse a quella “classe dirigente” di cui tanto si lamenta oggi l’assenza. Sfogliandolo, chi vuole andare avanti, trova una straordinaria quantità di riferimenti, molti libri che vale la pena di leggere, come William Dalrymple sulla compagnia delle Indie o Simon Winchester su John Needham, insieme a tanti classici. Questo fa ben sperare per il futuro, perché di persone curiose e dalla mente aperta come Aresu abbiamo bisogno.
- Mario Ricciardi - Pubblicato sul Sole del 3/5/2020 -
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