domenica 3 maggio 2020

Lavoro & Metafisica










La fine del lavoro: versione Postone o Castoriadis?
- di Bernard Pasobrola -

Moishe Postone,con il suo libro "Tempo, lavoro e dominio sociale" è stato uno degli ispiratori del gruppo di teorici tedeschi riunito intorno alla rivista Krisis. Questo gruppo, nato nel 1986 a Norimberga, ha incentrato la sua riflessione sulla teoria del valore di Marx e poi, grazie soprattutto a Robert Kurz, sulla critica del lavoro e del "feticismo della merce". Il legame teorico con la Scuola di Francoforte è esplicito, soprattutto con Adorno e con il suo allievo Hans-Jurgen Krahl. La partecipazione di Anselm Jappe, ha poi contribuito ad accentuare il riferimento all'Internazionale Situazionista, in particolare a Guy Debord.
Postone cerca di scoprire quale sia l'essenza del capitalismo a partire dalle categorie critiche del Marx della maturità, proponendo una «ri-concettualizzazione del capitale che fondamentalmente rompe con il quadro tradizionale di interpretazione marxista». Per lui, Marx utilizza il termine merce «per designare una forma storicamente specifica di relazione sociale, costituita come una forma strutturata di pratica sociale, che allo stesso tempo è il principio strutturante delle azioni, delle visioni del mondo e della disposizione delle persone». Postone aggiunge che la «specificità del lavoro nel capitalismo consiste nel fatto che esso media le interazioni umane con la natura, così come le relazioni sociali tra le persone».

La sua griglia analitica fa uso perciò di quelli che sono dei concetti piuttosto ortodossi (merce, capitale, lavoro, valore...), ma si sforza però di determinare quale tra loro sia quello che svolge il ruolo di vero principio strutturante, o di vera mediazione, che renda razionale il sistema. E alla fine è il "lavoro" quello che gli sembra definitivo e specifico del capitalismo, fino al punto che «ciò che avviene è quasi indipendente dalle persone che sono impegnate in tale pratica», e che «i suoi prodotti non vengono distribuiti socialmente attraverso delle norme tradizionali o a partire da delle evidenti relazioni di potere e di dominio - vale a dire, da delle relazioni sociali non mascherate [relazioni di parentela o di dominio personale diretto] - come avveniva nelle altre società». Per quanto Postone mitighi il suo giudizio, non eliminando del tutto le "antiche" forme di dominio, appare evidente che per lui nell'era capitalistica queste ultime forme sono state rese inefficaci dalla nuova e potente categoria che è il lavoro (ma perché, in tali condizioni, non si assiste ad un deperimento dello Stato, o alla scomparsa della gerarchia d'impresa, e perché le sue videocamere di sorveglianza sono invece sempre più onnipresenti, e perché la pressione della burocrazia socio-giuridica è sempre più forte e personalizzata?).

In realtà, in ogni società, le relazioni di potere tendono a nascondersi dietro il paravento delle istituzioni e dei dispositivi che sembrano così "funzionare" da soli. Come si spiega l'apparente autonomia di ciò che viene istituito? «L'istituzione» - scrive Castoriadis nel suo "L'istituzione immaginaria della società" - «è una struttura simbolica socialmente riconosciuta nella quale si combinano, in proporzioni ed in relazioni variabili, una componente funzionale ed una componente immaginaria. L'alienazione è il rafforzamento e il dominio del momento immaginario all'interno dell'istituzione, che determina il rafforzamento e il dominio dell'istituzione sulla società. Questo rafforzamento, ed il rendersi autonomo, dell'istituzione si esprime e si incarna nella materialità della vita sociale, ma presuppone sempre anche il fatto che la società viva il suo rapporto con l'istituzione secondo le modalità dell'immaginario, vale a dire che non riconosce il proprio prodotto in quello che è l'immaginario delle istituzioni».

Si tratta, fondamentalmente, della medesima questione che pone Postone quando dice che «ciò che accade è quasi indipendente dalle persone che sono coinvolte in questa pratica [del lavoro]», oppure che il lavoro è la mediazione centrale delle relazioni tra le persone e che il vero soggetto è costituito dalle loro relazioni oggettivate. La visione funzionalista del lavoro [*1] ritiene che la società miri all'accrescimento del capitale, allo sviluppo, o a qualsiasi altra cosa, e che adatti i suoi mezzi - in particolare il lavoro - a questo fine. Il lavoro sarebbe perciò un'istituzione al servizio di una finalità reale-razionale. La stessa cosa varrebbe per il valore, per la merce, ecc. Queste forme, di cui cerchiamo le caratteristiche oggettive, sembrano completarsi ed interagire allo stesso modo degli ingranaggi di macchina che va avanti da sé sola. Tuttavia, si può continuare a girare a vuoto anche cercando di definire l'essenza di questo o di quell'ingranaggio, o di questa o di quella forma, senza scoprire niente della funzionalità della macchina vera e propria, dal momento che quest'ultima è mossa solamente da delle catene di significato, da rituali o propositi a cui la funzionalità è in gran parte asservita. L'istituzione, per quanto concreta sia (lavoro, denaro, leggi, tempo, Stato o lingua), non può essere ridotta alla sua funzione.

Allo stesso modo in cui il dominio inter-umano può essere esercitato in maniera duratura solo nel contesto di quelli che sono dei significati condivisi, anche l'oggettività è sempre co-costituita dal significato sociale immaginario che la rende riconoscibile. Se ci si rende conto che la cosa è simultaneamente sia reale che immaginaria - che è altrui ma allo stesso tempo fa anche parte di sé - ecco che si smetterà allora di pensare all'auto-movimento delle cose - o all'autonomia della tecnica - e quindi di pensare alla necessità, da parte del padrone delle cose, di riconquistare le sue prerogative ontologiche. Come abbiamo visto sopra, esiste, e in questo consiste sia la sottile semplicità della situazione che la sua maggiore difficoltà, una percezione immaginaria di alcuni significati centrali, come il lavoro capitalistico ad esempio, ma questa percezione ancora non li riconosce come se fossero i propri prodotti: ma li attribuisce alla "necessità" o alla "ragione", territori nei quali l'immaginario dovrebbe lasciare il posto al funzionale. Dal momento che ogni società, per sopravvivere e organizzare la propria vita materiale, deve necessariamente ricorrere alla realtà razionale, essa non è costretta a riprodursi seguendo rigorosamente tali leggi (Castoriadis, op.cit.). Le sue scelte sono sovradeterminate dai significati nucleari immaginari dell'epoca presa in considerazione; in altre parole dalla sua assiologia (axia): «ciò che ogni volta viene posto alla base, in quanto senso indiscutibile ed indiscusso, di ogni distinzione e articolazione tra ciò che è importante e ciò che non lo è, e che si trova all'origine del fatto di essre oggetto di investimento pratico, affettivo ed intellettuale, individuale o collettivo».

Del resto è difficile concepire che l'invenzione della macchina-lavoro - «il dispositivo più potente che sia mai stato creato dall'uomo e che è la griglia regolata delle relazioni sociali» (Castoriadis, "Gli incroci del labirinto") - abbia obbedito a degli obiettivi funzionali, non più di quanto sia stata la comparsa della schiavitù in alcune società non produttive dove lo schiavo, benché fosse del tutto subordinato al suo padrone, non aveva alcun compito preciso e non era un prigioniero. La divisione del lavoro e la nascita delle classi non sono state il risultato di un ordine naturale o trascendente, ma piuttosto dell'evoluzione del simbolismo sulle macerie delle sue precedenti manifestazioni. Non si può comprendere la storia umana senza tener conto del fatto che un sistema simbolico stabilisce, tra l'infinità delle strutture possibili, le relazioni prevalenti, e orienta verso una delle direzioni possibili quelle che sono tutte le metafore e le metonimie astrattamente concepibili. Simili società possono aver instituito, o meno, la schiavitù, oppure la sedentarizzazione, possono aver nominato dei comandanti autoritari o senza alcun potere, aver praticato l'uguaglianza o l'accumulazione iniqua della ricchezza. Alcune di queste società hanno mantenuto per millenni la medesima tecnica, mentre altre hanno scelto la razionalizzazione e la tecnicizzazione di tutto il proprio universo. Ma il delirio della razionalità moderna è esso stesso una delle forme possibili dell'immaginario sociale, e non corrisponde ad alcuna finalità assegnabile. L'immaginario della razionalità non ha fatto altro che invadere tutte le sfere sociali, e le ha sottomesse ad un alto grado di razionalizzazione. Fini e significati si sono imposti simultaneamente.

Castoriadis, tuttavia, specifica che i «significati non sono ovviamente ciò che gli individui, consciamente o inconsciamente, si rappresentano o che pensano che siano. È mediante essi che gli individui si sono formati come individui sociale, potendo partecipare al fare ed al rappresentare/dire sociale [...] Nessun individuo ha bisogno, per essere individuo sociale, di rappresentarsi la totalità dell'istituzione della società e dei significati che essa porta con sé». In altri termini, i significati sociali immaginari non sono delle mere rappresentazioni, ma sono di una diversa natura rispetto alle altre aree della nostra esperienza, benché ovviamente esse possono e devono trovare dei punti di appoggio nell'inconscio degli individui.
Una catena di fabbricazione o di montaggio è la materializzazione di una folla di significati immaginari centrali per il capitalismo. Va anche notato che trattare un uomo come se fosse un oggetto meccanico non è meno, bensì più, immaginario che voler vedere in lui un gufo (essendo questo meno dissimile rispetto ad un umano di quanto lo sia una ruota o un bullone). Per Castoriadis, «non c'è alcuna differenza essenziale, per quanto riguarda il tipo di operazioni mentali, e perfino di atteggiamenti psichici profondi, tra un ingegnere taylorista o uno psicologo industriale, da una parte, i quali isolano dei gesti, misurano dei coefficienti, decomponendo la persona in "fattori" inventati a partire dai pezzi e poi li ricompone in un secondo oggetto; e, dall'altra parte, un feticista, che si gode la vista di una scarpa col tacco alto oppure che chiede ad una donna di imitare un lampadario». (op.cit.)

D'altronde, Marx aveva ben intuito come il rapporto con le cose fosse un miscuglio di bisogno e di "soprannaturale" (teoria del feticismo della merce), ma da buon razionalista pensava che l'illusione alla fine, quando si sarebbe disvelato il funzionamento oggettivo dell'economia, si sarebbe dissipata, in modo che così l'immaginario sarebbe stato inevitabilmente subordinato al reale-razionale dell'economia. Marx voleva scoprire le proprietà intrinseche della categoria oggettiva designata dal termine merce, e voleva risolvere l'enigma della sostanza corrispondente a questo concetto, per ridurre i suoi significati sociali a delle sostanze chimiche. Grazie al fascino duraturo che ha esercitato la sua esposizione, l'autore de Il Capitale ha aperto la strada a più di due secoli di malintesi e di discussioni. Nel presentare le relazioni tra gli uomini come delle relazioni «tra le cose», ha lasciato intendere che esiste un oggetto in sé ed un soggetto in sé. A partire da quelle che sono delle premesse dualistiche, ha assimilato il significato della merce - istituito dalla società umana e che designava sia dei comportamenti degli individui che dei dispositivi materiali - all'oggetto stesso; a partire da questo, Marx affermava che il significato immaginario dell'oggetto merce non sembrava affatto essere opera degli individui, bensì, piuttosto emanare dall'oggetto stesso. Un melanesiano non sarebbe affatto sorpreso se gli venisse detto che un dato oggetto cerimoniale è allo stesso tempo sia un oggetto utile che di significato simbolico nel quadro di una pratica rituale, e che ciò che somiglia al sacro che emana dall'oggetto, in realtà traduce la sacralità del suo rapporto con gli altri. Mentre il pensatore civile credeva invece che l'oggetto fosse innanzitutto funzionale e corrispondesse ad un suo utilizzo razionale, e che la scienza avrebbe scoperto la ragione per cui venisse utilizzato in delle pratiche alienanti.

Castoriadis si è perciò distino dall'oggettivismo marxista. Per lui, l'economia e l'economico non sono dei riferimenti reali-razionali a delle identità concrete, ma sono dei significati immaginari centrali che designano come «economici» quella che è una moltitudine di altre entità o attività. Ma - egli aggiunge - l'aspetto più inquietante di queste forme ed il più gravido di conseguenze, è che esse sono l'espressione di un immaginario che non ha carne propria, che è un investimento fantasmatico, valorizzazione ed autonomizzazione di elementi che di per sé non appartengono all'immaginario. (L'istituzione...) In realtà, tutto è subordinato all'efficienza: ma l'efficienza per che cosa, al fine di cosa, per fare che cosa? La crescita economica si realizza, ma essa è la crescita di cosa, per che cosa, a quale costo, per arrivare a che cosa?
Ecco perché l'immaginario sociale non ha carne, conclude Castoriadis, perché esso prende in prestito dal razionale quella che è la sua sostanza, che poi trasforma in pseudo-razionale, che viene condannato alla crisi e all'usura. Dal momento che anche l'immaginario sociale ha un suo ruolo, possiede in qualche modo anch'esso una funzionalità, che è quella di tenere insieme l'edificio delle relazioni sociali e delle istituzioni; ora, l'immaginario sociale moderno svolge male questo ruolo , è un cattivo cemento, dopo qualche secolo si è consumato , mentre le altre forme sono durate per millenni. Gli elementi di cui è composto non sono adatti ad una simbolizzazione duratura. Questa, di Castoriadis, mi sembra che sia una visione assai lucida, dal momento che oggi stiamo assistendo a quello che è innanzitutto un collasso immaginario che a seconda dei casi si traveste da crisi climatica, finanziaria, energetica, ecologica, sociale, o quello che volete. Un collasso dell'immaginario dominante che apre il campo a dei nuovi significati sociali che, come tutti possono vedere, nascono e cercano di realizzarsi in un'impresa collettiva.

Bernard Pasobrola - Pubblicato il 2/10/2009 su La Revue des Ressources - Agora

NOTE:

[*1] - L'articolo di Cornelius Castoriadis, "Valore, uguaglianza, giustizia, politica, da Marx ed Aristotele a noi", pubblicato nel 1975 su "Textures" e poi ripubblicato in "Gli incroci del labirinto", era già nettamente in contrasto con la teoria sostanzialista del lavoro e del valore di Marx, che Postone, da parte sua, sostanzialmente accettava. Il dibattito, quindi, non risale ad oggi, ma può non essere inutile riprenderlo, dal momento che rivela quelle che sono delle vere e proprie divergenze epistemologiche. Castoriadis rimprovera a Marx di avere fatto tutta una serie di riduzioni, per poter giustificare la sua teoria del valore-lavoro. Quali sono queste riduzioni? Per cominciare, ridurre il tempo di lavoro effettivamente speso a tempo socialmente necessario alla produzione di merci, il quale richiede, per Marx, che «ogni lavoro, eseguito con il grado medio di abilità e di intensità, e in delle condizioni che, in relazione all'ambiente sociale dato, siano normali». Questo concetto di tempo medio, o di tempo necessario, apre la porta ad una serie infinita di difficoltà di valutazione. Viene presupposto un capitalismo "puro" che funzionerebbe secondo un modo perfettamente concorrenziale e trasparente; ipotesi ben lontana dalla realtà. Anche in quest'ipotesi, osserva Castoriadis, «la legge del valore» non può più essere applicata; e questo anche secondo lo stesso Marx: le merci non vengono più scambiate "secondo il tempo di lavoro socialmente necessario" alla loro produzione, vale a dire secondo il loro valore, bensì secondo il loro "prezzo di produzione" (si tratta del famoso pseudo-problema della pseudo-"perequazione" del saggio di profitto, e del "rapporto" tra il Libro I del Capitale ed il "Libro III"). Per Marx, una merce viene venduta al valore di mercato (vale a dire, ad un prezzo in rapporto al lavoro sociale necessario che essa contiene) solo se la quantità di lavoro sociale consacrata a tutte le merci dello stesso tipo si trova in rapporto con il bisogno sociale in grado di pagarle, il che presuppone una situazione di non evoluzione tecnologica, insieme a dei meccanismi di concorrenza tra acquirenti e tra imprese, i quali non si verificano mai; da qui, la non operatività del concetto di tempo necessario, o medio. Seconda riduzione: quella che riduce a lavoro semplice il lavoro complesso o qualificato. Che cos'è il «lavoro semplice»? È «un dispendio della semplice forza che ogni uomo comune, senza alcun sviluppo particolare, possiede nell'organismo del suo corpo. Il lavoro medio semplice, è vero, cambia di carattere a seconda dei diversi e paesi e secondo le epoche; ma esso rimane sempre determinato da una data società». Il lavoro semplice è perciò semplicemente la forza lavoro, mera energia fisiologica? Come avviene la riduzione del lavoro complesso? Attraverso una bizzarra trasmutazione che Marx descrive nel seguente modo: «Sebbene una merce sia il prodotto più complesso del lavoro, il suo lavoro la riduce, in una qualche proporzione, a prodotto di lavoro semplice, del quale essa rappresenta solo una data quantità. Le diverse proporzioni, secondo le quali le diverse specie di lavoro vengono ridotte a lavoro semplice, a partire dalla loro unità di misura, vengono stabilite nella società all'insaputa dei loro produttori, ai quali appaiono come se fossero delle convenzioni tradizionali».

Si obietterà che la riduzione qui effettuata nei fatti, non è quella da tutti i lavori a lavoro semplice, ma piuttosto la riduzione a denaro. D'altra parte, ci si può chiedere (Castoriadis) in che cosa «il lavoro della merlettaia sia intrinsecamente multiplo, o sotto-multiplo, del lavoro del minatore o del dattilografo, e rappresenti un diverso quantum della medesima Sostanza/Essenza...». Se la riduzione avviene sul mercato del lavoro, ciò presuppone, come avviene per le merci, una concorrenza perfetta tra i possessori di forza lavoro. Oppure «gli operai espropriati di tutto tranne che della loro forza lavoro» non possono comportarsi s tal riguardo come se fossero dei produttori di una qualsiasi merce. Questa « "riduzione" postulata da Marx potrebbe aver luogo nel caso ipotetico di uno pseudo-"capitalismo" schiavista in cui i "capitalisti"-proprietari di schiavi constatano, per esempio, che gli schiavi cuochi o precettori sono diventati rari e costosi, e ne "fabbricherebbero" in massa, al punto che il loro prezzo di vendita (o di affitto) bilancerebbe il costo della loro formazione, ecc. Sebbene, in alcune fasi del mondo antico, si possono osservare delle "sacche" di una simile situazione, in particolare sotto l'Impero Romano, un'economia simile non è mai esistita - e in ogni caso non sarebbe un'economia capitalista nel senso di Marx».

Terzo tipo di riduzione: il lavoro astratto. Aristotele, ci dice Marx, ha stabilito che lo scambio non può avvenire senza uguaglianza, né ci può essere uguaglianza senza commensurabilità tra cose differenti, ma in realtà egli riteneva impossibile che delle cose dissimili fossero commensurabili: essendo l'affermazione della loro uguaglianza contraria alla natura delle cose, le si è fatto solamente ricorso per dei fini pratici. C'è dunque per Aristotele una norma istituita (la quale è opera del nomos, della legge sociale, e che non appartiene alla physis) che mira ad "equalizzare" ciò che non è uguale, a rendere commensurabile ciò che è incommensurabile: «La moneta, scrive Aristotele (Etica Nicomachea), gioca il ruolo di misurare, rende le cose commensurabili tra di loro e le conduce così all'uguaglianza: dal momento che senza scambio non può esserci comunità di interessi, né può esserci scambio senza uguaglianza, e infine uguaglianza senza commensurabilità. Se quindi, a rigor di termini, non è possibile rendere commensurabili tra loro le cose troppo diverse, quanto meno, per le nostre esigenze quotidiane, questo può essere realizzato a sufficienza».

Quello che sembra essere buon senso, per Marx è la prova dell'insufficienza del concetto di valore in Aristotele. Secondo Marx, Aristotele non aveva compreso che i diversi aspetti del lavoro concreto non erano altro che la manifestazione del suo opposto: il lavoro astratto.

Curiosamente, Castoriadis fa notare come non sia l'autore della Metafisica, bensì quello del Capitale ad essere metafisico in questo frangente, in quanto «in entrambi i casi - sia che si dica che gli oggetti hanno un tale "valore di scambio" poiché hanno tale Valore, vale a dire, perché essi contengono il medesimo quantum della medesima Sostanza-Lavoro; o che si dica che gli oggetti hanno tale "valore di scambio" perché tale è la proporzionalità stabilita tra gli uomini che li producono - non si fa altro che restituire degli oggetti alle attività che li fanno esistere. Ma nel secondo caso, è difficile non porsi delle domande sulla base di questa proporzionalità, e dimenticare che essa è socialmente istituita: mentre che nel primo caso, è fin troppo facile slittare verso una "naturalità" di tale Sostanza».

Detto in altri termini, credere in un criterio oggettivo di valutazione di lavori che sono totalmente diversi ed irriducibili gli uni agli altri in quanto opera di persone totalmente diverse ed irriducibili gli uni agli altri, ha come effetto quello di istituire la disuguaglianza, anziché combatterla. Naturalizzare l'equivalenza dei diversi lavori, anziché tener conto di quella che è la loro semplice equivalenza monetaria (che non è una vera e propria equalizzazione) rivela su questo punto una posizione - e Castoriadis ha ragione a sottolinearla - prettamente metafisica e non pragmatica come quella di Aristotele. A partire dal "naturale", può sembrare che un'ora di lavoro di un medico contenga più valore di quanto ne contiene un'ora di lavoro di un calzolaio. Come per l'economia classica, anche il tempo del lavoro-sostanza è tempo-valore, vale a dire un tempo anch'esso concreto e sostanziale dotato di un potenziale più o meno grande a seconda che sia "semplice" o "qualificato".

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