lunedì 25 maggio 2020

Chi ha paura di Giorgio Agamben ?!?

Mai come in questo momento, connotato da una minaccia sempre più pressante e diffusa, la richiesta di immunizzazione sembra caratterizzare tutti gli aspetti della nostra esistenza. Quanto più si sente esposta al rischio di infiltrazione e di contagio da parte di elementi estranei, tanto più la vita dell’individuo e della società si chiude all’interno dei propri confini protettivi. Tuttavia, questa opzione immunitaria ha un prezzo assai alto: come il corpo individuale, anche quello collettivo può essere «vaccinato» dal male che lo insidia soltanto attraverso la sua immissione preventiva e controllata. Ciò vuol dire che, per sfuggire alla presa della morte, la vita è costretta a incorporarne il principio. A sacrificare la «forma» del vivente alla sua semplice sopravvivenza biologica. Ormai questo meccanismo dialettico tra conservazione e negazione della vita sembra pervenuto a un punto limite: al di là del quale si apre la drammatica alternativa tra un esito autodistruttivo e una possibilità ancora inedita che ha al centro un nuovo pensiero della comunità.

(dal risvolto di copertina di: Roberto Esposito, "Immunitas". Einaudi)

Che cosa vuole davvero dire la parola “immunità”
- di Roberto Esposito -

Dall’inizio della pandemia non si parla d’altro. Immunità personale o di gregge, naturale o indotta, temporanea o definitiva. Si aspettano test di massa per sapere se si è stati già immunizzati dal virus. Ci si chiede se il sangue di coloro che lo sono possa essere iniettato nei malati per immunizzarli a loro volta. Si aspetta di vedere, in chi è guarito, quanto duri la sua immunità – augurandosi che duri per sempre. Ma l’immunizzazione non riguarda solo la sfera medica. Anche quella sociale e politica. Cosa sono chiusura, confinamento, distanziamento se non dispositiva immunitari trasferiti dal corpo dell'individuo a quello della società? E la mascherina non è la metafora, incollata sul volto di tutti, dell'esigenza dell'immunità? Perfino l'app che molti aspettano, e che qualcuno teme, si chiama "Immuni". Cosa è, da dove nasce, dove ci sta portando questa sindrome immunitaria che sembra unificare tutti i linguaggi del nostro tempo?
Per rispondere a tali domande bisogna arretrare lo sguardo a qualcosa che ci precede di molto, segnando profondamente quella che siamo abituati a chiamare modernità. Che può anche essere intesa come un lungo processo di immunizzazione dai conflitti e dai pericoli che caratterizzavano le comunità precedenti. Se si presta attenzione all'etimologia latina della parola, del resto, ci si accorge che immunitas è il contrario di communitas. Entrambe derivano dal termine munus, che significa ufficio, obbligo, dono nei confronti degli altri. Ma mentre i membri della communitas sono uniti da questo vincolo di donazione reciproca, chi è immune ne è esonerato. E dunque protetto dal rischio che ogni relazione sociale comporta nei confronti dell'identità personale. È così sul piano giuridico-politico, in cui l'immunità diplomatica o parlamentare esautora dagli obblighi della legge comune. Ed è così sul piano medico-biologico, in cui l'immunizzazione, naturale o acquisita, protegge dal rischio di contrarre la malattia. A un certo punto questa esigenza protettiva - che ha al centro la conservazione della vita - si generalizza a tutto il corpo sociale. Lo stesso Stato, come il sistema giuridico, sono dei grandi apparati di immunizzazione dai conflitti che minacciano l'esistenza della comunità. Questa esigenza è dunque tutt'altro che recente. Ciò non toglie che si sia fatta sempre più urgente, per toccare l'apice nel nostro tempo.
Globalizzazione, immigrazione, terrorismo - eventi molto diversi tra loro - potenziano al massimo l'ansia di immunizzazione delle società contemporanee, modificando alla radice i nostri comportamenti. Si pensi, per passare a un altro ambito, agli ingenti, e spesso inutili, sforzi volti a proteggere i sistemi informatici dai virus che li insidiano. O anche alle compagnie di assicurazione, che da sempre lavorano sull'immunizzazione dal rischio. Naturalmente la pandemia porta all'estremo questo bisogno immunitario, facendone l'epicentro reale e simbolico della nostra esperienza.
Mai come oggi - sotto l'attacco del coronavirus - il paradigma immunitario è divenuto  la chiave di volta del sistema, il perno introno al quale sembra ruotare l'intera esistenza. Da qualsiasi lato - biologico, sociale, politico - si interroghi la nostra vita, l'imperativo resta lo stesso: prevenire il contagio ovunque si annidi. Naturalmente si tratta di un'esigenza reale.
Mai come oggi - in attesa del vaccino, cioè di una immunità indotta - l'immunizzazione per distanziamento è l'unica linea di resistenza dietro alla quale ci si può, e ci si deve, asserragliare. Almeno fin quando la minaccia non si allenti. Come nessun corpo individuale, così nessun corpo sociale potrebbe sopravvivere a lungo senza un sistema immunitario. Ma non va ignorato il punto limite oltre il quale questo meccanismo può funzionare senza produrre guasti irreparabili. Non solo sul piano economico. Ma su quello antropologico.
L'immunità è una protezione, ma una protezione negativa  - che ci allontana dal male maggiore attraverso un male minore. La stessa vaccinazione - speriamo arrivi al più presto - protegge immettendo nel nostro corpo un frammento, controllato e sostenibile, del male da cui si vuole difendere. Del resto il termine greco "farmaco" significa al contempo medicina e veleno. Ciò vale anche sul piano sociale. Tutto sta a rispettare le proporzioni - il delicato equilibrio tra comunità e immunità. La chiusura è necessaria. Ma fino al punto in cui la negazione non prevalga sulla protezione, minando lo stesso corpo che dovrebbe difendere. È quanto accade nelle malattie autoimmuni, quando il sistema immunitario cresce al punto di autodistruggersi. Attenzione - questa soglia potrebbe non essere lontana. Oggi, sotto la pressione del virus, l'unico modo delle nostre società di salvarsi passa per la desocializzazione. E anche per il sacrificio di alcune libertà personali. Ma fino a quando ciò è possibile senza smarrire il significato più intenso della nostra esistenza, che è la vita di relazione? La stessa immunità che serve a salvare la vita potrebbe svuotarla di senso, sacrificando alla sopravvivenza ogni forma di vita.

- Roberto Esposito - Pubblicato su Robinson del 23 maggio 2020 -

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