mercoledì 27 maggio 2020

Dottori in niente

Un altro libro su Debord, il "naufragatore", si dirà. E non si può certo dire che qui si sia "teneri" con i libri su Debord! Ma Afshin Kaveh [*] ha dimostrato, e non solo in questo libro, di aver compreso quale fosse il suggerimento (ché dire qui «insegnamento» susciterebbe di certo una giusta ilarità) di Debord, per cui « fu tracciato il programma che meglio poteva colpire di suspicione completa l’insieme della vita sociale: classi e specializzazioni, lavoro e divertimento, merce e urbanismo, ideologia e Stato, noi  abbiamo dimostrato che tutto era da buttare. E un simile programma non conteneva nessun’altra promessa che quella di un’autonomia senza freni e senza regole. (...) Esisteva sì allora qualche  individuo che si trovava d’accordo con maggiore e minor conseguenza, sull’una o sull’altra di queste critiche, ma per riconoscerle tutte non c’era nessuno; e tanto meno per saperle formulare, e  aggiornare. È per questo che nessun altro tentativo rivoluzionario di questo periodo ha avuto la minima influenza sulla trasformazione del mondo».  Credo sia il motivo per cui, in un periodo come questo, in cui non abbiamo «girato in tondo nella notte», né siamo stati «consumati dal fuoco», vale la pena accostarsi ancora ad un ulteriore lettura di Guy Debord fatta di chi, come Afshin, non abbia gli occhi foderati del «nostro prosciutto», per così dire.

Il libro
« Autodefinitosi ‘stratega’ e ‘dottore in niente’, Guy Debord (1931-1994), tra i fondatori dell’Internazionale Lettrista, dell’Internazionale Situazionista e autore de “La società dello spettacolo”, ha irreversibilmente segnato una tappa fondamentale della critica radicale nel pensiero moderno. Afshin Kaveh cede al pubblico nostrano una monografia che, non solo smentisce una serie di errori biografici presenti in tutte le edizioni italiane a lui dedicate, ma restituisce alla figura di Debord la sua giusta carica rivoluzionaria. »

[*] - Afshin Kaveh, attivista antispecista, ecologista radicale, saggista autodidatta (seppur preferisca la definizione di ‘illetterato’), musicista attivo nella scena hardcore punk e nel movimento straight edge. Nato a Sassari nel 1994 da madre sarda e padre iraniano. Autore di “Fare di tutta l’erba un fascio. La spettacolarizzazione della droga” (Sensibili alle foglie, 2017) oltre che di articoli e contributi per diverse pubblicazioni e riviste, tra cui L’urlo della Terra, Paginauno e Punto della Situazione.

(dalle note di copertina di: "Le ceneri di Guy Debord", Afshin Kaveh. Catartica.)


  Nella biografia di un «dottore in niente» dedito alle imprese smisurate
- di Alberto Giovanni Biuso -

Il «pensiero furiosamente variegato» di Guy Debord sembra inseparabile dalla sua persona, altrettanto molteplice, disseminata, estrema. Afshin Kaveh gli ha dedicato un libro dal titolo Le ceneri di Guy Debord (Catartica, pp. 164, euro 14) in cui compare in modo plurale.
«Il più grande avventuriero della nostra epoca», capace di crearsi avventure e non semplicemente viverle. Un «accanito e appassionato lettore» in grado di metabolizzare tutto ciò che leggeva in una costante pratica o di disprezzo o di détournement, di deviazione, trasformazione, inglobamento, metamorfosi dentro la propria scrittura ed esistenza. Uno stratega «della rivoluzione, della sovversione, in cui la definizione di strategia è il regno della sorpresa e dell’imprevisto». Un «dottore in niente», avverso all’accademia, all’università, a ogni istituzione culturale.
Un «burattinaio egocentrico», secondo l’accusa che gli rivolsero i situazionisti di Strasburgo quando furono espulsi dall’organizzazione, come accadde a numerosi altri che vennero cacciati prima dall’Internazionale Lettrista e poi da quella Situazionista, tanto che nel periodo dal 1957 al 1969 «fecero parte dell’Internazionale Situazionista 70 persone in tutto – le donne furono sette soltanto – di cui 45 furono escluse e 19 si dimisero».
Debord fu soprattutto un «teppista delle situazioni» che costruiva ambienti momentanei di vita dentro i quali avveniva la metamorfosi dell’esistenza individuale e collettiva, trasformata «in una qualità passionale superiore».
Ambienti e situazioni non escludenti nessuna circostanza, luogo, funzione, istituzione. Strutture dentro le quali il teppistaggio diventa per Debord un modo d’essere, divertirsi, immergersi nel nichilismo consapevole delle risse, dell’alcol, della violenza e nella lucidità strategica della loro trasformazione in azioni irrecuperabili da qualunque polizia, gerarchia, ideologia, dottrina, arte, rappresentazione.
Se quest’uomo/opera contribuì in modo determinante all’inizio e alla tensione del Maggio francese, si pronunciò assai presto contro la sostanza autoritaria e insieme imbelle del Movimento, contro il suo precoce diventare «moda». Legato soltanto alla radicalità del proprio sguardo/azione, Debord riconobbe «l’esaurimento irreversibile del proletariato, del classico movimento operaio o dei movimenti di liberazione terzomondisti» e il dominio dello spettacolare, prima nelle due forme dello Spettacolare diffuso (capitalista-occidentale) e concentrato (burocratico-sovietico), poi convergenti nello spettacolare integrato «ormai imbattibile e penetrato in ogni dove, in ogni spazio, in ogni angolo, dilatazione oggi sempre più manifesta soprattutto negli attuali rapporti sociali di consumo e produzione della realtà digitalizzata e virtuale».
È anche a causa dell’attuale dominio della sostanza spettacolare che Debord può apparire un visionario e «un insolitamente piacevole e armonioso disco rotto», risuonante la canzone di una rivoluzione necessaria e impossibile. Di se stesso Debord disse infatti: «Bisogna dunque ammettere che non c’erano né successo né fallimento per Guy Debord e per le sue imprese smisurate».
Questo avventuriero, lettore, stratega, egocentrico, teppista, è diventato a pochi anni dalla morte (1994) un classico. Sì proprio un autore ufficialmente definito dal governo francese tra i più grandi del suo tempo e il cui archivio personale venne acquistato dallo Stato nel 2010 per la cifra di 2,7 milioni di euro, versati alla vedova Alice Becker-Ho.
Una classicizzazione che sembra confermare il titolo-palindromo di uno dei suoi film: In girum imus nocte et consumimur igni, «‘Giriamo in tondo nella notte e veniamo consumati dal fuoco’. Che altro si potrebbe aggiungere?» si chiede Kaveh a chiusura del suo libro. Solo questo, forse: si tratta in ogni caso di un fuoco che dà luce.

- Alberto Giovanni Biuso  - Pubblicato sul Manifesto del 26/5/2020 -

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