venerdì 29 novembre 2019

Un'emozione più seria della felicità

Usare la catastrofe
- di Out the Woods -

Il cambiamento climatico fa parte della nostra realtà. Nel bel mezzo della tempesta, ci si presenta un'occasione, quella di rompere con il capitalismo e le sue feroci disuguaglianza. Cerchiamo di coglierla, quest'occasione, finché è possibile. È l'unica alternativa pensabile.
« Qual è la sensazione che ci coglie in occasione di così tanti disastri? » si chiede Rebecca Solnit nel suo libro del 2009, "Un paradiso all'inferno" (Fandango, 2009). Esaminando quelle che sono le reazioni umane ai terremoti, agli incendi, alle esplosioni, agli attentati terroristici e agli uragani del secolo scorso, Soint afferma che l'idea comune, secondo la quale le catastrofi rivelino, portandolo alla luce, quelli che sono i tratti peggiori della natura umana, è errata. Al posto di un'idea simile, mostra come in molti di questi eventi possiamo vedere «un'emozione più seria della felicità, ma profondamente positiva», come una speranza risoluta che galvanizza quelle che lei chiama le «disaster communities» [Comunità disastrate].
Nel momento in cui l'ordine sociale dominante fallisce temporaneamente, emerge tutta una serie di «comunità straordinarie» costituite dalla collettività ed il mutuo appoggio (fra gli esempi proposti da Solnit troviamo l'uragano Katrina, l'11 settembre 2001 ed il terremoto di Città del Messico nel 1985). In momenti così effimeri, ci dimentichiamo delle differenze sociali e ci aiutiamo a vicenda. Purtroppo, una volta che il disastro passa, queste comunità collassano. Secondo quelli che sono i termini di un libro come "Un paradiso all'inferno", il «grande compito contemporaneo» in cui dobbiamo impegnarci è la prevenzione di tale cedimento, «recuperare questa vicinanza e questo modo di essere senza né conflitto né pressione». A fronte di quella che è la calamità del riscaldamento globale, questo compito sta diventando sempre più urgente. Come distruggere gli ordini sociali che rendono così disastrose le catastrofi, mentre si rende ordinario lo straordinario comportamento umano che esse provocano?
Le argomentazioni di Solnit suonano giuste, anche se si può essere meno ottimisti riguardo a quel che è il valore intrinseco della comunità. Nell'inferno del presente, troviamo gli strumenti di cui abbiamo bisogno per costruire altri mondi, insieme ad allettanti scorci di ciò che spesso ci sembra impossibile. Ma tutto questo non è motivo per rallegrarsi, e neppure di essere ottimisti. È motivo di speranza.
Perché questa speranza possa realizzarsi, tuttavia, dobbiamo guardare al di là di quella che è la focalizzazione empirica della Solnit circa ciò che avviene come risposta a delle specifiche catastrofi, e cogliere la totalità della catastrofe capitalista. Non si tratta semplicemente di puntualizzare tutta una serie di date e di luoghi - Katrina, Harvey e Irma, 1755, 1906 e 1985 - ma piuttosto di quella che è una malattia cronica. Per molti di noi, la normalità è una catastrofe. Una risposta coerente ad un disastro così continuo dev'essere diffusa e durevole per poter avere successo. Costruire un paradiso all'inferno non basta: dobbiamo lavorare contro l'inferno, e andare oltre. Più che di comunità disastrate, abbiamo bisogno di un comunismo della catastrofe.
Certo, nel richiamarci al comunismo delle catastrofi, non stiamo insinuando affatto che la comparsa sempre più frequente di incubi eco-sociali produrrà inevitabilmente del condizioni sempre più favorevoli al comunismo. Non possiamo adottare il perverso fatalismo secondo cui tanto peggio tanto meglio, né possiamo aspettare che arrivi un uragano finale che distrugga il vecchio ordine. Al contrario, constatiamo che anche la più grande e la più terrificante delle catastrofi straordinarie può servire ad interrompere la catastrofe ordinaria che è, per la maggior parte del tempo, troppo grande per essere compresa appieno. Questi sono dei movimenti di rottura che, benché atroci per la vita umana, possono anche essere catastrofiche per il capitalismo.
Il comunismo delle catastrofi non è separato dalle lotte esistenti. Ma piuttosto ponte l'accento e sottolinea il processo rivoluzionario dello sviluppo della nostra capacità collettiva di resistere e prosperare: un movimento interno, contro e oltre la catastrofe capitalista in atto. In che modo i numerosi progetti di creazione di mini-paradisi all'inferno possono essere coerenti, essere qualcosa di più che delle comunità effimere? Il «Disaster Communism» aggiunge un epiteto chiarificatore al progetto politico ormai vecchio che è rivolto contro lo Stato, il capitale, e va oltre i suoi confini. Orienta il movimento di quello che è un potere collettivo che, benché palpabile nel corso di catastrofi straordinarie, è stato sempre lì, soprattutto nei luoghi e tra i gruppi che hanno vissuto per centinaia di anni una situazione di catastrofe ordinaria. Il cambiamento climatico sconvolge e porta alla luce quelli che sono i talenti indispensabili per queste lotte.

Capitalismo delle catastrofi: il capitale come disastro
Il geografo Neil Smith ha sostenuto in maniera convincente che non esistono disastri naturali. Definire «naturali» le catastrofi serve a nascondere il fatto che esso sono il prodotto sia di divisioni politiche e sociali che di forze climatiche o geologiche. Se un terremoto rade al suolo delle case popolari di una città, che sono state costruite male e con una cattiva manutenzione, ma lascia intatti gli edifici ben costruiti dei ricchi, il fatto di maledire la natura serve solo a consentire agli Stati, ai costruttori e ai proprietari di tuguri (per non parlare dell'economia capitalista che sta all'origine di queste disuguaglianze) di essere esentati da ogni critica. I disastri sono sempre delle coproduzioni in cui le forze naturali, così come la tettonica a zolle ed i sistemi metereologici, lavorano di concerti alle forze sociali ed economiche.
Il modo in cui avvengono le catastrofi straordinarie, non può perciò essere separato dalle normali condizioni  in cui tali catastrofi si producono. A devastare la colonia americana di Porto Rico, lasciando gli abitanti senza acqua potabile, è stata un uragano di categoria 4, Maria: un evento disastroso. Ma se ci si ferma a questo, si nasconde il fatto che prima dell'uragano il «99,5% della popolazione di Porto Rico veniva servito da dei sistemi idrici che violavano la legge sulla salubrità dell'acqua potabili», mentre «il 69,4% della popolazione dell'isola veniva servito da un sistema idrico che violava le norme sanitarie della Safe Drinking Water Act (SDWA)»; secondo quello che è un rapporto del Natural Resources Defense Council.
Eventi così devastanti non dovrebbero però servire ad eclissare altre catastrofi più lente, come quella di Flint, in Michigan, dove decenni di assenza di manutenzione insieme all'inquinamento industriale del fiume Flint e dei Grandi Laghi hanno, similmente, lasciato senza acqua potabile la classe operaia e la maggioranza delle comunità nere e latine. Facilmente trascurati a causa del fatto che questi fenomeni non hanno la drammatica potenza di un uragano o di un terremoto, simili disastri di lunga durata tracciano il confine tra la catastrofe-come-avvenimento e la catastrofe-come-condizione. Quello che per molti arriva come uno shock improvviso ed inatteso, per altri è invece il problema di una realtà quotidiana che si va intensificando.
Il cambiamento climatico aumenta in maniera considerevole la frequenza e la gravità sia di quelli che sono i disastri ad evoluzione lenta che di quelli ad evoluzione rapida. Il riscaldamento globale produce un aumento della quantità di energia in circolazione nell'atmosfera e sulla superficie degli oceani. Per esempio, quando gli oceani caldi creano delle cellule di bassa pressione, l'energia termica, sotto l'influenza della rotazione della Terra, viene convertita in energia cinetica, caratteristica degli uragani e delle tempeste tropicali. Temperature più clade generano più energia, e questo surplus di energia in un modo o nell'altro si deve manifestare. (L'energia non può essere distrutta: non può fare altro che cambiare forma.) La fisica di questo processo è diabolicamente complessa e difficile da modellare, ma si possono fare delle previsioni.
L'ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) sull'evoluzione del clima suggerisce che il cambiamento climatica perturberà l'approvvigionamento di cibo ed acqua, danneggerà case ed infrastrutture, provocherà siccità ed inondazioni, ondate di calori ed uragani, mareggiate e incendi boschivi. I progressi della scienza e le conoscenze ottenute a partire da quel semplice grado Celsius di riscaldamento globale oggi esistente, hanno permesso di quantificare quale sia stato il contributo del cambiamento climatico ad ogni avvenimento meteorologico estremo. Oggi possiamo stabilire un legame tra il riscaldamento del pianeta e quelle calamità come l'ondata di calore europea del 2003, o l'ondata di calore russa del 2010, ciascuna delle quali ha ucciso decine di migliaia di persone, per non parlare delle innumerevoli tempeste, inondazioni ed altri eventi metereologici.
Il fatto che il cambiamento climatico sia in sé di origine umana (o piuttosto di origine capitalista) sottolinea ancora dell'altro quella che è l'impossibilità di separare gli eventi catastrofici dalle condizioni disastrose del loro avvenire. La relazione tra le due cose va nei due sensi: le condizioni generano degli eventi che, a loro volta, approfondiscono quelle condizioni. L'obiettivo dello Stato-nazione , durante ed immediatamente dopo una catastrofe straordinaria, è generalmente quello di imporre l'ordine, piuttosto che aiutare i sopravvissuti, e ciò perché generalmente le catastrofi esacerbano la catastrofe soggiacente che è il capitalismo. Quando ci fu, nel 1906, il terremoto di San Francisco venne inviato l'esercito. Vennero uccisi tra i 50 e i 500 sopravvissuti e vennero fermati tutti gli sforzi auto-organizzati di ricerca, salvataggio e lotta contro gli incendi. I tentativi statali di gestione delle catastrofi si sono rivelati come disordinati, distruttivi delle forme di auto-organizzazione da parte della base. La reazione dello Stato americano nei confronti dell'uragano Katrina, a New Orleans, è stato contrassegnato da una simile reazione repressiva contro il «saccheggiatori» (vale a dire, i sopravvissuti). Il 4 settembre 2005, sul Danziger Bridge, sette poliziotti aprirono il fuoco su un gruppo di neri che tentavano di scappare dalla città allagata, uccidendo due persone e ferendone altre quattro. L'assassinio di sopravvissuti neri in cerca di salvezza illustra quali siano i mezzi con cui lo Stato cerca di fermare le possibilità di emancipazione che potrebbero emergere in simili catastrofi.
In queste situazioni, lo Stato cerca solo un ritorno a una normalità disastrosa per i poveri, i migranti ed i neri. Tali misure sono contrarie a quanto raccomandano i sociologhi della catastrofe, persino quelli tra loro che sono più "mainstream". egli anni '60, per esempio, lo stratega militare, poi diventato sociologo, Charles Fritz sostenne strenuamente che lo stereotipo di un individualismo antisociale, del fiorire di un'aggressività generalizzata nel corso della catastrofe non si basava su alcuna realtà. Sottolineò inoltre con perspicacia che la distinzione tra le catastrofi e la normalità può «facilmente trascurare le numerose fonti di stress, di tensione, di conflitto e di insoddisfazione che sono insite [sic] nella natura della vita quotidiana».
Tuttavia, le disastrosi macchinazioni dello Stato del capitale non si limitano agli eventi localizzati e puntuali, ma si susseguono dalle vicinanze a tutto il pianeta. Com'è stato dimostrato da scrittori come Naomi Klein e Todd Miller, le catastrofi straordinarie vengono utilizzate per prolungare, rinnovare ed estendere gli ordinari disastri dell'austerità, della privatizzazione, della militarizzazione, del mantenimento dell'ordine, dell'istituzione di frontiere. Si tratta del capitalismo della catastrofe: un circolo vizioso nel quale le catastrofi ordinarie esasperano le catastrofi straordinarie, e viceversa.
Gli eventi disastrosi permettono allo Stato di attuare ciò che Klein chiama la «strategia dello shock». Tale processo implica, per le infrastrutture degli alloggi, dell'energia e della distribuzione che sono state distrutte, una riedificazione secondo quelli che sono gli standard liberali, fissare i prezzi dell'elettricità o dell'acqua potabile per i poveri, costringendoli a trasferirsi in dei luoghi ancora più vulnerabili al cambiamento climatico, per incarcerarli quando resistono o tentano di attraversare le frontiere per sfuggire a questa situazione insostenibile. Nei mesi successivi all'uragano Maria, Porto Rico è stata oggetto di nuove privatizzazioni, di un deterioramento delle condizioni lavorative e dell'arrivo di colonizzatori verdi: dei sedicenti benefattori  come Elon Misk che nascondono le loro ultime aziende iper-capitaliste dietro il velo del recupero ambientale. La storia di Flint è simile, con le offerte fatte da Musk per risolvere i problemi infrastrutturali.
Le forze che agiscono nell'interesse dello Stato e del capitale assumono evidentemente più forma. Gli attivisti del Common Ground Collective che fornivano aiuti di emergenza in seguito all'uragano Katrina sono stati intensivamente perseguitati non solo da dei poliziotti razzisti, ma anche da dei bianchi armati locali che hanno colto l'occasione per fare la loro parte nello scenario post-apocalittico, con la tacita approvazione, se non la facilitazione attiva, della polizia.

Sopravvivere aspettando la rivoluzione
Lo studio delle condizioni di vita e degli avvenimenti catastrofici ci insegna che il cambiamento climatico non è semplicemente una conseguenza involontaria della produzione capitalistica, bensì una crisi della riproduzione sociale (un termine che da riferimento alle strutture sociali che si auto-perpetuano e che consentono così la sopravvivenza quotidiana e generazionale mantenendo le ineguaglianza). Riconoscerlo, non solo ci dà un nuovo punto di vista sul problema, ma ci fornisce anche una speranza. È importante ricordare che la vita dei poveri, dei diseredati e dei colonizzati non vengono modellate unicamente dalle catastrofi. Ma implicano, in ogni momento, delle forme di sopravvivenza e di tenacia, spesso sotto forma di conoscenze ed abilità che vengono trasmesse di generazione in generazione.
Come afferma il filosofo Kyle Powys Whyte, mentre i popoli indigeni hanno familiarità con le catastrofi (a causa di aver subito centinaia di anni di tentato dominio coloniale), essi hanno sviluppato nel corso di queste centinaia di anni le competenze necessarie a resistere e a sopravvivere alle catastrofi sia ordinarie che straordinarie. La studiosa femminista marxista Silvia Federici, da parte sua, ha dimostrato come il capitalismo abbia da tempo cercato, senza successo, di sradicare violentemente ogni forma di sopravvivenza non capitalistica. Nel suo saggio del 2001, "Donne, Globalizzazione e il Movimento Internazionale delle Donne", afferma che «se la distruzione dei nostri mezzi di sussistenza è indispensabile per la sopravvivenza delle relazioni capitaliste, allora dev'essere questo il nostro terreno di lotta».
Tale lotta ha avuto luogo dopo il terremoto di Città del Messico del 1985, quando i proprietari terrieri e gli speculatori immobiliari videro l'occasione per poter finalmente espellere delle persone di cui volevano da molto tempo sbarazzarsi. I loro tentativi di demolire gli alloggi a basso costo, per sostituirli con degli immensi edifici molto costosi, sono chiari esempi della dinamica capitalista. Però, gli abitanti di quelle case, membri della classe operaia, reagirono con grande successo. Migliaia di locatari marciarono sul Palazzo Nazionale, reclamando che il governo espropriasse le case danneggiate, per poi venderle agli inquilini. In risposta, vennero espropriate circa 7.000 proprietà immobiliari. Ecco, quindi, che qui vediamo come le catastrofi straordinarie non creino solamente degli spazi attraverso cui lo Stato ed il Capitale possano consolidare il proprio potere, ma che creino anche degli spazi perché si possa resistere loro: si tratta di una «strategia dello shock di sinistra», tanto per riprendere la formulazione di Graham Jones.
Il disastro ordinario consistente nel capitalismo, infatti può essere interrotto da questi incidenti, i quali, per quanto siano orrendi per la vita umana, provocano anche la rovina momentanea del capitalismo. In un suo saggio del 1988, dal titolo "The uses of an earthquake" ["Gli utilizzi di un terremoto"], Harry Cleaver suggerisce che una simile interruzione sia particolarmente probabile quando collassano, in seguito a delle catastrofi straordinarie, quelle che sono le capacità amministrative e l'autorità dei governi. Una tale rottura, potrebbe essere forse ancora più probabile in quei luoghi dove la governance si basa sulla sorveglianza, sugli Smart Data e sulle tecnologie informatiche.
Cleaver sottolinea inoltre l'importanza che hanno, nei quartieri colpiti dal sisma, le storie di organizzazione collettiva. I sopravvissuti acquisiscono dei legami organizzativi, una cultura di mutuo soccorso e dei sentimenti di solidarietà. Grazie alle precedenti relazioni, gli inquilini sapevano che potevano sostenersi vicendevolmente. Questo punti è fondamentale, in quanto ci permette di comprendere la comunità della catastrofe, non semplicemente come se fosse una reazione spontanea a delle catastrofi straordinarie, ma piuttosto come se sulla scena delle lotte quotidiane per la sopravvivenza, irrompessero delle pratiche di mutuo soccorso. Esperire tali pratiche, nei termini di un'organizzazione contro le catastrofi ordinarie del capitalismo, ha fatto sì che gli abitanti si trovassero già ben preparati per poter affrontare una catastrofe straordinaria.
Infatti, le relazioni di mutuo appoggio preesistenti sono state assai efficaci nel supportare le popolazioni colpite dall'uragano Maria. "Centros de Apoyo Mutuo" è una rete di mutuo soccorso decentralizzata che trae la propria forza da dei gruppi, da strutture e pratiche già prestabilite. Questa rete ha distribuito cibo, ha ripulito i detriti ed ha ricostruito l'infrastruttura dell'isola. E lo ha fatto ancora più rapidamente, e con maggiore attenzione ai bisogni degli abitanti, rispetto alle reti di aiuto e logistica internazionali. Attraverso una logica di bricolage, o dell'«arte di accontentarsi di quello che è a portata di mano», i centri di muto soccorso dimostrano che dei non-esperti possono acquisire e condividere rapidamente gli strumenti e le competenze per sopravvivere. Così facendo, essi creano anche delle nuove forme di solidarietà e di vita collettiva che vanno al di là della sopravvivenza.
«Queste tempeste hanno investito tutto il paese e distrutto molte cose» - dice Ricchi, membro della rete americana Mutual Aid Disaster Relief. «Hanno distrutto la rete elettrica, impedendo l'accesso al cibo e all'acqua, ed hanno messo al buio l'isola di Borikén [nome indigeno taïno per Porto Rico]. Ma in questa oscurità, si sono svegliati numerosi Boricuas [Portoricani], e sono rimasti svegli fino a tardi, alzandosi poi presto, facendo il lavoro di riproduzione della vita».
La vita non è solamente una routine: ci sono dei gruppi che organizzano delle feste, dei corsi di danza, delle sessioni di cucina collettiva, in modo che, al di là della disperazione, si possa aprire un orizzonte comune.
In un certo senso, convenzionale e strettamente economico, in queste situazioni si verifica una penuria, benché tale penuria sia controbilanciata da un'abbondanza di legami sociali. Inoltre, le catastrofi straordinarie ci possono spingere a riconoscere come la scarsità sia una relazione sociale, anziché limitarsi alla semplice constatazione di quella che è una mancanza quantitativa: il modo in cui i beni e le risorse vengono distribuite, determina coloro che le possono utilizzare. All'indomani dell'uragano Sandy, venne superata quella che era una «penuria» di utensili, non per mezzo della produzione o dell'acquisizione di altri strumenti, ma attraverso una nuova organizzazione. In alternativa alle relazioni sociali individualizzanti e mercificate, le quali dominano il capitalismo, vennero create delle biblioteche di utensili. Queste cose ci mostrano come non bisogna associare troppo precipitosamente il cambiamento climatico ad un incremento della scarsità.

Migrazione e Catastrofe
Assai spesso, le comunità vengono definite a partire dal loro essere confinate all'interno di un luogo geografico preciso, e tutte quelle cha abbiamo citato fin qui corrispondono di certo a tale definizione: esse reagiscono a delle catastrofi straordinarie che avvengono sui luoghi stessi delle catastrofi. Tuttavia, è chiaro come il cambiamento climatico costringa delle popolazioni a spostarsi da un luogo ad un altro, in modo tale che organizzarsi contro i suoi effetti disastrosi richieda anche delle comunità di solidarietà più ampie. Il numero di persone che vengono attualmente classificate come «sfollati forzati», secondo quelle che sono le cifre fornite dall'ONU, ammonta a 68,5 milioni. L'accelerazione di questa ondata di spostamenti, non può essere ignorata. Entro il 2050, si prevede che 200 milioni di persone saranno «sfollati per motivi ambientali»: costretti a migrare a causa delle catastrofi, ordinarie e straordinarie, seguendo la scia di un mondo che non fa altro che riscaldarsi. Come dire, sottolineando questa cifra, 1 persona su 50, nel mondo.
Attualmente, molte persone si trovano ad essere sfollate all'interno dei propri paesi, e solo una una piccola percentuale di loro è diretta in Europa, nel Nord America o in Australia. Tuttavia, man mano che il clima si destabilizza e che le condizioni di vita si aggravano, molto di quei luoghi che attualmente vengono usati come dei rifugi diverranno inabitabili. Viaggiare nelle zone ad alta latitudine e attraversare le frontiere dei paesi ricchi che le occupano diverrà quindi sempre più essenziale per le popolazioni. Il fatto di viverci rende una persona meno vulnerabile agli eventi catastrofici, soprattutto anche perché le Stati-nazione ricchi sono quelli meglio attrezzati - quantomeno finanziariamente - per mitigarli.  La tendenza globale allo spostamento verso il nord avrà probabilmente l'effetto di intensificare gli sforzi per difendere quelle zone: quello che sorprendentemente auto-proclamatosi come «complesso militare-ambientale-industriale», è già sul punto di pianificare delle nuove forme di violenza per difendere i suoi confini. Gli sforzi comuni volta a combattere tale violenza costituiranno una delle più importanti lotte contro le catastrofi climatiche.
Mentre scriviamo queste righe, negli Stati Uniti ci sono molti servizi doganali e d'immigrazione che vengono bloccati, nel quadro di un tentativo nazionale di disturbare le loro operazioni di rastrellamento e di deportazione. Nel Regno Unito, dei militanti sono riusciti a vanificare i tentativi del governo di estendere alle scuole l'applicazione della legge sull'immigrazione, nell'ambito della sua politica «di ambiente ostile» [politica nata nel 2012, contro gli «immigrati illegali»]. A Glasgow, negli anni '90, un progetto di gemellaggio tra i migranti recenti ed i residenti locali ha avuto un tale successo che le comunità operaie sono intervenute per ostacolare i raid della polizia che volevano deportare i loro nuovi amici e vicini. A nostro avviso, si tratta anche qui di comunità disastrate, ed esse non sono meno importanti di quelle del Messico dopo il 1985 e di New Orleans dopo Katrina.
Queste comunità del disastro, perciò, costituiscono dei barlumi di speranza: microcosmi di una mondo formatosi in maniera differente. Una riproduzione sociale orchestrata non per mezzo del lavoro salariato, le merci, la proprietà privata, e tutta la violenza associata a queste cose, ma attraverso la cura, la solidarietà, e la passione per la libertà. L'ordinario, insistono, non è un dato di fatto.

Il Paradiso contro l'Inferno
Questa speranza è vitale, ma troppo spesso la speranza ci uccide. Noi abbiamo bisogno di qualcosa di più dei microcosmi, soprattutto perché tali esperienze possono essere preziose anche per il capitale. Qui, è importante notare come il capitale non sia affatto omogeneo: ciò che è buono per alcuni capitalisti è cattivo per degli altri, e ciò che è cattivo per dei singoli capitalisti nel breve periodo può essere buono per il capitale a lungo termine. Pertanto, mentre le comunità disastrate possono essere sinonimo di cattive notizie per alcuni capitalisti e per alcuni attori statali, ce ne saranno altri che cercheranno di sfruttarle per trarne profitto. Come ci ricorda Ashley Dawson, il Dipartimento della Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti ha lodato"Occupy Sand", un'operazione di salvataggio influenzata dagli anarchici, avvenuta dopo il passaggio dell'uragano a New York nel 2012. Facendo efficacemente ciò che lo Stato e le forze del mercato non potevano fare, il progetto di Occupy ha permesso alla vita sociale di continuare, offrendo a quelle forze di avere qualcosa da recuperare dopo che venisse ristabilito lo status quo. E lo hanno fatto senza che costasse nulla allo Stato.
Una simile narrazione è parziale, ovviamente, e non tiene nessun conto del valore pedagogico delle comunità disastrate. In tutta la sua pienezza, questo valore è simultaneamente sia positivo che negativo: il «» che si sente risuonare nei confronti di questi altri modi di vivere grida «No» a quello che è l'ordinario disastro del Capitale. La riproduzione sociale che è stata adottata costituisce un cambio di direzione: un tentativo di riprodurci in maniera diversa, e di resistere ad un ritorno allo status quo che ci porterà solo all'esaurimento dei nostri corpi e del nostro ecosistema.
Lo vediamo chiaramente in un buon numero di comunità colpite dal disastro e che risorgono in risposta a quelli che sono i confini. Come ha dimostrato brillantemente Harsha Walia con il suo "Undoing Border Imperialism", in cui non si aiutano solamente le persone a contrastare la violenza delle frontiere, ma si resiste al concetto stesso di confine, sommariamente sottolineato dalla rivendicazione, assai diffusa, di abolizione delle frontiere. In effetti, questo slogan arriva addirittura ad evocare simultaneamente sia l'affermazione che la negazione sulle quali insistiamo: opporsi ad un aspetto di questo mondo, nello stesso momento in cui descriviamo quali sono le caratteristiche dell'altro. Questa è un'operazione contro l'inferno, che viene svolta al suo interno.
Una negazione simile avrà indubbiamente bisogno di andare oltre il conforto associato al concetto dominante di comunità. Di fonte ai poliziotti ed ai miliziani razzisti all'indomani dell'uragano Katrina, il Common Ground Collective (GCG) si impegnò nell'autodifesa armata, ispirandosi alle Black Panthers e ad altri gruppi radicali. E i conflitti non esisteranno solo esternamente alla comunità: il GCG ha dovuto anche affrontare dei simpatizzanti che erano più interessati al turismo che al loro sforzo di prestare soccorso. Le comunità disastrate non sono immuni all'accumulazione della violenza, che costituisce un disastro quotidiano: la misoginia, la supremazia bianca, il disprezzo di classe, l'abilismo, il razzismo, e tutte le numerose forme di oppressione che intersecano e che si infiltreranno, purtroppo, nella loro organizzazione. Le comunità disastrate dovranno apprendere a risolvere i problemi in maniera diversa, mobilitando strumenti sociale e processi di responsabilizzazione che molti militanti sviluppano già oggi.

Il Paradiso oltre l'Inferno
Il capitalismo si trova bene, è a proprio agio con la comunità. Troppo spesso, il termine viene usato per etichettare la resilienza di cui il capitalismo stesso ha bisogno per poter sopravvivere ad un catastrofe ordinaria e straordinaria. Viene chiamata comunità, la collettività deprivata di ogni potere trasformativo.
Non possiamo abbandonare del tutto il concetto di comunità: una proposta simile sarebbe inutilmente idealistica, dato la diffusione dell'utilizzo del termine. Ma riferirsi alle comunità del disastro come quelle discusse qui, come se fossero delle mere «comunità»  significa negarne il potenziale, relegandole ad un presente in cui sono eternamente ammirevoli, ma non trasformative. Ragion per cui, continuiamo ad insistere sul comunismo. Laddove il comunismo viene comunemente associato all'abbondanza materiale creata dalla produzione capitalistica, il comunismo dei disastri appare fondato sull'abbondanza collettiva delle comunità disastrate. Si tratta di un esproprio dei mezzi di riproduzione sociale.  Ovviamente, non ci possiamo aspettare che ogni risultato sarà immediatamente comunista (la proprietà privata non è stata abolita in quelle comunità di Città del Messico, per esempio). Il nostro uso del termine indica l'ambizione ed il funzionamento esteso di un movimento oltre le manifestazioni ed i risultati specifici, la sua diffusione nello spazio e la sua esistenza continua al di là delle catastrofi straordinarie. Designa l'ambizione di far sì, niente meno, che il mondo intero penetri l'abbondanza che può essere trovata nella riproduzione sociale della comunità dei disastrati- In quanto tale, corrisponde alla definizione data da Marx: «il movimento reale che abolisce lo stato attuale delle cose.»
Il comunismo del comunismo delle catastrofi è pertanto una mobilitazione trasgressiva e trasformativa senza la quale la catastrofe non può essere, né verrà, arrestata. Si tratta, allo stesso tempo, sia dello smantellamento delle molteplici ingiustizie strutturali che perpetuano e traggono la loro forza dalle catastrofi, e la promulgazione e l'attuazione di una capacità collettiva generalizzata capace di durare e di prosperare su un pianeta che cambia rapidamente. È estremamente ambizioso ed esige - fra gli altri monumentali progetti - una redistribuzione delle risorse a più livelli, richiede delle riparazioni sia al colonialismo che alla schiavitù, l'espropriazione della proprietà privata per le popolazioni indigene e l'abolizione dei combustibili fossili.
Chiaramente, non siamo ancora a questo punto. Ma come ha sottolineato Ernst Bloch, questo «non ancora» fa parte anche del nostro presente. Nelle risposte collettive alle catastrofi, noi constatiamo che esistono già quelli che sono numerosi strumenti per poter costruire questo nuovo monte. Quando Solnit parla di una tale emozione «più seria della felicità», che motiva le persone in seguito ad un disastro, riesce ad intravvedere «chi siamo e che questa nostra società potrebbe diventare qualcos'altro». In mezzo alle rovine, nel contesto della terribile possibilità aperta dalla rottura, trovandosi di fronte le condizioni che producono una tale rottura, e nel momento in cui cerchiamo di capitalizzarle, ci troviamo vicini al cambiamento completo, al generalizzarsi del sapere che tutto - e ciascuno - può ancora trasformarsi. In altre parole, nella risposta collettiva alle catastrofi, riusciamo a intravvedere un movimento reale che potrebbe ancora abolire lo stato attuale delle cose.

- Out of the Woods - Pubblicato su Agitations il 20/11/2019 -

fonte: Agitations





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