«La mia storia d’amore con la rivoluzione è profondamente infelice...» scrive a Gor’kij dalla Finlandia, dov’era fuggito per evitare l’arresto, Viktor Šklovskij. È il 15 aprile 1922. A Mosca si preparava il processo ai «socialrivoluzionari di destra», e Šklovskij aveva militato nelle cellule clandestine del Partito socialrivoluzionario. «Negli allevamenti di cavalli ci sono stalloni che chiamano “ruffiani” ... Il ruffiano monta sulla giumenta, lei prima si rifiuta e scalcia, poi inizia a concedersi. A quel punto il ruffiano viene trascinato via e fanno entrare il vero riproduttore ... Noi socialisti abbiamo “scaldato” la Russia per i bolscevichi...». E mentre attende di poter partire per Berlino, comincia a scrivere nuove – le più ardue, dolorose – memorie del recente passato. Nasce così Viaggio sentimentale, titolo che è un palese e sorridente omaggio a Sterne, lo scrittore da lui «resuscitato in Russia». La prima guerra mondiale, la rivoluzione d’Ottobre e la lotta fratricida che ne seguì – tutto è raccontato da un testimone che, per nostra fortuna, non ha pretesa alcuna di imparzialità. È semmai la scrittura, l’inconfondibile e celebrata paratassi šklovskiana (frasi essenziali, brevi, dai legami sintattici e logici ridotti al minimo), a illuminare di verità il racconto – erratico, digressivo e aberrante come i fatti che cambiarono la storia del XX secolo.
Grande bricoleur, teorico della letteratura e «narratore professionista» che riesce, parlando, raccontando, a confondere anche la polizia politica che gli dà la caccia, Šklovskij ha scritto con Viaggio sentimentale il suo libro più bello, dove alla sapienza nell’organizzare un materiale ancora caldo, grondante stupore, pietà e sdegno, si unisce l’abilità nel fondere due piani – dei fatti e della memoria, della visione e della coscienza morale – sempre intermittenti. E, ancor più, un libro indispensabile per chi voglia assistere dal vivo, quasi in presa diretta, alla «fine dello spettacolo “Russia”».
(dal risvolto di copertina di: Viktor Šklovskij, “Viaggio Sentimentale”. Adelphi.)
Rivoluzione sentimentale
- di Tommaso Munari -
«Sono nato nel 1893, un mio nonno era guardia forestale, l'altro giardiniere, mio padre maestro rurale. Nacqui a Pietroburgo, là terminai il ginnasio, mi iscrissi all'Università, fondai la "società per lo studio della lingua poetica"». Così, Viktor Šklovskij si presentava alla radio italiana il 27 ottobre 1967. La sua fidata traduttrice, Maria Olsoufieva, gli faceva da interprete. In Italia per promuovere tre suoi libri pubblicati da Da Donato (Teoria della prosa, Viaggio sentimentale, La mossa del cavallo), Šklovskij raccontava agli ascoltatori di aver provato invano a diventare scultore, di essersi dedicato allo studio del linguaggio poetico, di aver combattuto sul fronte orientale e, soprattutto, di aver preso parte come aiuto-commissario alla «Rivoluzione socialista»: «Il paese si sfasciava, e Pietroburgo si trovò tagliata fuori dal resto del paese. Un governo autonomo, e straniero, si era formato in Ucraina, un altro in Siberia, un altro ancora in Estonia, la città era bloccata. Esistono i "blocchi cardiaci" quando cessano i flussi nervosi. Ma il nostro cuore continuò a battere».
Quando Šklovskij rilasciò questa intervista, erano trascorsi cinquant'anni dalla Rivoluzione russa. Oggi, che ne sono trascorsi cento, l'Adelphi ripubblica il suo Viaggio sentimentale in una nuova, puntuale e scorrevole traduzione di Mario Caramitti (più fedele allo spirito dell'originale rispetto a quella, pur degnissima, della Olsoufieva del 1966).
Il Viaggio sentimentale di Šklovskij è un viaggio nel tempo e nello spazio. Il tempo è quello che va dal febbraio del 1917 al maggio del 1922, ovvero dalla rivolta degli operai e dei soldati pietrogradesi, che portò al crollo del regime zarista, all'inizio dell'esilio tedesco dell'autore (ricercato dalla Čeka in quanto socialista rivoluzionario), pochi mesi prima della proclamazione dell'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche. Lo spazio è quello sterminato dell'impero russo, dalla Galizia alla Persia, attraverso il Caucaso, il Caspio, il Dnepr e la Volga, passando per le città di Kiev, Urmia, Tiflis, Mosca e Pietroburgo, dove queste memorie si aprono e si chiudono.
Memorie o diario? Memorie, come recita il sottotitolo; ma quasi diario, come indica la data di pubblicazione (1923), a ridosso dei fatti narrati. Se è vero infatti che Šklovskij cominciò a comporre il Viaggio due anni dopo l'inizio del racconto («Prima della rivoluzione ero istruttore in un battaglione corazzato di riserva», recita l'incipit), è anche vero che lo concluse facendo convergere il tempo della storia e quello della narrazione («E adesso vivo in mezzo agli émigrés, e anche io mi vado trasformando in un'ombra tra le ombre»).
Come accade in molti diari o memorie, Šklovskij racconta la propria vita - di soldato allo scoppio della rivoluzione, di commissario durante il governo provvisorio, di cospiratore contro la dittatura bolscevica e di professore alla fine della guerra civile - sull'immenso sfondo della Storia. Immenso a tal punto che su di esso egli non ha, suo malgrado, alcun potere, «come un ago senza filo, che passa attraverso il tessuto senza lasciare traccia» (p.273). Un'altra metafora impiegata da Šklovskij per descrivere la propria irrilevanza rispetto alla Storia è quella della zattera in balìa della tempesta. E un'altra, più inconsueta ma ricorrente, è quella della pietra che cade, impotente contro la forza di gravità.
A un primo sguardo, il Viaggio sentimentale si presenta come una testimonianza. Dei caratteri della testimonianza possiede lo slancio al racconto, lo stile etnografico e l'aspirazione alla verità. L'autore stesso, a p.41, dichiara programmaticamente: «Non voglio essere un critico degli eventi, voglio solo fornire un po' di materiale per i critici. Racconto gli eventi, e di me stesso faccio, per le generazioni a venire, un campione da laboratorio». E infatti le pagine sull'esperienza della trincea (un orizzonte di fili d'erba), sulla ritirata dalla Persia (la Catabasi russa), sulla vita alla Case delle arti (l'arca di Gor'kij contro il diluvio) hanno la forza asciutta e diretta di un documento. Così come hanno la precisione di una perizia quelle in cui l'autore descrive psicologie, motori, armi, cadaveri e ferite, incluse le proprie: lo squarcio prodotto da un proiettile che lo colpì all'addome, le ustioni causate da una bomba che gli esplose tra le mani.
Ma a uno sguardo più attento, queste memorie si rivelano un sofisticato congegno letterario. Abituato per mestiere a smontare e rimontare i grandi classici della letteratura, Šklovskij ne conosce alla perfezione i meccanismi («la motivazione delle forme»), che applica a sua volta al proprio libro. È lui stesso a dirci, a un certo punto del racconto, che le uniche descrizioni verosimili della guerra a lui note sono quelle contenute nella Certosa di Parma e in Guerra e pace, e che dunque non esiste contraddizione fra verità e romanzo. Oltre che a Stendhal e Tolstoj, Šklovskij compie il suo Viaggio guardando a Hoffmann, Puškin, Turgenev, Thackeray e soprattutto a Laurence Sterne. Da Sterne prende a prestito non solo il titolo del suo capolavoro incompiuto, ma anche alcuni raffinati espedienti stilistici e narrativi: l'andamento digressivo, lo spostamento temporale, il racconto del racconto. E se nel Viaggio di Šklovskij non c'è traccia del malinconico umorismo che percorre quello di Sterne, entrambi sono pervasi da una fiducia simile nella bontà dell'uomo.
Nel caso di Šklovskij, tuttavia, questa fiducia non nasce da un gusto e un clima culturali, ma è l'esito sofferto di un'esperienza biografica: «Se - scrive a p.132 -, invece di provare a fare la storia, provassimo semplicemente a considerarci responsabili dei singoli atti che la compongono, forse gli esiti non sarebbero così grotteschi. Non la storia bisogna fare, ma la propria biografia».
Per questo, in due sfoghi inaspettati che spezzano il racconto, condanna tra le lacrime un pogrom contro i curdi di cui è stato testimone in Persia e le atrocità commesse da bolscevichi e contadini nella Russia orientale. Per questo, nelle ultime pagine delle sue memorie, commemora col cuore infranto tre uomini che, resistendo ai violenti impulsi della storia, hanno continuato a svolgere il proprio lavoro con coscienza. E per questo si può dire anche di lui ciò che Foscolo scrisse di Sterne nella premessa alla propria traduzione del Sentimental Journey (1813): imparò «che ogni lagrima insegna a' mortali una verità».
- Tommaso Munari - Pubblicato sul Sole del 10/11/2019 -
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